La Suprema Corte di Cassazione, con la decisione summenzionata, ha stabilito che la “violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza sussiste solo quando, nella ricostruzione del fatto posta a fondamento della decisione, la struttura dell’imputazione sia modificata quanto alla condotta, al nesso causale ed all’elemento soggettivo del reato, al punto che, per effetto delle divergenze introdotte, la difesa apprestata dall’imputato non abbia potuto utilmente sostenere la propria estraneità ai fatti criminosi globalmente considerati” poichè, ai fini del giudizio de quo, occorre tener “conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicchè questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione”.
Nella specie (relativa a reato di omicidio colposo, ove l’imputato, tratto a giudizio per avere disposto la rimozione di cartelli che segnalavano un cantiere stradale, era stato poi condannato per non avere consentito il ripristino della segnaletica predetta), è stato ritenuto corretto l’operato dei giudici di merito visto che il nucleo centrale della contestazione, ovvero “l’assenza dal servizio per patologie ritenute inesistenti con induzione in errore dell’Amministrazione e percezione dell’ingiusto profitto conseguente alla percezione degli emolumenti anche durante il periodo di assenza”, era “rimasto immutato ed il mancato riferimento alla falsità dei certificati medici non vale ad escludere la ipotizzata simulazione dell’infermità che avrebbe reso l’imputato inidoneo al servizio”.
Orbene, tale approdo ermeneutico si innesta lungo il solco di un orientamento nomofilattico secondo il quale, “per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa”[1] siccome l’imputato deve essere messo in condizione “di difendersi in relazione a tutte le circostanze del fatto”[2].
Difatti, ai fini del giudizio de quo, occorre acclarare “se sia mutato il fatto, vale a dire se risulti radicalmente trasformata la fattispecie concreta contestata in maniera tale da risultare incerto l’oggetto della contestazione”[3] rilevato che, ricorre tale error in procedendo, “ogni qual volta la nuova e diversa qualificazione del fatto si basi su elementi strutturalmente diversi da quelli caratterizzanti la qualificazione originaria”[4] “nel senso che si sia realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito nei confronti dell’imputato, tanto da realizzare un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisce un reale pregiudizio dei diritti della difesa”[5].
Del resto, tale approdo ermeneutico è stato cristallizzato nell’arresto giurisprudenziale del 2010[6] con cui gli Ermellini hanno precisato, in eguale misura, che, in “tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa”.
Tale violazione procedurale, dunque, ricorre nella misura in cui “nei fatti -rispettivamente descritti e ritenuti- non sia possibile individuare un nucleo comune, con la conseguenza che essi si pongono, tra loro, non in rapporto di continenza, bensì di eterogeneità”[7] fermo restando che una diversa qualificazione giuridica del fatto è consentita solo se “il fatto storico addebitato rimanga identico, in riferimento al triplice elemento della condotta, dell’evento e dell’elemento psicologico dell’autore”[8] nel senso che la struttura dell’imputazione non “sia modificata quanto alla condotta, al nesso causale ed all’elemento soggettivo del reato, al punto che, per effetto delle divergenze introdotte, la difesa apprestata dall’imputato risulti incompatibile con una sua discolpa”[9].
In effetti, “il fatto di cui agli art. 521 e 522 c.p.p. va definito come l’accadimento di ordine naturale dalle cui connotazioni e circostanze soggettive ed oggettive, geografiche e temporali, poste in correlazione fra loro, vengono tratti gli elementi caratterizzanti la sua qualificazione giuridica, sicché la violazione del principio postula una modificazione – nei suoi elementi essenziali – del fatto, inteso come episodio della vita umana, originariamente contestato”[10] tale da determinare “uno stravolgimento dell’imputazione originaria”[11] in grado di cagionare “una incertezza sull’oggetto dell’imputazione”[12] idonea, a sua volta, ad arrecare “un reale pregiudizio dei diritti della difesa”[13].
Invero, in casi di questo tipo, “il fatto contestato risulta del tutto diverso dal fatto accertato dalla pronuncia”[14] sicchè il fatto ritenuto in sentenza si trova “rispetto a quello contestato, in rapporto di ontologica eterogeneità o incompatibilità, nel senso che viene a realizzarsi una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell’addebito nei confronti dell’imputato posto in tal modo di fronte ad un fatto”[15] diverso avendo “connotati materiali difformi da quelli descritti nel decreto che dispone il giudizio”[16].
Al contrario, “il fatto tipico rimane identico a quello contestato e se ne modificano solo nei dettagli le modalità di realizzazione, non vi è immutazione”[17].
In sostanza, il potere del giudice del dibattimento di attribuire al fatto una diversa qualificazione giuridica, deve essere esercitato “nel rispetto rigoroso delle esigenze del pieno contraddittorio, in applicazione del principio costituzionale del giusto processo”[18] dovendosi escludere un potere decisorio di tal tipo “se, tra il fatto-reato contestato e quello che il giudice, alla luce delle emergenze processuali, ritiene di individuare sub specie iuris, vi sia un rapporto di piena e irriducibile diversità, senza una matrice di condotta unitaria[19].
Cosicchè ne consegue che “l’indagine volta ad accertare la violazione del principio in esame non si esaurisce nel mero confronto puramente letterale tra contestazione e sentenza, ma deve tenere conto anche dell’intero percorso processuale e della concreta condizione di difesa dell’imputato in ordine all’oggetto dell’imputazione”[20].
Tra l’altro, una ricostruzione di questo istituto processuale in tali termini, risponde all’esigenza di evitare che “una nuova e diversa qualificazione giuridica possa essere esercitata “a sorpresa””[21] “atteso che la difesa ben può diversamente atteggiarsi (quanto alle opzioni strategiche) e modularsi (sul piano tattico) in rapporto alla differente qualificazione giuridica della condotta, rispetto alla quale, oltre tutto, le emergenze processuali assumono, a loro volta, diversa e nuova rilevanza”[22].
Non è un caso infatti che anche la Corte Costituzionale ha avuto modo di rilevare che le “valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito alternativo vengono infatti a dipendere, anzitutto, dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero”[23] considerato che condizione “primaria per l’esercizio del diritto di difesa è che l’imputato abbia ben chiari i termini dell’accusa mossa nei suoi confronti”[24].
Quindi, secondo i giudici di legittimità costituzionale, nel caso di “errore sulla individuazione del fatto e del titolo del reato in cui è incorso il pubblico ministero”, “l’imputazione subisce «una variazione sostanziale», tale da risultare «lesivo del diritto di difesa precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali”[25] giacchè, in tale ipotesi, laddove l’imputato intenda optare per un rito speciale, tale scelta risulterebbe “sviata da aspetti di “anomalia” caratterizzanti la condotta processuale del pubblico ministero», collegati all’erroneità dell’imputazione (il fatto è diverso) o alla sua incompletezza (manca l’imputazione relativa a un reato connesso), riscontrabili già sulla base degli elementi acquisiti dall’organo dell’accusa nel corso delle indagini”[26].
Difatti, già in precedenza ed in eguale misura, la Consulta ha sostenuto che “quando, in presenza di una evenienza patologica del procedimento, quale è quella derivante dall’errore sulla individuazione del fatto e del titolo del reato in cui è incorso il pubblico ministero, l’imputazione subisce una variazione sostanziale, risulta lesivo del diritto di difesa precludere all’imputato l’accesso ai riti speciali”[27].
Invece, aderendo all’orientamento nomofilattico su emarginato, è garantita, “nella sua interezza, la possibilità di effettivo esercizio del diritto di difesa nel “giusto processo” attraverso il quale si attua la giurisdizione (art. 111 Cost., comma 1)”[28] così come, soltanto in tal guisa, viene tutelato il processo equo garantito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Difatti, “la Corte europea dei diritti dell’uomo, col noto arresto dell’11 dicembre 2007 della Sezione Seconda nella causa Drassich contro Italia, ha affermato che la riqualificazione del fatto, operata dal giudice colla sentenza, senza che, in precedenza, la difesa dell’imputato avesse avuto la possibilità “di discutere in contraddittorio la nuova accusa”, costituisce violazione dell’art. 6, comma 3, lett. a), della Convenzione cit. “”[29] “sicchè deve essere preventivamente assicurata alle parti la possibilità di interloquire in ordine alla “eventualità di una diversa qualificazione giuridica del fatto” (Sez. 6, 25 maggio 2009, n. 36323, Drassich, massima n. 244974)”[30].
Infatti, secondo la giurisprudenza comunitaria, in “materia penale, un’informazione precisa e completa degli oneri che gravano su un imputato, e dunque la qualificazione giuridica che il tribunale potrebbe formulare nei suoi confronti, è una condizione essenziale dell’equità della procedura”[31].
D’altronde, la necessità che tale decisione comunitaria deve essere osservata anche in sede nazionale, trova conferma alla luce di un costante orientamento nomofilattico.
Difatti, i Giudici di “Piazza Cavour”, partendo dal presupposto secondo il quale è stato osservato che, in “tema di correlazione tra accusa e sentenza, la regola di sistema espressa dalla Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (sentenza 11 dicembre 2007, D. c. Italia), secondo cui la garanzia del contraddittorio deve essere assicurata all’imputato anche in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto operata “ex officio”, va osservata sulla base dell’art. 117 comma 1 cost., essendo la regola conforme al principio statuito dall’art. 111 comma 2 cost., che investe non soltanto la formazione della prova ma anche ogni questione che attiene la valutazione giuridica del fatto commesso”[32], sono pervenuti alla conclusione secondo cui “si impone al giudice una interpretazione dell’art. 521 comma 1 c.p.p. adeguata al “decisum” del giudice europeo e ai principi costituzionali sopra richiamati”[33].
In effetti, ad avviso del Supremo Consesso, non “è più oramai da revocare in dubbio che sia patrimonio comune della scienza giuridica, della giurisprudenza costituzionale e di legittimità la “forza vincolante” delle sentenze definitive della Corte europea dei diritti dell’uomo, sancita dall’art. 46 della Convenzione, là dove prevede che “Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti” e poi ancora che per realizzare tale risultato “la sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione””[34] come si evince peraltro “dall’inserimento della L. n. 400 del 1988, art. 5, comma 3, lett. a bis) ad opera della L. 9 gennaio 2006, n. 12, art. 1 che introduce tra i compiti del Presidente del Consiglio dei ministri il dovere di promuovere “gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo emanate nei confronti dello Stato italiano” e di comunicare “tempestivamente alle Camere le medesime pronunce ai fini dell’esame da parte delle competenti Commissioni parlamentari permanenti e presentare annualmente al Parlamento una relazione sullo stato di esecuzione delle suddette pronunce””[35].
Pertanto, tornando a trattare il tema in oggetto, il principio di correlazione tra la sentenza ed accusa contestata, così come elaborata in sede nomofilattica, ha una sua ragion d’essere proprio perché, come suesposto, tale istituto è volto a tutelare “il diritto di difesa dell’imputato, il quale deve essere messo in condizione di conoscere l’addebito e di svolgere ogni più opportuna linea difensiva”[36] posto che tale “regola non adempie ad un ruolo meramente formale di conoscenza, ma ad una effettiva necessità di garanzia processuale”[37].
Invero, il principio “della correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in sentenza trae il suo fondamento, sia relativamente alla disciplina degli art. 445 e 447 c.p.p. 1930, sia relativamente alla disciplina degli art. 521, 522 c.p.p. 1988, dall’esigenza di tutelare in concreto il diritto di difesa, impedendo che l’imputato possa essere condannato per un fatto non contestato ed in ordine al quale non abbia potuto difendersi”[38].
Orbene, correttamente, declinando i criteri ermeneutici su emarginati, la Cassazione ha ravvisato la violazione del principio di diritto summenzionato nelle seguenti situazioni:
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allorquando la verifica giudiziale verti solo sulla “sussistenza del solo reato di cui all’art. 572 c.p., evitando di accertare se i fatti, come obbiettivamente emergenti dagli atti, integrassero altri reati”[39];
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se la sentenza condanni “l’imputato per il delitto di omissione di atti di ufficio previsto dal comma primo dell’art. 328 cod. pen., a fronte di una contestazione della diversa ipotesi di cui al comma secondo del medesimo art. 328”[40];
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ove “la sentenza di condanna che, a fronte di una contestazione ben definita (nella specie, per i reati di concussione e omissione di atti d’ufficio), formuli una serie di imputazioni alternative, ciascuna connotata da oggettiva incertezza nella ricostruzione del fatto storico, optando per quella più favorevole all’imputato, anziché concludere per una decisione di tipo assolutorio”[41] e, segnatamente, attraverso la riqualificazione del “fatto di concussione come reato di corruzione propria, ritenendolo avvinto dalla continuazione al reato di rifiuto di atti d’ufficio”[42];
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nel caso in cui il giudice, “a fronte di un’imputazione di partecipazione ad un’associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti di ogni genere, pronunci condanna per il reato continuato di spaccio di sostanze stupefacenti, senza che nell’imputazione siano indicati nelle loro componenti fattuali e soggettive, sia pure sommariamente, i singoli episodi di spaccio, o di detenzione a fini di spaccio specie se l’imputazione non contenga alcun riferimento alla commissione, ad opera dell’associazione, di alcuno dei reati fine”[43];
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se, a fronte dell’originaria imputazione di appropriazione indebita, l’imputato venga condannato per il delitto di “esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona”[44];
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allorquando venga condannato taluno “in ordine al reato di vendita di prodotti alimentari adulterati (art. 5, comma 1, lett. a), l. 30 aprile 1962, n. 283), a fronte della contestazione di tentativo di frode in commercio”[45];
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“qualora l’originaria contestazione della contravvenzione paesaggistica, prevista dall’art. 181, comma 1, d.lg. 22 gennaio 2004, n. 42 (esecuzione, senza autorizzazione, di lavori eseguiti su beni paesaggistici), sia stata mutata nel delitto paesaggistico previsto dal comma 1-bis del medesimo articolo, che punisce l’esecuzione, senza autorizzazione, di lavori eseguiti su aree o beni dichiarati di notevole interesse pubblico”[46];
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quando l’imputato venga “condannato per la ricettazione di un’autovettura diversa da quella indicata nella contestazione”[47];
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“qualora l’originaria imputazione di violazione di domicilio sia stata, in sede di decisione, immutata in quella di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose”[48];
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allorchè il contestato reato di sottrazione di cosa pignorata da parte del proprietario venga rubricato in quello di “inosservanza degli obblighi del custode di cosa sottoposta a pignoramento”[49];
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nel caso in cui “gli imputati, tratti a giudizio per rispondere del reato di tentata violenza privata, in quanto avevano costretto la persona offesa a salire a bordo di un’auto e l’avevano poi minacciata per indurla a spogliarsi, erano stati condannati per il reato di tentata violenza sessuale di gruppo”[50];
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se la fattispecie contestata – art. 4 comma 4 ter l. 13 dicembre 1989 n. 401 -, venga ritenuta in sentenza in quella di cui all’art. 4 comma 4 bis della medesima legge “sul presupposto che, mentre la prima sanziona l’attività compiuta in violazione delle norme sulla sicurezza delle telecomunicazioni, la seconda punisce, invece, l’attività organizzata al fine di accettare o raccogliere o comunque favorire l’accettazione di scommesse in assenza della concessione, della autorizzazione o della licenza prescritta dall’art. 88 r.d. 18 giugno 1931 n. 773, a tutela dell’ordine pubblico”[51];
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ove il reato contestato riguardi la frode all’importazione di merce poi rivenduta all’estero dichiarandola di provenienza italiana, mentre, quello ritenuto in sentenza, concerne “la frode in commercio in relazione alla vendita agli acquirenti esteri di “aliud pro alio””[52];
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laddove “l’imputato, tratto a giudizio in ordine al reato di cessione di armi, sia stato poi condannato a seguito della confessione avvenuta in dibattimento e delle prove desunte dal contenuto delle intercettazioni telefoniche anche in ordine al reato di porto di armi, mai espressamente contestato nel capo di imputazione formulato nei suoi confronti, nè allo stesso implicitamente riconducibile, stante la giuridica autonomia di una fattispecie rispetto all’altra”[53];
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allorquando i “fatti qualificati in sentenza come furti, aggravati dall’uso di mezzo fraudolento, erano stati originariamente contestati come truffa”[54];
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quando venga ritenuta “la sussistenza del reato di corruzione invece della più grave ipotesi delittuosa della concussione contestata”[55];
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“nel caso in cui l’imputato, tratto a giudizio per rispondere dell’attivazione di un impianto di torrefazione di caffè grezzo senza avere richiesto l’autorizzazione prescritta dall’art. 6 d.P.R. 24 maggio 1988, n. 203, in materia di inquinamento atmosferico, sia condannato invece, per avere attivato quell’impianto senza averne data comunicazione preventiva alla autorità competente, fatto nuovo e previsto da una distinta norma incriminatrice (art. 24 comma 2 d.P.R. n. 203 del 1988)”[56];
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allorchè gli imputati, a cui venga contestata la violazione prevista dall’art. 21 l. 10 maggio 1976, n. 319 per aver effettuato scarichi senza la prescritta autorizzazione ed oltre i limiti tabellari, siano poi “condannati per non aver adottato misure idonee ad evitare l’evento, essendo emerso che gli scarichi erano stati provocati da terzi, durante la chiusura dello stabilimento, mediante apertura del rubinetto di deposito delle sostanze, poi sversate, e si erano protratti dopo la riapertura dello stabilimento”[57] siccome “gli imputati erano stati condannati per un’attività tipicamente omissiva, concettualmente antitetica a quella commissiva inizialmente contestata”[58].
Viceversa, sempre alla luce dell’orientamento nomofilattico suesposto, il Supremo Consesso ha ritenuto non violato il principio di correlazione tra sentenza ed accusa contestata nei susseguenti casi:
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qualora il fatto contestato sia ritenuto “integrante gli estremi del reato di appropriazione indebita, piuttosto che sottrazione di cose comuni”[59];
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in tema di bancarotta, se il capo di imputazione certifica che il soggetto ha dilapidato il patrimonio societario per i debiti di gioco, mentre nell’apparato motivazionale si ritenga invece “che l’apprensione dei fondi abbia invece costituito una distrazione”[60];
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nel “caso in cui la Corte di appello derubrichi il delitto previsto dall’art. 527 cod. pen. nella contravvenzione ex art. 726 cod. pen.”[61];
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laddove “l’imputato, tratto a giudizio per rispondere di concorso in estorsione, sia stato, all’esito del medesimo giudizio, ritenuto colpevole di favoreggiamento personale”[62];
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in caso di “condanna a fronte dell’imputazione di detenzione di tabacchi lavorati esteri, per il reato di detenzione per la vendita di tabacchi nazionali”[63];
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allorchè il fatto, originariamente contestato ai sensi dell’art. 517 c.p., mentre l’imputato venga condannato per il “reato di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi”[64];
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quando “l’imputato, tratto a giudizio per avere effettuato uno sversamento di “percolato” senza autorizzazione da un impianto di smaltimento di rifiuti solidi urbani in un corso d’acqua superficiale, sia condannato per il reato di scarico di acque reflue non domestiche senza autorizzazione”[65];
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ove venga emessa sentenza di “condanna in ordine al reato di detenzione per il commercio o somministrazione di alimenti in cattivo stato di conservazione (art. 5, comma 1, lett. b), legge 30 aprile 1962 n. 283), a fronte della contestazione di tentativo di frode in commercio”[66];
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qualora venga irrogata una “sentenza di condanna per il reato di omicidio colposo a seguito di infortunio sul lavoro che, a fronte di una contestazione di colpa generica per omesso controllo dello stato di efficienza di una macchina per la tutela della sicurezza dei lavoratori, affermi la responsabilità a titolo di colpa specifica, riconducibile all’addebito di colpa generica”[67];
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“se, a fronte di un’imputazione di discarica non autorizzata di rifiuti, sia pronunciata condanna per il reato di abbandono o deposito incontrollato degli stessi”[68];
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in materia di omicidio colposo, “ove l’imputato, tratto a giudizio per avere disposto la rimozione di cartelli che segnalavano un cantiere stradale, era stato poi condannato per non avere consentito il ripristino della segnaletica predetta, da altri rimossa”[69];
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“qualora l’imputato, tratto a giudizio per rispondere di omicidio volontario, venga, all’esito del medesimo giudizio, ritenuto colpevole della meno grave ipotesi delittuosa dell’omicidio commesso per eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi”[70];
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allorquando “l’imputato, tratto a giudizio per rispondere di ricettazione, essendo stato sorpreso nel mentre, a bordo di un’autovettura risultata compendio di furto commesso da ignoti alcuni giorni prima, stava tentando di metterla in moto, venga, all’esito del medesimo giudizio, ritenuto colpevole di tentato furto aggravato di detta autovettura”[71];
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quando un pubblico ufficiale, incriminato quale “componente della commissione medica periferica” venga “condannato per concussione”[72];
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“nel caso in cui l’imputato, al quale sia stata originariamente contestata la falsificazione materiale del documento, venga invece condannato per uso di atto falso”[73];
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“ove l’imputato di furto sia ritenuto colpevole invece del delitto di ricettazione”[74];
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se un imputato venga “tratto a giudizio per ricettazione e condannato per furto”[75].
Da ultimo, la bontà di tale opzione nomofilattica trova conforto anche procedendo ad un mero raffronto comparativo tra quanto sin qui esposto rispetto e quanto statuito in sede processualcivilistica.
Difatti, pur con tutti i “distinguo del caso” vista la diversità strutturale tra il processo civile e quello penale, tuttavia, anche in sede civilistica, la Cassazione ha avuto modo di precisare che il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato può reputarsi osservato ogni qualvolta il giudice qualifichi “giuridicamente l’azione e di attribuire al rapporto dedotto in giudizio un “nomen iuris” diverso da quello indicato dalle parti, purché non sostituisca la domanda proposta con una diversa, modificandone i fatti costitutivi o fondandosi su una realtà fattuale non dedotta né allegata in giudizio tra le parti”[76].
Quindi, anche per la disciplina processualcivilistica, non è consentito determinare una valutazione del fatto avulsa da quanto (in questo caso) prospettato dalle parti e slegato da qualsivoglia contesto probatorio.
Di talchè è chiaro che, tornando al tema in argomento, la sentenza commentata è sicuramente condivisibile visto che, come suesposto:
– si innesta lungo il solco di un consolidato orientamento nomofilattico;
– è fedele ai principi ermeneutici elaborati dalla giurisprudenza costituzionale e da quella comunitaria in subiecta materia;
– è perfettamente speculare a quanto elaborato dalla Cassazione civile a proposito del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato così come previsto dall’art. 112 c.p.c. .
NOTE
[1] Cass. pen., sez. IV, 16/02/12, n. 17069.
[2] Cass. pen., sez. IV, 26/02/02, n. 11348.
[3] Cass. pen., sez. II, 28/06/11, n. 36891.
[4] Cass. pen., sez. VI, 27/06/11, n. 26089. In senso analogo, Cass. pen., sez. VI, 5/03/09, n. 12156: si “violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza se il fatto contestato sia mutato nei suoi elementi essenziali in modo tanto determinante da comportare un effettivo pregiudizio ai diritti della difesa”.
[5] Cass. pen., sez. I, 10/12/04, n. 4655.
[6] Ossia la sentenza n. 36551 del 15/07/10.
[7] Cass. pen., sez. VI, 6/11/08, n. 81.
[8] Cass. pen., sez. III, 18/03/08, n. 19118. In senso analogo, Cass. pen., sez. V, 20/09/01, n. 36591: il “principio sancito dall’art. 521 c.p.p., in base al quale vi deve essere correlazione tra il fatto descritto nell’imputazione e quello ritenuto in sentenza, consente al giudice di qualificare diversamente il fatto contestato, a condizione che questo rimanga identico, con riferimento al triplice elemento della condotta, dell’evento e dell’elemento psicologico”.
[9] Argomentando a contrario, Cass. pen., sez. VI, 21/01/05, n. 12175.
[10] Cass. pen., sez. I, 14/02/08, n. 13408.
[11] Ibidem.
[12] Cass. pen., sez. V, 10/07/07, n. 33057.
[13] Cass. pen., sez. II, 16/10/07, n. 45993.
[14] Cass. pen., sez. III, 9/02/00, n. 3471.
[15] Cass. pen., sez. I, 28/10/97, n. 9958.
[16] Cass. pen., sez. IV, 19/10/97, n. 2445. In senso conforme, Cass. pen., sez. III, 22/02/96, n. 3253: la “nozione di “fatto diverso” differenziata da quella di “fatto nuovo” comprende non solo un fatto che integri una diversa imputazione restando storicamente invariato, ma anche quello che abbia connotati materiali difformi da quelli descritti nel decreto che dispone il giudizio. Questa interpretazione deriva dall’art. 521 c.p.p., che, contrapponendo la “definizione giuridica diversa” al “fatto diverso”, evidenzia il valore di diversità materiale racchiuso nella seconda espressione, ed è confermata dagli art. 423 comma 1 e 521 comma 2 c.p.p., giacché la prima disposizione prevede la contestazione suppletiva perché “il fatto risulta diverso da come è descritto nell’imputazione” e la seconda prescrive la trasmissione degli atti al p.m., quando, in sede di delibazione, accerta che il fatto da lui riconosciuto è diverso anche “da quello descritto nella contestazione effettuata a norma dell’art. 516 c.p.p.”, sicché in entrambe le fattispecie il “fatto diverso” è difforme da quello dell’imputazione ed ha connotati materiali differenti”.
[17] Cass. pen., sez. II, 28/01/97, n. 3871.
[18] Cass. pen., sez. VI, 12/12/08, n. 3430.
[19] Ibidem. In senso eguale, Cass. pen., sez. III, 2/02/05, n. 13151: il “potere del giudice del dibattimento di attribuire al fatto una diversa qualificazione giuridica, rispetto a quella formulata nell’imputazione, sempre che non risulti in concreto pregiudicato il diritto di difesa, deve essere interpretato nel rigoroso rispetto delle esigenze del pieno contraddittorio, in applicazione del principio costituzionale del giusto processo. Pertanto, tale potere va escluso nei casi in cui tra il fatto-reato contestato e quello di cui l’imputato è stato ritenuto responsabile vi sia un rapporto di piena ed irriducibile alterità, senza una matrice di condotta unitaria”.
[20] Cass. pen., sez. VI, 12/12/08, n. 3430.
[21] In tal senso: Cass. pen., sez. I, 29/04/11, n. 18590.
[22] Cass. pen., sez. I, 29/04/11, n. 18590.
[23] Corte Cost., sentenza n. 237/12.
[24] Ibidem.
[25] Corte Cost., sentenza n. 333/09.
[26] Ibidem.
[27] Corte Cost., sentenza n. 265/94.
[28] Cass. pen., sez. I, 29/04/11, n. 18590.
[29] Ibidem.
[30] Ibidem.
[31] Corte EDU, sez. grande chambre, 1/03/06, n. 56581, Sejdovic c. Italia.
[32] Cass. pen., sez. VI, 25/05/09, n. 36323.
[33] Ibidem.
[34] Cass. pen., sez. VI, 12/11/08, n. 45807.
[35] Ibidem.
[36] Cass. pen., sez. III, 5/05/98, n. 7142.
[37] Ibidem.
[38] Cass. pen., sez. VI, 30/04/96, n. 6182.
[39] Cass. pen., sez. VI, 17/04/12, n. 28481.
[40] Cass. pen., sez. VI, 5/04/12, n. 19551.
[41] Cass. pen., sez. VI, 27/01/12, n. 3550.
[42] Ibidem.
[43] Cass. pen., sez. V, 12/01/12, n. 14991.
[44] Cass. pen., sez. VI, 27/06/11, n. 26089.
[45] Cass. pen., sez. III, 14/06/11, n. 29613.
[46] Cass. pen., sez. III, 23/03/11, n. 18509.
[47] Cass. pen., sez. II, 18/02/10, n. 22295.
[48] Cass. pen., sez. VI, 12/11/08, n. 3430.
[49] Cass. pen., sez. VI, 6/11/08, n. 81.
[50] Cass. pen., sez. III, 18/03/08, n. 19118.
[51] Cass. pen., sez. III, 6/12/05, n. 818.
[52] Cass. pen., sez. III, 2/02/05, n. 13151.
[53] Cass. pen., sez. I, 10/12/04, n. 4655.
[54] Cass. pen., sez. IV, 18/09/97, n. 9523.
[55] Cass. pen., sez. un., 30/04/97, n. 6402.
[56] Cass. pen., sez. III, 18/10/96, n. 9855.
[57] Cass. pen., sez. I, 12/03/96, n. 3456.
[58] Ibidem.
[59] Cass. pen., sez. II, 13/11/12, n. 45795.
[60] Cass. pen., sez. V, 13/07/12, n. 40195.
[61] Cass. pen., sez. VI, 15/05/12, n. 24631.
[62] Cass. pen., sez. II, 14/12/11, n. 48577.
[63] Cass. pen., sez. III, 13/07/11, n. 35152.
[64] Cass. pen., sez. V, 14/06/11, n. 29869.
[65] Cass. pen., sez. III, 17/11/10, n. 7214.
[66] Cass. pen., sez. III, 11/11/10, n. 42503.
[67] Cass. pen., sez. III, 8/04/10, n. 19741.
[68] Cass. pen., sez. III, 11/02/10, n. 12443.
[69] Cass. pen., sez. III, 27/02/08, n. 15655.
[70] Cass. pen., sez. IV, 31/01/08, n. 13944.
[71] Cass. pen., sez. V, 13/12/07, n. 3161.
[72] Cass. pen., sez. VI, 21/01/05, n. 12175.
[73] Cass. pen., sez. V, 14/10/04, n. 42649.
[74] Cass. pen., sez. II, 17/12/03, n. 857.
[75] Cass. pen., sez. V, 20/09/01, n. 36591.
[76] Ex plurimibus, Cass. civ., sez. III, 3/08/12, n. 13945.
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