- Il fatto
- I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
- Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
- Conclusioni
(Riferimenti normativi: Cod. pen., artt. 59, 633)
1. Il fatto
Il Giudice di Pace di Termini Imerese infliggeva agli imputati la pena pecuniaria della multa in ordine al reato di cui agli artt. 110, 633 cod. pen..
2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso il provvedimento summenzionato proponevano ricorso per Cassazione gli imputati, per il tramite dei loro difensori, deducendo i seguenti motivi: 1) la sentenza non aveva tenuto in considerazione elementi fondamentali che erano emersi in maniera pacifica in sede dibattimentale al fine dell’assoluzione degli imputati perché il fatto non sussiste; 2) posto che l’immobile occupato sarebbe stato abusivo, oltre che a versare in condizioni di abbandono, ad avviso dei ricorrenti, l’affermazione del giudice di pace secondo l’amministratore giudiziario aveva detto che gli occupanti avevano sostituito le serrature e avevano scardinato le porte di ferro era in contrasto con quanto affermato da tutti gli imputati secondo cui gli infissi erano rotti o mancanti ed in alcuni appartamenti mancavano i sanitari; 3) il fatto non costituiva reato ex art. 54 cod. pen.; in particolare, mentre il giudice di pace aveva negato tale causa di giustificazione, gli imputati, invece, avevano dichiarato di avere occupato la casa per necessità insieme alla moglie e ai figli minorenni tenuto conto altresì del fatto che, secondo le difese, il giudice di primo grado non avrebbe motivato sulla esistenza della necessità e della inevitabilità del pericolo.
3. Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
I ricorsi proposti erano dichiarati tutti inammissibili.
Con riguardo al primo e al secondo motivo dei ricorsi, si ricordava come la Cassazione abbia ripetutamente analizzato e descritto le coordinate ed i limiti entro cui deve svolgersi il controllo sulla motivazione dei provvedimenti giudiziari (cfr. tra le pronunce, S.U. n. 12 del 23/06/2000; S.U. n. 6402 del 2/07/1997 e, successivamente alle modifiche apportate dalla legge n. 46 del 2006 all’art. 606 lett. e) cod. proc. pen., Sez. 6, n. n. 10951 del 5/03/2006 e Sez. 6, n. 14054 del 24/03/2006). In particolare, è stato chiarito che il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato è – per espressa disposizione legislativa – rigorosamente circoscritto a verificare che la pronuncia sia sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica, non fondate su dati contrastanti con il “senso della realtà” degli appartenenti alla collettività ed esenti da vistose ed insormontabili incongruenze tra di loro, fermo restando che occorre, inoltre, che la motivazione non sia logicamente inconciliabile con “atti del processo” – specificamente indicati e rappresentati dal ricorrente – che siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità cosi da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione; in altri termini – in aderenza alla previsione normativa che attribuisce rilievo solo al vizio della motivazione che risulti “dal testo del provvedimento impugnato” o da “altri atti del processo” specificamente indicati e rappresentati nei motivi di gravame – il controllo di legittimità si appunta sulla coerenza strutturale della decisione, di cui saggia la oggettiva “tenuta” sotto il profilo logico argomentativo e, tramite questo controllo, anche l’accettabilità da parte di un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento e da osservatori disinteressati della vicenda processuale.
Ciò posto, gli Ermellini osservavano oltre tutto come al giudice di legittimità sia invece preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente e plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa) posto che queste operazioni trasformerebbero la Corte di legittimità nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispetti sempre uno standard minimo di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione.
Pertanto, alla stregua di quanto sin qui affermato, ad avviso del Supremo Consesso, la decisione impugnata si sottraeva alle censure mosse perché il giudice del merito – con motivazione (reputata) esente da vizi logici e da interne contraddizioni – aveva rappresentato le ragioni che l’avevano indotto a ritenere la responsabilità dei ricorrenti per i fatti loro contestati mettendo in luce le modalità con cui, come riferito dall’amministratore giudiziario, gli occupanti erano entrati negli appartamenti di notte, sostituendo le serratura e scardinando le porte di ferro.
Peraltro, la forzatura delle porte, non specificamente contestata nelle singole imputazioni, sempre a giudizio del Supremo Consesso, non aveva rilievo essenziale ai fini della configurabilità del reato, avendo al riguardo la Cassazione evidenziato che, nel reato di invasione di terreni o edifici di cui all’art. 633 cod. pen., la nozione di “invasione” non si riferisce all’aspetto violento della condotta, che può anche mancare, ma al comportamento di colui che si introduce “arbitrariamente“, ossia “contra ius” in quanto privo del diritto d’accesso, cosicché la conseguente “occupazione” costituisce l’estrinsecazione materiale della condotta vietata e la finalità per la quale viene posta in essere l’abusiva invasione tenuto tra l’altro conto che, nel caso in cui l’occupazione si protragga nei tempo, il delitto ha natura permanente e la permanenza cessa soltanto con l’allontanamento del soggetto o con la sentenza di condanna, dopo la quale la protrazione del comportamento illecito dà luogo ad una nuova ipotesi di reato che non necessita del requisito dell’invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell’occupazione (Sez. 2, n. 29567 del 27/03/2019).
Oltre a ciò, veniva per di più rilevato, in relazione all’aspetto del pagamento di un’indennità, che essa non rileva, ai fini della configurabilità del reato.
In tema di invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, invero, il versamento all’ente pubblico proprietario dell’immobile dell’indennità di occupazione ovvero il rilascio all’imputato di un certificato di residenza indicante quale luogo d’abitazione l’immobile occupato o, ancora, l’allaccio delle utenze domestiche, non escludono la sussistenza del reato, già perfezionato con l’abusiva introduzione nell’immobile e la destinazione dello stesso a propria stabile occupazione (Sez. 2, n. 3436 del 27/11/2019).
Con riferimento, poi, alla denunciata violazione dell’art. 54 cod. pen., gli Ermellini ritenevano del tutto corretto l’operato del giudice del merito che, in ossequio all’orientamento formatosi in sede nomofilattica, aveva escluso la sussistenza dello stato di necessità sul rilievo dell’assenza di “attualità” del pericolo poiché tale requisito presuppone che, nel momento in cui l’agente agisce contra ius – al fine di evitare “un danno grave alla persona” – il pericolo sia imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio (Sez. 3, n. 3310 del 02/03/1981; Sez. 2, n. 28067 del 26/03/2015).
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L’attualità del pericolo, quindi, per argumentum a contrario, esclude, dunque, in linea di massima, per i giudici di legittimità ordinaria, tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo dato che, ove, nelle suddette situazioni, si ritenesse la configurabilità dello stato di necessità, sempre per la Corte di legittimità, si effettuerebbe una torsione interpretativa del dettato legislativo in quanto si opererebbe un’inammissibile sostituzione del requisito dell’attualità del pericolo con quello della permanenza, alterando così il significato e la ratio della norma che, essendo di natura eccezionale, necessariamente va interpretata in senso stretto.
In effetti, il pericolo non sarebbe più attuale (rectius: imminente), bensì permanente proprio perché l’esigenza abitativa – ove non sia transeunte e derivante dalla stretta ed immediata necessità “di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona” – necessariamente è destinata a prolungarsi nel tempo.
Del resto, era oltre tutto osservato che, venendo in rilievo il diritto di proprietà, un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 54 cod. pen. alla luce dell’art. 42 Cost., non può che pervenire ad una nozione che concili l’attualità del pericolo con l’esigenza di tutela del diritto di proprietà del terzo che non può essere compresso in permanenza perché, in caso contrario, si verificherebbe, di fatto, secondo i giudici di piazza Cavour, un’ipotesi di esproprio senza indennizzo o, comunque, un’alterazione della destinazione della proprietà al di fuori di ogni procedura legale o convenzionale (Sez. 2, n. 35580 del 27/06/2007; Sez. 2, n. 37139 del 25/09/2007, Rv. 237357; Sez. 2, Sentenza n. 7183 del 17/01/2008).
Da ciò ne se faceva derivare che lo stato di necessità, nella specifica e limitata ipotesi dell’occupazione di beni altrui, può essere invocato solo per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di trovare un alloggio al fine di risolvere, in via definitiva, la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi popolari sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate (Sez. 2, n. 28067 del 26/03/2015; Sez. 2, n. 10694 del 30/10/2019).
Dunque, per la Cassazione, proprio in applicazione di questi arresti, il Giudice di pace aveva correttamente motivato sulla non attualità dello stato di necessità e dell’assenza dei requisiti di fatto integranti l’invocata esimente.
4. Conclusioni
La decisione desta un certo interesse in quanto in essa è ivi chiarito quando ricorre lo stato di necessità nel caso di invasione di terreni o edifici.
Difatti, in tale pronuncia, dopo un lungo e articolato ragionamento giuridico in ordine ai requisiti applicativi che rilevano, sotto il profilo oggettivo, in ordine alla fattispecie delittuosa preveduta dall’art. 633 cod. proc. pen., gli Ermellini hanno affermato, sulla scorta di un pregresso orientamento nomofilattico, che lo stato di necessità, nella specifica e limitata ipotesi dell’occupazione di beni altrui, può essere invocato solo per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di trovare un alloggio al fine di risolvere, in via definitiva, la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi popolari sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate.
Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione al fine di valutare se correttamente invocare siffatta causa di liceità nel caso in cui venga contestato questo illecito penale.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in tale sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su tale tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.
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