Quando il provvedimento di rigetto dell’istanza di emissione del decreto penale di condanna può ritenersi abnorme?

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(Ricorso rigettato)

Il fatto

Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli Nord, mediante richiesta di emissione di decreto penale di condanna, esercitava l’azione penale nei confronti di una persona imputata in ordine al reato di cui agli artt. 81 cpv. cod. pen. e 38, commi 1 e 7, R.D. n. 731 del 1933, contestatogli per avere con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso omesso di ripresentare la denuncia al locale ufficio di pubblica sicurezza di detenzione di una carabina in seguito al trasferimento dell’arma.

Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli Nord, investito della richiesta di emissione del decreto penale di condanna, la respingeva per non essere stata applicata la diminuzione di pena prevista per il rito monitorio.

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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso tale provvedimento proponeva ricorso per Cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli Nord per denunciarne con unico motivo l’abnormità per inosservanza ed erronea applicazione della legge penale.

Richiamata la nozione di atto abnorme, come elaborata dalla giurisprudenza di legittimità, il ricorrente denunciava l’indebito superamento da parte del giudice delle indagini preliminari dei limiti che l’ordinamento processuale gli impone nell’esercizio della funzione di controllo sulle determinazioni del pubblico ministero in tema di esercizio dell’azione penale cui compete anche individuare la sanzione ed applicazione in via discrezionale la riduzione della pena per il rito.

La pubblica accusa, quindi, aveva chiesto l’annullamento del provvedimento impugnato con la conseguente restituzione degli atti al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bologna perché provvedesse sulla richiesta di emissione di decreto penale di condanna.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso veniva stimato infondato e, in quanto tale, non meritevole, dunque, accoglimento.

Si osservava a tal proposito prima di tutto che l’abnormità costituisce una forma di patologia dell’atto giudiziario, priva di riconoscimento testuale in un’esplicita disposizione normativa, ma frutto di elaborazione da parte della dottrina e della giurisprudenza tramite la quale si è inteso porre rimedio, attraverso l’intervento del giudice di legittimità, agli effetti pregiudizievoli derivanti da provvedimenti non previsti nominativamente come impugnabili, ma affetti da tali anomalie genetiche o funzionali, che li rendono difformi ed eccentrici rispetto al sistema processuale e con esso radicalmente incompatibili.

Le Sezioni Unite, in particolare, dal canto loro, con le sentenze n. 25957 del 26/03/2009, e n. 20569 del 18/01/2018, hanno offerto una rigorosa e puntuale delimitazione dell’area dell’abnormità, ricorribile per cassazione, la cui duplice accezione, strutturale e funzionale, ha ricondotto ad un fenomeno unitario, caratterizzato dallo sviamento della funzione giurisdizionale, inteso non tanto quale vizio dell’atto, che si aggiunge a quelli tassativamente stabiliti dall’art. 606, comma 1, cod. proc. pen., quanto come esercizio di un potere in difformità dal modello descritto dalla legge.

Ebbene, per la Suprema Corte, si riteneva come potesse nel caso di specie darsi seguito a questa linea interpretativa: la categoria dell’abnormità così elaborata presenta carattere eccezionale e derogatorio al principio di tassatività dei mezzi d’impugnazione, sancito dall’art. 568 cod. proc. pen., mantenuto inalterato nel suo testo anche dopo la riforma introdotta con la legge 23 giugno 2017, n. 103, ed al numero chiuso delle nullità deducibili secondo la previsione dell’art. 177 cod. proc. pen., ed è, dunque, riferibile alle sole situazioni in cui l’ordinamento non appresti altri rimedi idonei per rimuovere il provvedimento giudiziale, che sia frutto di sviamento di potere e fonte di un pregiudizio altrimenti insanabile per le situazioni soggettive delle parti.

La sua eccezionalità e residualità nel panorama delle forme di tutela accessibili, invero, impone di distinguerne l’ambito concettuale, da un lato, dalle anomalie dell’atto irrilevanti perché innocue, dall’altro, dalle situazioni di contrasto del pronunciamento giudiziale con singole norme processuali la cui violazione sia rinforzata dalla previsione della nullità.

In particolare, per il Supremo Consesso, sotto il primo profilo, è ininfluente e non riconducibile all’abnormità quell’atto, pur compiuto al di fuori degli schemi legali o per finalità diverse da quelle che legittimano l’esercizio della funzione, che sia superabile da una successiva corretta determinazione giudiziale che dia impulso al processo o dalla sopravvenienza di una situazione tale da averne annullato gli effetti, averlo privato di rilevanza ed avere eliminato l’interesse alla sua rimozione mentre, quanto al secondo aspetto, l’incompatibilità della decisione con una o più disposizioni di legge processuale vizia l’atto per mancata applicazione o errata interpretazione del referente normativo e ne determina l’illegittimità, che, se ciò sia prescritto, viene sanzionata in termini di nullità.

Orbene, ad avviso dei giudici di piazza Cavour, nell’ordinanza impugnata non erano individuabili profili di abnormità.

Invero, aderendo alle riflessioni ermeneutiche, raggiunte dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 20589 del 18/01/2018, occupatesi espressamente del tema, siffatta decisione assunta dal Giudice per le indagini preliminari non era, per gli Ermellini, totalmente avulsa dal sistema processuale ma «costituisce espressione del legittimo esercizio del potere cognitivo conferito al giudice per le indagini preliminari dall’art. 459, comma 3, cod. proc. pen., che, al di fuori di qualsiasi automatismo decisorio ed in coerenza col ruolo funzionale di quel giudice, gli riconosce la possibilità di un ampio sindacato sul merito dell’istanza» cui segue la possibilità di pervenire a diverse opzioni decisorie, ossia all’accoglimento dell’istanza con emissione del decreto, al rigetto per la contestuale pronuncia di sentenza di proscioglimento dell’imputato ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. e, al di fuori di quest’ultima ipotesi, al rigetto con restituzione degli atti al pubblico ministero dal momento che, sul piano contenutistico è opinione concorde negli interpreti, recepita anche dalle Sezioni Unite, che l’area delle verifiche giudiziali conducibili sulla domanda di emissione del decreto penale attiene, in primo luogo, all’applicabilità al caso specifico della pena pecuniaria ed alla sua misura, quindi, ad aspetti, attinenti alla legalità della sanzione in concreto irrogabile rispetto agli estremi edittali ed alla diminuzione prevista in relazione alla natura speciale del rito per estendersi poi a tutti gli altri presupposti di ammissibilità del rito stesso.

Alla luce delle considerazioni appena esposte, i giudici di legittimità ordinaria denotavano come la rassegna delle decisioni di legittimità dimostri che la Corte di Cassazione ha riconosciuto l’abnormità del rigetto dell’istanza di emissione del decreto penale di condanna in casi limitati ovvero per: ritenuta ed immotivata inopportunità dell’introduzione del rito monitorio (Sez. 1, n. 1426 del 24/03/1994); prevedibile opposizione da parte dell’imputato con conseguente verifica dibattimentale per la gravità dell’addebito (Sez. 6, n. 38370 del 12/06/2014); mancato accesso da parte dell’imputato alla possibilità di definire in via amministrativa l’illecito contestato quale manifestazione della volontà di accedere al rito dibattimentale con conseguente inutilità del decreto di condanna, fonte di inutile dispendio di attività giurisdizionale (Sez. 3, n. 8288 del 25/11/2009); applicabilità della continuazione con altri reati (Sez. 3, n. 44296 del 3/10/2013); proposizione della richiesta nei confronti di un solo imputato, previa separazione della sua posizione personale da quella degli altri indagati (Sez. 3, n. 16826 del 20/03/2007); formulata prognosi negativa circa l’adempimento da parte dell’imputato dell’obbligo di pagamento della pena pecuniaria (Sez. 6, n. 17702 dell’1/04/2016).

Ebbene, a fronte di tale casistica, la Cassazione osservava come si trattassero di situazioni nelle quali l’apprezzamento discrezionale del giudice sulla richiesta, pur riconosciuto dall’ordinamento processuale, si era esteso sino ad interferire con le attribuzioni istituzionali della pubblica accusa circa le modalità di esercizio dell’azione penale e di strutturazione dell’imputazione ed a negare il provvedimento richiesto in forza di un personale vaglio di opportunità, sovrappostosi alle considerazioni del pubblico ministero.

L’abnormità, in detti casi, era stata, quindi, riconosciuta sia sul piano strutturale, che su quello funzionale, per l’indebita invasione dei compiti istituzionali del pubblico ministero e per la provocata indebita regressione del procedimento.

Invece, per la Suprema Corte, non altrettanto poteva dirsi accaduto nel caso in esame avendo il giudice svolto la propria funzione di verifica della congruità e della legalità della pena in coerenza con il sindacato che deve condurre sulla richiesta (Sez. 2, n. 7582 del 21/02/2020; Sez. 4, n. 29349 del 22/05/2018) e fondatamente riscontrato l’omessa applicazione della diminuente prevista dall’art. 459, comma 2, cod. proc. pen. per il quale il pubblico ministero può chiedere una pena «diminuita sino alla metà del minimo edittale».

La disposizione de qua, invero, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso, per la Corte di legittimità, conferisce all’organo dell’accusa il potere discrezionale di scegliere come esercitare l’azione penale, se nelle forme del procedimento monitorio, oppure in quello ordinario e la misura adeguata della sanzione, non già di stabilire a proprio arbitrio se ridurre la pena applicabile al caso per effetto del rito speciale mentre la funzione deflattiva della previsione di cui all’art. 459 citato rispetto all’ordinario processo dibattimentale e l’effetto premiale per l’imputato e di massima semplificazione possibile per ragioni di economia processuale, proprio del procedimento per decreto, verrebbero frustrati, se si ammettesse la possibilità per il pubblico ministero richiedente di individuare una pena non ridotta ai sensi dell’art. 459, comma 2, cod. proc. pen..

La decisione contestata, inoltre, sempre ad avviso del Supremo Consesso, non realizzava nemmeno una indebita stasi processuale atteso che, come argomentato dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 20569/2018, la restituzione degli atti comporta che il «pubblico ministero è nuovamente titolare degli originari poteri di iniziativa e di impulso processuale» sicchè conserva la facoltà di chiedere l’emissione di altro decreto di condanna per una pena diversa, oppure di esercitare l’azione penale nelle forme ordinarie, senza subire vincoli insuperabili, né essere costretto al compimento di atti inficiati di nullità.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante nella parte in cui si chiarisce quando il provvedimento di rigetto dell’istanza di emissione del decreto penale di condanna può ritenersi abnorme.

Difatti, dopo essere richiamate delle ipotesi in cui la Cassazione ha ravvisato tale abnormità, vale a dire per ritenuta ed immotivata inopportunità dell’introduzione del rito monitorio, prevedibile opposizione da parte dell’imputato con conseguente verifica dibattimentale per la gravità dell’addebito, mancato accesso da parte dell’imputato alla possibilità di definire in via amministrativa l’illecito contestato quale manifestazione della volontà di accedere al rito dibattimentale con conseguente inutilità del decreto di condanna, fonte di inutile dispendio di attività giurisdizionale, applicabilità della continuazione con altri reati, proposizione della richiesta nei confronti di un solo imputato, previa separazione della sua posizione personale da quella degli altri indagati, formulata prognosi negativa circa l’adempimento da parte dell’imputato dell’obbligo di pagamento della pena pecuniaria, si prendeva atto come tutte queste situazione fossero accomunate dal fatto che l’apprezzamento discrezionale del giudice sulla richiesta, pur riconosciuto dall’ordinamento processuale, si era esteso sino ad interferire con le attribuzioni istituzionali della pubblica accusa circa le modalità di esercizio dell’azione penale e di strutturazione dell’imputazione ed a negare il provvedimento richiesto in forza di un personale vaglio di opportunità, sovrappostosi alle considerazioni del pubblico ministero.

L’abnormità, in detti casi, era stata, quindi, riconosciuta sia sul piano strutturale, che su quello funzionale, per l’indebita invasione dei compiti istituzionali del pubblico ministero e per la provocata indebita regressione del procedimento.

Pertanto, ogni volta sia rigettata la richiesta di emissione del decreto penale di condanna, occorre verificare se l’apprezzamento discrezionale del giudice sulla richiesta si sia esteso sino ad interferire con le attribuzioni istituzionali della pubblica accusa circa le modalità di esercizio dell’azione penale e di strutturazione dell’imputazione ed a negare il provvedimento richiesto in forza di un personale vaglio di opportunità, sovrappostosi alle considerazioni del pubblico ministero e, in caso di risposta affermativa, ben si potrà ricorrere per Cassazione avverso questo provvedimento per abnormità.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su cotale tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.

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