Quando non è consentito nei procedimenti di competenza al giudice di pace un termine diverso di legge

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(Ricorso rigettato)

(Riferimento normativo: D.lgs., 28/08/2000, n. 274, art. 32, c. 4)

Il fatto

L’imputata era stata tratta a giudizio per avere asseritamente diffamato un legale presentando presso l’Ordine degli Avvocati di Bergamo un esposto nel quale rappresentava che costui aveva intrapreso, nell’ambito di una vertenza civile, talune procedure esecutive al fine di riscuotere dei crediti, al cui pagamento era stata condannata, nonostante la pendenza di trattative di bonario componimento tra le parti e nonostante l’avvenuto pagamento della prima rata stabilita nell’accordo in epoca anteriore al pignoramento.

Il Giudice di pace di Treviglio, a sua volta, assolveva l’imputata dal delitto di cui all’art. 595, comma 2, cod. pen. perché il fatto non costituisce reato e annullava le statuizioni in favore della costituita parte civile e la condanna al pagamento delle spese processuali.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione dalla parte civile

Il difensore della parte civile ricorreva per Cassazione avverso questo provvedimento adducendo i seguenti motivi: 1) e 2) erronea applicazione dell’art. 51 cod. pen. sotto un duplice profilo: da un lato perché, a differenza di quanto ritenuto nella sentenza di assoluzione, l’imputata alla data di presentazione dell’esposto, risalente al 15 ottobre 2015, era ben consapevole di avere provveduto al pagamento della prima rata soltanto il 5 giugno 2015 e, dunque, in epoca successiva alla consegna degli atti di pignoramento all’UNEP, risalente al 3 e 4 giugno 2015;  dall’altro lato, in ragione del rilievo attribuito dal giudice di appello sia all’età dell’imputata (classe 1942), sia alla non dimestichezza della stessa con le procedure giudiziarie; 3) riconosciuta sussistenza del requisito della continenza espressiva dell’esposto nonostante la sovrabbondanza delle enunciazioni impiegate nell’articolazione dell’esposto obiettandosi che l’atto non avrebbe perso la propria forza argomentativa laddove fosse stato formulato senza l’utilizzo di espressioni offensive lesive dell’onore e, in ogni caso, non utili alla prospettazione dei fatti narrati.

 

Le argomentazioni sostenute dalla difesa dell’imputata

 

Con nota, i difensori dell’imputata eccepivano l’inammissibilità del ricorso sotto un duplice profilo, ovvero: a) per passaggio in giudicato della sentenza impugnata in quanto, a fronte della motivazione della sentenza regolarmente depositata nel termine di 30 giorni indicato dal giudice, il ricorso per cassazione arrecava un timbro datato in epoca successiva al termine di 45 giorni previsto dall’art. 585 comma 1, lett. c) cod. proc. pen. per proporre impugnazione, termine che, tenuto conto del periodo di sospensione feriale dei termini, era scaduto il giorno precedente; b) per carenza d’interesse del ricorrente in ragione della formula assolutoria “perché il fatto non costituisce reato” non preclusiva di un’eventuale azione in sede civile.

I difensori di costei, inoltre, avevano avanzato richiesta di condanna della parte civile al pagamento delle spese ai sensi degli artt. 541, comma 2, e 616 cod. proc. pen..

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

La Suprema Corte riteneva necessario in via preliminare trattare le eccezioni di inammissibilità del ricorso sollevate dalla difesa dell’imputata.

Orbene, quanto al profilo di inammissibilità dell’impugnazione per intervenuta irrevocabilità della sentenza, si dava atto che, a margine della sentenza emessa dal Tribunale di Bergamo, vi era l’attestazione a firma del funzionario di cancelleria che dava contezza della circostanza che l’impugnazione era stata proposta nel rispetto del termine invocato come violato rilevandosi al contempo come questo fosse un dato rispetto al quale nessun valore poteva e doveva attribuirsi al timbro apposto a margine del ricorso per Cassazione proposto dalla parte civile in quanto privo di qualsiasi attestazione della cancelleria.

Tanto chiarito, veniva altresì evidenziato che, in ogni caso, l’eccezione di inammissibilità non poteva essere accolta poiché erroneamente fondata sull’applicabilità dell’art. 544 cod. proc. pen. ad un procedimento che rientra nella competenza del giudice di pace posto che, secondo un consolidato e pressoché unanime orientamento giurisprudenziale, l’art. 32, comma 4, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 -che fissa, per il giudice di pace, in quindici giorni il termine per il deposito della motivazione, qualora la stessa non sia dettata a verbale-, in quanto disposizione di carattere derogatorio rispetto alla previsione di cui all’art. 544 cod. proc. pen., non consente nei procedimenti riguardanti reati di competenza al giudice di pace un termine diverso di quello previsto per legge e, dunque, in ragione del carattere derogatorio rivestito dall’art. 32, comma 4, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, non può trovare applicazione l’art. 2 del citato d.lgs. il quale espressamente prevede l’estensione delle norme del codice di rito nei procedimenti innanzi al giudice di pace a meno che non sia diversamente stabilito (Cass., Sez. 4 , n. 36767 del 17/11/2020; Cass. Sez. 2, n. 50391; Cass. Sez. 4, n. 16148 del 14/03/2017).

Quanto alla eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse, sollevata in ragione della formula “perché il fatto non costituisce reato” con la quale l’imputata era stata assolta, il Collegio, pur consapevole di decisioni di segno contrario, riteneva di aderire all’orientamento giurisprudenziale secondo cui sussiste l’interesse processuale della parte civile a impugnare anche nel caso in cui la decisione di assoluzione sia stata resa con la detta formula in quanto le limitazioni all’efficacia del giudicato, previste dall’art. 652 cod. proc. pen., non incidono sull’estensione del diritto all’impugnazione, riconosciuto in termini generali alla parte civile dall’art. 576 cod. proc. pen., dal momento che chi intraprende il giudizio civile dopo avere già ottenuto in sede penale il riconoscimento della responsabilità per fatto illecito della controparte si giova di tale accertamento e, dunque, si trova in posizione migliore rispetto a chi, invece, deve cominciare il giudizio “ex novo” (Sez. 2, n. 10638 del 30/01/2020; Sez. 6, n. 36526 del 28/10/2020; Sez. 4, n. 10114 del 21/11/2019; Sez. 5, n. 27318 del 07/03/2019; Sez. 5, n. 10369 del 06/02/2019; Sez. 2, n. 36930 del 04/07/2018).

Ciò posto, una volta terminata la disamina di tali questioni di ordine preliminare, per la Suprema Corte, si riteneva come nessuno dei motivi di ricorso proposti nell’interesse della parte civile fosse fondato e idoneo a provocare l’annullamento della sentenza impugnata.

Quanto al profilo soggettivo del reato, interessato dal primo e dal secondo motivo del ricorso, si dava atto che, a fronte del dato obbiettivo, esplicitato nella sentenza impugnata, secondo cui la parte civile inoltrò l’esposto nei confronti dell’avvocato quando già costui era a conoscenza dell’avvio delle procedure esecutive – la notifica delle quali si era perfezionata il 26 giugno 2015-, con altrettanta obbiettività, secondo gli Ermellini, il giudice d’appello aveva ampiamente e logicamente motivato in merito alla circostanza che l’imputata, avanti negli anni e certamente non avvezza alle procedure giudiziarie, si era visto notificare gli atti di pignoramento nonostante la pendenza di trattative con la controparte – rappresentate dallo scambio di mail intercorso tra il proprio legale – precedenti al pagamento della prima rata e, comunque, antecedenti all’iniziativa giudiziaria intrapresa dall’odierno ricorrente.

Il giudice d’appello, correttamente, quindi, per il Supremo Consesso, aveva ritenuto di doversi concentrare sulla questione se, in ipotesi, l’imputata fosse stata guidata dalla ragionevole convinzione soggettiva della veridicità dei fatti rappresentati nell’esposto o se, diversamente, il nucleo dell’esposto fosse sufficiente a far ritenere una consapevole e non veritiera versione della vicenda e che, dunque, costei, il giorno in cui presentava l’esposto, fosse consapevole del fatto che il pagamento della prima rata, da lei effettuato il 5 giugno 2015, risaliva ad epoca successiva alla consegna degli atti di pignoramento all’UNEP avvenuta nei giorni precedenti.

Orbene, le censure proposte, secondo i giudici di piazza Cavour, non tenevano conto del fatto che il giudice d’appello aveva ritenuto che gli atti processuali nella disponibilità dell’imputata, avanti negli anni, non avvezza alle procedure giudiziarie e destinataria di procedure esecutive nonostante gli sforzi economici intrapresi e le trattative di componimento in corso, erano tali da indurla a considerare “scorretto e biasimevole” nonché contrario ai doveri legati all’esercizio della professione forense il comportamento processuale assunto dall’avvocato.

Dunque, per gli Ermellini, l’intento dell’imputata non era certamente quello di diffamare l’odierno ricorrente ma soltanto quello di segnalare e denunciare all’organo preposto le ritenute gravi irregolarità riscontrate nell’espletamento della funzione, segnalazione dalla quale era scaturito un procedimento disciplinare, ancorché esitato in un’archiviazione trattandosi, non di un attacco gratuito alla persona, ma della denuncia di comportamenti tenuti dal legale che avevano prodotto ripercussioni negative sui suoi interessi economici sicchè, pur a fronte della durezza delle espressioni utilizzate, il giudice di appello, sempre la Cassazione, aveva motivatamente escluso in capo all’imputata la coscienza e volontà di screditare la reputazione professionale del legale e, piuttosto, ritenuto che i giudizi negativi enunciati nell’esposto muovevano da fatti che erano proprio quelli narrati, sebbene sviluppati con una cronologia storica differente da quella verificatasi, ma giustificati dall’erroneo convincimento di aver subito il torto dì procedure esecutive nonostante l’adempimento.

Sul tema, tra l’altro, i giudici di legittimità ordinaria avevano già avuto occasione di affermare che è configurabile l’esimente putativa dell’esercizio del diritto di critica nei confronti di chi abbia la ragionevole e giustificabile convinzione della veridicità dei fatti denunciati, lesivi dell’altrui reputazione, anche se di essa non sussista certezza processuale (Sez. 5, n. 21145 del 18/04/2019), trattandosi di una indicazione interpretativa che consente di convenire con le ragioni esposte dal giudice d’appello allorchè ha ritenuto che le espressioni utilizzate dall’imputata, nel corpo dell’esposto, alludenti a comportamenti scorretti, vessatori e soprattutto ingiustificatamente esosi posti in essere dall’avvocato, sebbene aspre e sferzanti, se collocate nel contesto della vertenza civile in corso e intese nel loro giusto valore, rientrassero nel nucleo della scriminante del diritto di critica.

La parte civile, come ritenuto dal Supremo Consesso, in là con gli anni ed estranea alle realtà giudiziarie, ragionevolmente e giustificatamente convinta della verità dei fatti riportati anche in ragione del susseguirsi cronologico degli stessi (nell’ordine: trattative in corso con la controparte; pagamento della prima rata stabilita nell’accordo; notifica di procedure esecutive), aveva denunciato i comportamenti del legale contestandone l’operato perché lesivo dei suoi interessi economici, interessi che l’imputata pretendeva, a modo suo, di difendere.

Ebbene, stimava il Collegio come tale rilievo valesse ad escludere l’elemento soggettivo della diffamazione contestata.

Precisato ciò, quanto al terzo motivo, veniva evidenziato come il giudice d’appello, dopo aver richiamato i principi elaborati dalla giurisprudenza sul diritto di critica e sui suoi limiti, avesse considerato che, nel caso al suo esame, non fosse stato superato il limite della continenza in quanto le espressioni utilizzate nell’esposto, manifestazione di uno sfogo talora sferzante, non si risolvevano in gratuite offese ma avevano come obbiettivo, unico e primario, quello di porre l’accento sulle iniziative intraprese dall’avvocato sicchè il linguaggio usato si profilava come funzionale esclusivamente al giudizio critico e non come mero pretesto denigratorio.

A fronte di quanto appena esposto, una volta premesso che, in materia di diffamazione, sussiste il potere cognitivo e valutativo della Corte di Cassazione in merito alla offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione poiché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie (Sez. 5, n. 2473 del 10/10/2019, dep. 2020; Sez. 5, n. 486 del 19/09/2014; Sez. 5, n. 41869 del 14/02/2013), si osservava come, nel caso di specie, il giudice di appello avesse fatto buon governo dei principi elaborati dalla giurisprudenza secondo cui, sebbene l’esimente del diritto di critica postuli una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione, tuttavia, la stessa non vieta l’utilizzo di termini che, sebbene oggettivamente offensivi, hanno anche il significato di mero giudizio critico negativo del quale si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui i termini stessi vengono utilizzati (Sez. 5, n. 17243 del 19/02/2020; Sez. 5, n. 15089 del 29/11/2019; Sez. 5, n. 37397 del 24/06/2016; Sez. 5, n. 31669 del 14/04/2015; Sez. 5, n. 36077 del 09/07/2007).

Tal che se ne faceva conseguire, ad avviso del Collegio, che, nella condotta incriminata, non fosse affatto riscontrabile l’elemento oggettivo del reato mancando l’offesa all’onore e alla reputazione del legale poiché, in realtà, le espressioni utilizzate dall’imputato nel corpo dell’esposto -in specie quella secondo cui l’avvocato avrebbe assunto un comportamento “scorretto e biasimevole” e, ancora, “riprovevole e censurabile” per non essersi lo stesso preoccupato, prima di procedere esecutivamente nei suoi confronti, di assumere notizie in merito all’avvenuto pagamento della prima rata pattuita- costituivano, per la Corte di legittimità, la piena, quanto congrua, rappresentazione della vicenda che la denunciante ha inteso fornire all’autorità destinataria per giustificare la propria censura in ordine alle modalità “vergognose” con cui era stata compiuta l’attività contestata e per evidenziare la lesione che, dal censurato modus operandi, era derivata ai propri interessi patrimoniali (Sez. 5, n. 9634 del 13/01/2010; Sez. 5; Sez. 5, n. 27616 del 11/02/2019).

Ebbene, a fronte di ciò, una volta denotato come la Cassazione avesse avuto modo di affermare che non integra il delitto di diffamazione la condotta di colui che invii un esposto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati contenente dubbi e perplessità sulla correttezza professionale del proprio legale considerato che, in tal caso, ricorre la generale causa di giustificazione di cui all’art. 51 cod. pen. “sub specie” di esercizio del diritto di critica preordinato ad ottenere il controllo di eventuali violazioni delle regole deontologiche (Cass. Sez. 5, n. 42576 del 20/07/2016; Cass. Sez. 5, n. 33994 del 05/07/2010), si faceva presente che l’esposto dell’imputata, che aveva visto sfumare la possibilità di risolvere la controversia civile dando seguito all’accordo raggiunto con la controparte, aveva avuto al contempo il chiaro ed unico obiettivo, attraverso la rappresentazione della propria versione dei fatti, di sollecitare il ripristino della legalità ritenuta -a torto o a ragione- compromessa dovendosi in questi termini intendere il significato delle espressioni, pur aspre e polemiche, utilizzate dall’imputata preoccupata, ma soprattutto indignata, per l’ulteriore compromissione dei propri interessi economici (Sez. 5, n. 23579 del 17/02/2014) dovuta ad “un ingiusto aggravamento di spese legali inutili in favore dell’avv. (…)“.

Veniva, dunque, affermato come non costituita diffamazione la esposizione, pur attuata con toni sferzanti, di una legittima doglianza formulata in un contesto naturalmente conflittuale quale è quello delle procedure esecutive da chi ritenga l’ingiusta lesione dei propri interessi economici coinvolti.

Si imponeva, pertanto, per la Suprema Corte, il rigetto del ricorso ritenendosi infondati tutti e tre i motivi fermo restando che, da un lato, il rigetto determinava la condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese processuali, dall’altro, quanto alla regolamentazione delle spese del presente grado di giudizio, veniva disposta l’integrale compensazione tra l’imputata e la parte civile in considerazione degli opposti esiti delle sentenze di merito.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante specialmente nella parte in cui, citandosi precedenti conformi, è postulato che l’art. 32, comma 4, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 -che fissa, per il giudice di pace, in quindici giorni il termine per il deposito della motivazione, qualora la stessa non sia dettata a verbale-, in quanto disposizione di carattere derogatorio rispetto alla previsione di cui all’art. 544 cod. proc. pen., non consente nei procedimenti riguardanti reati di competenza al giudice di pace un termine diverso di quello previsto per legge.

Da ciò deriva che, nel caso preveduto da questa norma del d.lgs. n. 274, tale termine deve essere l’unico da doversi prendere in considerazione per il deposito della motivazione, e non quelli contemplati dall’art. 544 c.p.p..

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta pronuncia, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su cotale tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.

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