Indice:
- Il fatto
- I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
- Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
- Conclusioni
Il fatto
La Corte di Appello di Potenza confermava una sentenza emessa dal giudice di prime cure con cui l’imputato era stato condannato per il reato di furto in abitazione continuato.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso il provvedimento emesso dai giudici di secondo grado il difensore dell’imputata proponeva ricorso per Cassazione, deducendo i seguenti motivi: 1) erronea applicazione della legge penale in merito alla qualificazione dei furti contestati ai capi da A) a D) ai sensi dell’art. 624-bis c.p. anziché degli artt. 624 e 625 n. 4) c.p.; 2) erronea applicazione della legge penale con riguardo al furto di cui al capo E), in quanto commesso mentre l’imputata svolgeva la propria attività di collaboratrice domestica nell’abitazione della persona offesa e, quindi, per la difesa, costei non si era introdotta nella medesima al fine di commettere l’illecito, come invece necessario per la configurabilità del reato di cui all’art. 624-bis c.p. e da ciò se ne faceva conseguire come il fatto in questione avrebbe dovuto essere riqualificato ai sensi dell’art. 624 c.p. eventualmente aggravato a norma dell’art. 61 n. 11) c.p..
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il ricorso era stimato fondato nei termini che verranno enunciati da qui a breve.
Gli Ermellini, innanzitutto, rilevavano la manifesta infondatezza del primo motivo posto che, secondo il consolidato insegnamento della Cassazione, ai fini della configurabilità del reato di furto in abitazione è necessario che sussista un nesso finalistico, e non un mero collegamento occasionale, fra l’ingresso nell’abitazione e l’impossessamento della cosa mobile, in quanto il testo dell’art. 624-bis c.p., come novellato dall’art. 2, comma secondo, della legge 26 marzo 2001, n. 128, ha ampliato l’area della punibilità in riferimento ai luoghi di commissione del reato, ma non ha innovato il profilo della strumentalità dell’introduzione nell’edificio, quale mezzo al fine di commettere il reato, già preteso dal previgente art. 625, comma primo, n. 1, c.p. (ex multis Sez. 5, Sentenza n. 19982 del 01/04/2019).
Quindi una volta accertato che l’agente si è introdotto nell’abitazione altrui per commettere un furto, per la Corte di legittimità, è sempre configurabile il reato di cui all’art. 624-bis c.p., indipendentemente dalle modalità con le quali, all’interno del luogo di privata dimora, avvenga la sottrazione o l’impossessamento, ed in tal senso la giurisprudenza di legittimità è altresì costante nel ritenere integrato il reato di furto in abitazione la condotta di chi si impossessi di beni mobili, sottraendoli al legittimo detentore, dopo essersi introdotto nella dimora di questi con il suo consenso carpito mediante inganno (ex multis Sez. 5, Sentenza n. 16995 del 21/11/2019).
Orbene, declinando tali criteri ermeneutici rispetto al caso di specie, i giudici di piazza Cavour osservavano come, a loro avviso, correttamente, la Corte territoriale avesse qualificato i fatti di cui ai capi A), B), C) e D) ai sensi dell’art. 624-bis c.p., essendo stato accertato che l’imputata si era introdotta con espedienti vari nelle abitazioni delle vittime – tutte persone anziane – con l’evidente intenzione di impossessarsi di oggetti di valore mentre la circostanza che le condotte fossero state poi consumate con destrezza o ricorrendo a mezzi fraudolenti, lungi dall’escludere come preteso la configurabilità del reato ritenuto – avrebbe potuto al più consentire la contestazione delle corrispondenti aggravanti di cui all’art. 625 c.p., contestazione però non effettuata, nemmeno in fatto, dal titolare dell’azione penale, fermo restando come era reputata priva di giuridico e logico fondamento l’obiezione, avanzata dalla difesa, per cui il reato di cui all’art. 624-bis c.p. sarebbe configurabile soltanto quando oggetto di impossessamento sono i “beni mobili custoditi nell’abitazione“, con esclusione quindi delle cose portate sulla propria persona dal soggetto passivo.
All’opposto, era reputato fondato il secondo motivo ad oggetto l’episodio contestato al capo E), parimenti qualificato dai giudici di merito come furto in abitazione, in quanto dalla sentenza risultava effettivamente che l’imputata si era impossessata di un oggetto prezioso sottraendolo alla persona offesa mentre svolgeva per conto della medesima all’interno della sua abitazione la propria attività di collaboratrice domestica e, dunque, difettava, ad avviso del Supremo Consesso, nella motivazione della sentenza, la prova del nesso finalistico tra l’azione criminosa e la presenza dell’imputata all’interno dell’abitazione della persona offesa in mancanza della quale il fatto avrebbe dovuto essere riqualificato come furto semplice di cui all’art. 624 c.p., aggravato – come pure evidenziato dallo stesso ricorrente – ai sensi dell’art. 61 n. 11) c.p., avendo l’imputata agito abusando di relazioni di prestazione d’opera che, per il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, ricorrono oltre che nell’ipotesi del contratto di lavoro, ogni qual volta venga instaurato un rapporto giuridico che comporti l’obbligo di un facere e che, comunque, instauri tra le parti un rapporto di fiducia che possa agevolare la commissione del fatto (ex multis Sez. 6, Sentenza n. 11631 del 27/02/2020), tenuto conto altresì del fatto che nemmeno la riqualificazione del fatto – possibile senza violare il c.d. canone Drassich, in quanto sollecitata dalla stessa ricorrente con i motivi d’impugnazione – avrebbe comportato, sempre per la Suprema Corte, l’improcedibilità del reato posto che la persona offesa risulta avere proposto rituale querela.
Volendo invece confermare l’originaria qualificazione giuridica del fatto, la Corte di Appello, invece, per la Corte di legittimità, avrebbe dovuto precisare in che termini risultasse eventualmente in atti che l’imputata avesse scelto di accedere o trattenersi nell’abitazione allo specifico fine di perpetrare il furto al di fuori od oltre l’orario previsto per l’espletamento dell’attività per cui era stata assunta ovvero se addirittura l’imputato si fosse fatta strumentalmente assumere dalla persona offesa al fine di avere libero accesso alla sua abitazione e sottrarre quanto vi trovava.
Il Supremo Consesso, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, disponeva che la sentenza impugnata, limitatamente al capo relativo al reato di cui al capo E), venisse annullata con rinvio per nuovo esame alla Corte di Appello di Salerno la quale si sarebbe dovuta attenere ai principi di diritto affermati in precedenza, dichiarando inammissibile nel resto il ricorso.
Leggi anche Le aggravanti prevedute dagli articoli 61 e 61-bis c.p.: una loro breve disamina
Conclusioni
La decisione in esame desta un certo interesse essendo ivi chiarito quando è configurabile l’aggravante di cui all’art. 61, co. 1, n. 11, cod. pen., in riferimento all’abuso di prestazione d’opera.
Difatti, in tale pronuncia, sulla scorta di un pregresso orientamento nomofilattico, si afferma che siffatto abuso ricorre, oltre che nell’ipotesi del contratto di lavoro, ogni qual volta venga instaurato un rapporto giuridico che comporti l’obbligo di un facere e che, comunque, instauri tra le parti un rapporto di fiducia che possa agevolare la commissione del fatto,
Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione ogni volta si debba appurare la sussistenza di siffatta circostanza.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in cotale sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su codesta tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.
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