E’ da considerarsi un parametro di subordinazione, il rispetto di un orario settimanale di lavoro in unione al percepimento di un compenso mensile fisso
(cassazione civile sez. lav. 08.01.2015 – n.66)
IL CASO
A seguito della pronuncia di primo grado, emessa dal Tribunale di Roma, E.P: proponeva gravame dinanzi alla Corte di Appello di Roma che aveva respinto la domanda di condanna dell’A.S.p.a. al pagamento delle differenze retributive, stante la mancata prova della natura subordinata del contratto di lavoro.
Con sentenza depositata in data 16.09.2010, la Corte di Appello di Roma rigettava l’impugnazione proposta dalla lavoratrice, la quale ricorreva per Cassazione proponendo cinque motivi.
Con il primo motivo, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art.116 c.p.c., per non aver, i giudici di merito, espletato alcuna attività istruttoria, avendo così basato la propria decisione solo sul comportamento processuale della parte.
Il secondo motivo contiene analoga doglianza.
Il terzo motivo, attiene all’inadeguatezza e genericità dei capitoli di prova testimoniali e per interrogatorio formale del legale rappresentante della società.
Censura analoga avanzata con il quarto motivo.
Con il quinto motivo il ricorso lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 420 e 421 c.p.c. perché i giudici di merito non si sono pronunciati sull’eccezione di inammissibilità delle prove richieste.
La A.s.p.a. resisteva con controricorso.
IL COMMENTO
L’art. 2094 c.c. sancisce che “È prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”
La norma in esame, lungi dal fornire una definizione di contratto di lavoro, si limita a prevedere la disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
La dottrina, ab origine, ha individuato quale criterio distintivo tra contratto di lavoro subordinato e lavoro autonomo rispettivamente l’attività del lavoro ed il relativo risultato.
Ciò nonostante, tale discrimen è risultato poco cristallino, in quanto da un lato evidenziava l’uguaglianza dell’oggetto della prestazione in entrambe le tipologie contrattuali, dall’altra ne differenziava la natura sulla base dell’utilità o della produttività della prestazione lavorativa, e quindi, in ordine alla differente attribuzione del rischio.
Al fine di dirimere le perplessità e la confusione ingenerata dall’utilizzo di tale criterio, si è iniziata a profilare la tesi in base alla quale la subordinazione implicasse l’identificazione del lavoratore con l’operaio e quindi con il salariato, ovvero con colui il quale è sottoposto al potere direttivo del datore di lavoro.
È evidente, così che ai fini dell’individuazione del contratto di lavoro subordinato, si inizia a far riferimento all’organizzazione del lavoro.
Con l’entrata in vigore del codice civile, si abbandona l’idea di fornire una definizione normativa di contratto di lavoro subordinato, dando, al contrario, la descrizione di prestatore di lavoratore subordinato, ossia di colui il quale collabora con l’impresa, e presta la propria attività manuale o intellettuale sotto la direzione dell’imprenditore, ottenendo in cambio una retribuzione.
A tal proposito, dottrina e giurisprudenza, hanno tentato di elaborare da tale nozione, una spiegazione univoca e giuridicamente valida di subordinazione, qualificandola come “il vincolo di soggezione del datore al potere direttivo organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale si estrinseca nell’emanazione di ordini specifici, oltre che nell’esercizio di un’assidua attività di vigilanza o di controllo nell’esecuzione dell prestazioni lavorative” (Cass. Civ. Sez. Lav. N. 15903/2004)
Più precisamente, il lavoratore è tenuto ad osservare le direttive e tutte le altre disposizioni impartite dal datore di lavoro, essendo obbligato a finalizzare le proprie energie lavorative verso l’organizzazione e l’attività di quest’ultimo.
Tale ricostruzione è stata avallata anche da successivi orientamenti giurisprudenziali, i quali hanno provveduto ad elaborare quattro criteri distintivi di tale tipologia contrattuale, ovvero l’onerosità, la
collaborazione, la continuità, la subordinazione, fermo restando la necessità dell’assoggettamento al potere direttivo, organizzativo, e disciplinare del datore di lavoro.
L’onerosità è intesa come la necessità, che a fronte dell’esecuzione della prestazione lavorativa, il datore di lavoro provveda a ricompensare economicamente il lavoratore; la collaborazione è l’ingresso e la partecipazione del dipendente nell’organizzazione lavorativa dell’imprenditore; la continuità determina la durata nel tempo della disponibilità produttiva del lavoratore; la subordinazione, invece, implica “l’incidenza del rischio dell’attività lavorativa, sul datore di lavoro”.
Accanto a questo inquadramento macroscopico, la giurisprudenza, ha individuato ulteriori requisiti, sussidiari ed empirici, quali l’obbligo di osservare un orario di lavoro (Cass. Sez. lav.- n.10313/2008; Cass. Sez. Lav. N.10029/2009); le modalità e le forme di una retribuzione ovvero il versamento a cadenze fisse e mensili di una somma di danaro, slegata dal raggiungimento di un risultato(Cass. N.9256/2008); la continuità temporale ovvero lo svolgimento anche saltuario della prestazione lavorativa purché alle direttive del datore di lavoro(Cass. Civ. n.21031/2008); il nomen iuris conferito al contatto, come non vincolante, in quanto bisogna tener conto delle concrete ed effettive modalità di svolgimento del rapporto di lavoro (Cass. N.17455/09).
La Suprema Corte con la sentenza in esame n. 66 del 08.01.2015, ha accolto il terzo ed il quinto motivo del ricorso della lavoratrice, proprio riferendosi a tali criteri empirici e sussidiari.
Infatti, gli Ermellini hanno ritenuto che, nella fattispecie concreta, lo svolgimento di mansioni di addetto a call center mediante l’osservanza di un orario lavorativo e il percepimento di una retribuzione fissa mensile costituiscono, in re ipsa, elementi indiziari dell’esistenza di un contratto di lavoro subordinato, fermo restando che tale valutazione può essere verificata e confermata anche in via istruttoria.
Invero, già in precedenza la Suprema Corte era addivenuta ad una simile soluzione, sostenendo peraltro, l’irrilevanza rectius la non sufficienza del nomen iuris ai fini dell’integrazione di una determinata fattispecie contrattuale, in quanto le parti potrebbero aver simulato l’esistenza di un’altra tipologia contrattuale al mero scopo di eluderne la disciplina legale (Cass. N.4476/2012).
Ciò, inoltre si può verificare, anche quando l’accordo verbale tra le parti contrattuali abbia “tradito” la vera volontà delle stesse, sia quando dopo aver voluto realmente un certo tipo di contratto, durante lo svolgimento dello stesso, esse mutino interesse.
Alla luce di quanto, esposto, è evidente che la Suprema Corte con la sentenza n. 66 abbia dato piena attuazione ai precedenti giurisprudenziali, aderendo all’indirizzo maggioritario che ritiene che a connotare il concetto di subordinazione e più in generale di contratto di lavoro subordinato,
siano anche i cd. Indici “sussidiari” quali la retribuzione fissa e mensile, l’osservanza di un orario di lavoro e quindi la sottoposizione al potere direttivo e disciplinare datoriale.
Identico è, inoltre, l’ iter logico-giuridico da seguire nel caso di cessazione del contratto di lavoro.
In merito, invece, alla parte istruttoria, parte ricorrente lamentava che la decisione del giudizio era fondata esclusivamente sul comportamento processuale della società datrice di lavoro, nonché sulla genericità di capitoli della prova testimoniale e dell’interrogatorio formale del convenuto.
Gli Ermellini, sul punto, censurano l’impugnata sentenza, nella parte in cui si evince che alcuni capitoli di prova testimoniale erano oggetto, altresì, di prova documentale. Infatti, la Corte di appello avrebbe dovuto specificare se questi capitoli fossero difformi o conformi ai documenti, cosicché nel primo caso il giudice di merito avrebbe dovuto ammettere le prove ex art. 421 cpc comma 2, ovvero al di fuori dei limiti previsti dal c.c. in modo tale che nulla avrebbe impedito “la prova testimoniale atta a smentire in tutto o in parte un dato documento o ad integrarne la significatività”.
Nell’ipotesi di conformità, tra prove testimoniali e documenti, invece, sostiene la Suprema Corte, il giudice di prime cure avrebbe dovuto, quantomeno, valutare e verificare questi ultimi.
Alla luce di quanto esposto, dunque, la Cassazione accoglie il terzo ed il quinto motivo e cassa la sentenza impugnata con rinvio, anche per le spese alla Corte di Appello di Roma.
Dott.ssa Donatella Corbo, praticante avvocato abilitato al patrocinio nel gennaio 2014
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