Normativa di riferimento
Le indagini finanziarie rappresentano, tra i molteplici strumenti di cui dispone l’amministrazione finanziaria, quello che potenzialmente permette la maggior efficacia investigativa nella lotta all’evasione fiscale. È evidente, infatti, come il Fisco possegga un’arma dal carattere altamente invasivo della sfera patrimoniale del contribuente, tanto invasivo da costringere il legislatore a occuparsi con grande attenzione di come regolamentarne le procedure .
La normativa sulle indagini finanziarie cerca di realizzare un equo contemperamento tra l’interesse privato alla riservatezza e l’interesse pubblico al conseguimento del gettito erariale e alla repressione dell’evasione.
E’ fuor di dubbio, il ruolo essenziale che possono svolgere le indagini finanziarie per ricostruire la capacità contributiva del contribuente, in grado di fornire dati certi e non contestabili e validi supporti di prova per la sua quantificazione.
Di fatto, però, l’ingresso di un organo verificatore in azienda è un evento che di solito suscita una forte apprensione nei responsabili degli adempimenti fiscali e amministrativi: nella molteplicità degli obblighi formali e sostanziali (pagamento delle imposte) stabiliti dalla normativa in materia tributaria, è molto frequente trovarsi esposti al rischio che organi verificatori, Guardia di Finanza o Ispettori dell’Agenzia delle Entrate, possano evidenziare inadempienze o errori di applicazione delle norme fiscali. La possibilità di commettere tali errori è ulteriormente elevata per le frequenti modifiche legislative e difficoltà di interpretazione delle norme, relative agli adempimenti sia formali che sostanziali. È, quindi, di grande rilievo evidenziare la puntuale normativa che il legislatore ha stabilito relativamente all’attività di verifica da parte dell’Amministrazione Finanziaria.
In particolare, è opportuno esaminare gli artt. 32, del D.P.R. del 29 settembre 1973, n. 600 e 51, del D.P.R. del 26 ottobre 1972, n. 633 che sono stati oggetto di disamina da parte della giurisprudenza di legittimità. Predetti articoli attribuiscono agli Uffici Finanziari poteri in ordine all’acquisizione di dati ed elementi rilevanti ai fini della determinazione della base imponibile direttamente nei confronti dei contribuenti cui si riferisce il controllo (invito degli stessi a comparire negli Uffici anche per esibire o trasmettere atti o documenti, invio di questionari, ecc.) ovvero nei confronti di terzi (richiesta di notizie e comunicazioni ad organi ed Amministrazioni dello Stato, richiesta di copie o estratti di atti depositati presso notai, richiesta di conti bancari e postali, ecc.).
Il Questionario Agenzia Entrate è un invito con cui l’Amministrazione Finanziaria chiede al contribuente di fornire informazioni e/o di produrre documentazione necessaria ai fini dell’accertamento della situazione fiscale per quel determinato periodo di imposta.
Tale strumento ha lo scopo di favorire il dialogo fra la parte pubblica e quella privata, per chiarire le reciproche posizioni, così da escludere l’instaurazione del contenzioso, nel rispetto dei canoni di lealtà, correttezza e collaborazione richiesti dallo Statuto del Contribuente.
Di seguito, vengono esaminati i recenti arresti della giurisprudenza di legittimità sull’applicazione dell’art. 32 del DPR n. 600/1973 e la compatibilità del sistema tributario che mira ad accertare la reale capacità contributiva del contribuente.
L’applicazione meccanica della preclusione dell’art. 32 del D.P.R. n.600/1973 provoca la distorsione del sistema tributario
(Cass. n. 14164/2012; Cass. n. 13944/08;Cass.n.11981/03)
La giurisprudenza di legittimità, a seguito del ricorso massiccio allo strumento dei questionari da parte dell’Amministrazione Finanziaria, ha ritenuto opportuno intervenire con una serie di arresti giurisprudenziali per chiarire l’applicazione del succitato art. 32.
La Suprema Corte, infatti, secondo la dottrina non può limitarsi ad applicare meccanicamente la preclusione prevista dall’art. 32 in quanto tale norma, di natura puramente procedurale, può creare una distorsione del sistema tributario, la cui funzione è quella di accertare la reale capacità contributiva del contribuente.
A tal proposito, giova esaminare i principi espressi più volte dal Supremo Consesso (Cass. n. 11981/2003; n. 4605/2008; n. 13944/2008; n. 14164/2012) che ritiene intollerabile un sistema legale che impedisce al contribuente di dimostrare, entro un ragionevole lasso di tempo, l’illegittimità dei fatti giustificativi delle rettifiche.
La Suprema Corte, con sent. n. 4605/2008, si è pronunciata in merito all’esistenza o meno di un onere a carico dell’Amministrazione Finanziaria, di eccepire tempestivamente, o comunque nel corso del giudizio di primo grado, le ragioni d’inutilizzabilità, sulla base del combinato disposto degli artt. 52 del D.P.R. n.633/1972 e 32 del D.P.R. n. 600/1973.
I dati e i documenti non forniti in risposta al questionario sono inutilizzabili in giudizio purchè ci sia un invito specifico e puntuale da parte dell’Amministrazione e l’avvertimento circa le conseguenze della sua mancata ottemperanza
(Cass.n.21271/2016).
Con l’ordinanza n. 27069 del 27 dicembre 2016, la Corte di Cassazione ha ribadito il principio consolidato secondo cui la mancata esibizione, in sede amministrativa, dei libri, della documentazione e delle scritture all’Ufficio dell’Agenzia delle Entrate comporta la sanzione dell’inutilizzabilità della successiva produzione in sede contenziosa, così come previsto dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32.
Tale preclusione opera solo in presenza di un invito specifico e puntuale (Questionario Agenzia Entrate) da parte dell’Amministrazione, purché accompagnato dall’avvertimento circa le conseguenze della sua mancata ottemperanza, che si giustifica -in deroga ai principi di cui agli artt. 24 Cost (diritto di difesa) e 53 Cost. (capacità contributiva) – per la violazione dell’obbligo di leale collaborazione con il Fisco (Cass. n. 11765/2014).
Si tratta, appunto, di una disposizione che deve essere applicata in modo da non comprimere il diritto alla difesa e non obbligare il contribuente a pagamenti non dovuti, proprio perché, in qualche misura, deroga ai principi costituzionali di cui sopra .
In altri termini, la conseguenza dell’inutilizzabilità nel giudizio tributario, a sfavore del contribuente, dei documenti non esibiti nella fase istruttoria amministrativa, è ricollegata ad una specifica richiesta dell’Ufficio accertatore che deve rispondere a determinati requisiti formali:
- trasmissione dell’invito a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento;
- assegnazione di un termine non inferiore a 15 giorni;
- avviso al contribuente delle conseguenze processuali determinate dalla mancata esibizione dei documenti;
- facoltà del contribuente di evitare tali conseguenze depositando i documenti in allegato al ricorso introduttivo dimostrando che la impossibilità di ottemperanza era dipesa da causa non imputabile.
Ne deriva che una richiesta di esibizione di scritture, fatture, od altri documenti commerciali e contabili formulata dall’Ufficio con modalità difformi dallo schema legale descritto è inidonea, in caso di inottemperanza del contribuente, a produrre gli effetti giuridici preclusivi previsti dalle norme tributarie.
Le cause di inutilizzabilità previste dall’art. 32 non operano nei confronti del contribuente che depositi in allegato all’atto introduttivo del giudizio di primo grado in sede contenziosa le notizie, i dati, i documenti, i libri e i registri, dichiarando, comunque, contestualmente di non aver potuto adempiere alle richieste degli uffici per causa a lui non imputabile.
Occorre, cioè, che il comportamento del contribuente non faccia sorgere il dubbio circa la genuinità di documenti che affiorino soltanto in un momento successivo alla richiesta dell’Amministrazione Finanziaria (Questionario Agenzia Entrate) e, inoltre, non appaia meritevole di sanzione per la violazione dell’obbligo di leale collaborazione con il Fisco.
Il riferimento all’invito (Questionario Agenzia Entrate) non inficia l’onere gravante sull’Amministrazione Finanziaria che, citata in giudizio dal contribuente con ricorso introduttivo avverso la pretesa tributaria, proponga l’eccezione di divieto di utilizzabilità dei documenti non esibiti nella fase istruttoria del procedimento, in applicazione della regola generale sul riparto dell’onere probatorio ex art. 2697 c.c.
L’Amministrazione deve, cioè, allegare i fatti sui quali l’eccezione si fonda, tra cui l’esistenza -nell’invito di esibizione trasmesso al contribuente – dei requisiti formali prescritti dalle predette norme tributarie e, in particolare, dell’avvertimento prescritto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 3, cui rinvia il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, comma 4.
Nel caso in cui l’Agenzia delle Entrate non assolva l’onere probatorio posto a suo carico, i documenti prodotti tardivamente si intenderanno utilizzabili e potranno fondare la decisione.
Spetta infatti al fisco, che oppone alla successiva allegazione giudiziale delle fatture la preclusione di cui all’art. 32, allegare e dimostrare che si è realizzata in pieno la sequenza procedimentale avviata col questionario. In mancanza, non può invocare la sanzione dell’inutilizzabilità amministrativa e processuale dei documenti esibiti dal contribuente solo introducendo il processo tributario di prime cure.
La dichiarazione del contribuente di non possedere libri, registri, scritture e documenti richiestigli dall’A.F. nel corso di un accesso preclude la valutazione degli stessi in suo favore in sede amministrativa e contenziosa
(Cass. n. 10527/2017)
L’art. 52 del D.P.R. n.633 del 1972 prevede che i libri, i registri, scritture e documenti di cui si è rifiutata l’esibizione non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente ai fini dell’accertamento in sede amministrativa o contenziosa; per rifiuto di esibizione s’intende anche la dichiarazione di non possedere i libri, registri, documenti, scritture e la sottrazione di essi all’ispezione.
La Suprema Corte, con un principio consolidato (S.U. n. 45/2000), ha affermato, con sentenza n. 633/2000, che, a norma del predetto art. 52 comma 5, perché la dichiarazione resa dal contribuente nel corso di un accesso dell’A.F. di non possedere documenti, registri e scritture richiestigli in esibizione determini la preclusione che gli stessi possano essere presi in considerazione in suo favore ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa, occorre:
- la non veridicità della dichiarazione, che si concretizza in un sostanziale rifiuto di esibizione, accertabile con qualunque mezzo di prova e anche attraverso presunzioni;
- la coscienza e la volontà della dichiarazione stessa;
- il dolo, costituito dalla volontà del contribuente di impedire che nel corso dell’accesso possa essere effettuata l’ispezione del documento.
Non integrano i presupposti applicativi della preclusione:
- le dichiarazioni dell’indisponibilità del documento, non solo quando ciò sia riconducibile a caso fortuito o a forza maggiore, ma anche imputabile a colpa, quale ad esempio la negligenza e l’imperizia nella custodia e conservazione.
In conclusione, il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 52, comma 5, a cui rinvia il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 33, secondo il Supremo Consesso “ ha carattere eccezionale e deve essere interpretato alla luce degli artt. 24 e 53 Cost, in modo da non comprimere il diritto alla difesa e da non obbligare il contribuente a pagamenti non dovuti, sicché non può reputarsi sufficiente, ai fini della suddetta preclusione, il mancato possesso imputabile a negligenza, imperizia nella custodia e conservazione della documentazione contabile” (Cass. Sez. Trib. 28/04/2017, n. 10527).
Abuso da parte del Fisco dell’eccezione di inopponibilità
La dottrina ha analizzato tre casi in cui, nel corso del procedimento di accertamento o nel processo tributario, accade molto spesso che l’Amministrazione Finanziaria invochi la qualità di terzo, per far valere iure privatorum la “inopponibilità” di atti, fatti o documenti allegati dal contribuente per contrastare la pretesa impositiva.
Occorre precisare che la preclusione, di cui all’art. 52 c.4, che prevede l’inutilizzabilità difensiva in sede amministrativa e contenziosa della documentazione non esibita o trasmessa a seguito di inviti dell’Ufficio, diverge diametralmente da quella che caratterizza l’intero settore civilistico, dove l’inefficacia può affermarsi tanto per gli effetti riflessi di atti negoziali intervenuti inter alios, quanto per gli effetti probatori di atti provenienti da terzi, che siano pregiudizievoli nei confronti della controparte.
La Suprema Corte, con orientamento ormai pacifico, ha messo in luce che le predette preclusioni pubblicistiche hanno una duplice valenza:
1) salvaguardare la genuinità della prova alla quale la parte privata con il suo comportamento ha dimostrato di volere sottrarsi;
2) sanzionare indirettamente la violazione del dovere di collaborazione tra contribuente e fisco.
Tuttavia, come verrà di seguito esposto, l’A.F. sostiene che la mancanza di data certa rende inammissibile la prova documentale , in quanto sospetta o di comodo, anche quando viene prodotta tempestivamente dal contribuente.
Il primo caso da esaminare è l’eccezione d’inammissibilità della prova liberatoria che il contribuente, imprenditore o professionista, intenda fornire per vincere la presunzione posta dall’art. 32, comma 2, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in ordine alla rilevanza reddituale delle movimentazioni emergenti dai conti bancari intestati a esso o alle parti correlate.
L’Amministrazione Finanziaria afferma che le allegazione di scritti provenienti da terzi, se privi di data certa, sono “inopponibili”al Fisco.
Tale argomentazione è sorretta dall’orientamento della Suprema Corte (Cass. n. 2402/2000), secondo il quale il legislatore ha inteso ampliare il concetto di “terzo” a cui fa riferimento l’art. 2704 c.c., comprendendovi l’Amministrazione Finanziaria, titolare di un diritto d’imposizione collegato al negozio documentato.
Predetto orientamento della giurisprudenza di legittimità ha disatteso il precedente orientamento che aveva concluso che “il Fisco non può essere considerato terzo perché trae l’atto, da cui è estraneo,soltanto un proprio diritto autonomo di natura pubblica all’imposizione tributaria; pertanto le scritture private non debbono essere munite della data certa, quando vengono sottoposte alla registrazione nei termini di legge” (Cass., Sez. I, 8 maggio 1953, n.1280).
Secondo la dottrina, l’Amministrazione Finanziaria ha acriticamente generalizzato il recente orientamento della Suprema Corte, sostenendo che, se difetta la data certa del documento, deve essere negata pregiudizialmente ogni efficacia dimostrativa a qualsiasi documento, anche se tempestivamente esibito o prodotto dal contribuente, trasformando una norma che ha una specifica valenza in ordine alla data della scrittura, e non all’efficacia o alla prova del negozio, in una norma sull’efficacia dimostrativa del mezzo di prova.
Pertanto, viene interpretato in maniera distorta l’insegnamento ormai risalente della giurisprudenza di legittimità, secondo cui l’art. 2704 c.c., nello stabilire l’inopponibilità della data della scrittura privata, non autenticata dalla sua sottoscrizione né registrata, non ha portata generale e assoluta, giacchè tutela solo i diritti dei terzi quando si vogliono far valere contro di essi, in relazione alla data dell’atto, gli effetti negoziali propri della convenzione in esso contenuta.
Per tale motivo, i documenti provenienti da un terzo, estraneo al giudizio, non hanno efficacia privilegiata in ordine ai fatti attestati o alla data del loro verificarsi, ma costituiscono prova indiziaria, rimessa alla libera valutazione del giudice di merito e, congiuntamente, ad altre circostanze desumibili dalla stessa natura della controversia che ne confermino l’attendibilità, sono utili elementi di convincimento.
Per tale ragione, la parte contro cui è prodotto il documento ha l’onere di contestare la genuinità e veridicità del contenuto, avvalendosi di ogni mezzo di prova.
Secondo la dottrina, tali principi non possono valere in ambito tributario, dove le dichiarazioni dei terzi svolgono molto spesso un ruolo decisivo per contrastare la pretesa impositiva; inoltre, non esiste alcuna norma generale che disponga ex se l’inammissibilità come mezzo di prova di scritture provenienti da terzi, che siano prive di data certa.
Un’interpretazione costituzionalmente orientata deve portare a respingere la tesi interpretativa che sorregge le tesi dell’Amministrazione Finanziaria; infatti, sia la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 4269/2002; v. anche Cass. n. 5957/2003 e Cass. n. 4423/2003) che la Corte Costituzionale (Corte Cost n. 18/2000) hanno concordemente affermato che le dichiarazione dei terzi ben possono essere utilizzate come fonti di prova atipica a favore del contribuente, senza minimamente condizionare la loro ammissibilità alla certezza della data.
In conclusione, sulla base di quanto esposto, le dichiarazioni provenienti da terzi, per poter essere disattese dall’amministrazione o dal giudice devono essere pregiudizialmente contestate, sia sotto il profilo della loro autenticità, sia sotto quello della veridicità del loro contenuto, compresa la falsità ideologica della data.
Ciò posto, è preciso onere dell’Agenzia delle Entrate quello di eccepire in sede di merito che il fatto dedotto nei documenti non corrisponde a realtà, in modo da consentire l’apertura del contraddittorio delle parti e gli accertamenti sul punto.
Il secondo caso, esaminato dalla dottrina, attiene al problema della certezza della data della scrittura privata nei confronti dei terzi, che l’art. 2704 c.c., oltre alle fattispecie tipizzate, riconosce in via residuale dal giorno in cui si verifica un altro fatto che stabilisca in modo egualmente certo l’anteriorità della formazione del documento.
La questione è sorta a seguito della posizione assunta dal Fisco nei confronti del patto di deroga convenzionale al dettato dell’art. 2561 c.c., dalla cui esistenza l’art. 14 , secondo comma, del D.P.R. 4 febbraio 1988, n.42, fa dipendere la disapplicazione della disciplina dell’art.67, nono comma, del TUIR.
L’Amministrazione Finanziaria ha eccepito che l’esibizione del documento in sede di verifica costituisce una circostanza di fondamentale importanza che non può essere trascurata, poiché l’esibizione vale conferire, ai sensi dell’art. 2704 c.c., al documento predetto data certa dal giorno in cui il verbale è stato redatto.
Ciò posto, è opportuno sottolineare che l’art. 14 non contiene alcuna specificazione formale e temporale circa le modalità con cui deve avvenire la prescritta deroga convenzionale alle norme dell’art. 2651 c.c.; pertanto, secondo la dottrina, è errata l’opinione dell’Amministrazione secondo cui la pattuizione sarebbe dovuta essere fornita di data certa risalente al momento della stipula del contratto di affitto d’azienda.
Per di più, per quanto riguarda la formalizzazione del patto, nessuna norma civile o fiscale impone la sua contestualità temporale rispetto al contratto base, poiché è possibile che il contratto venga stipulato successivamente.
Il terzo caso riguarda l’eccezione di simulazione
E’ stata per molto tempo analizzata da autorevole dottrina,con riferimento alle imposte d’atto, la posizione dell’Amministrazione Finanziaria nel caso di difformità tra il regolamento negoziale apparente e quello reale e della possibilità di far valere la simulazione, senza che sia necessaria una previa pronuncia giurisdizionale, dato che l’esigenza di effettività impone di correlare il concorso alle pubbliche spese a rapporti voluti e tenuti vincolanti alle parti.
Di frequente succede che, per contrastare un accertamento sintetico, originato da un investimento patrimoniale, avente a oggetto immobili o quote societarie e privo di copertura reddituale, un coniuge o un parente in linea retta affermi che, essendo legato al dante causa da un rapporto di parentela o di coniugio, il titolo di trasferimento non è oneroso e, pertanto, nessun pagamento del prezzo vi è stato da parte sua.
L’Agenzia delle Entrate, nei propri scritti difensivi, è solita argomentare che predetta donazione non avrebbe potuto produrre effetti tra le parti per difetto del requisito di forma (art. 1414 c.c., 782 c.c.) e che la simulazione non è opponibile ai terzi ex art. 1415 c.c.
Il Fisco non prende per niente in considerazione l’importante pronuncia n. 5991 del 2006 della Suprema Corte, la quale ha chiarito che il contribuente “non ha esercitato con il ricorso alla Commissione tributaria un’azione diretta a ottenere una dichiarazione di nullità del contratto simulato oppure a far valere gli effetti di un contratto dissimulato..”; dall’altra parte il Fisco “non può essere considerato un terzo danneggiato della simulazione di una finta vendita da cui sia scaturito un accertamento sintetico, in quanto il contribuente che invoca la simulazione del pagamento del prezzo esercita un suo preciso diritto di provare che l’effettuata acquisizione dei beni non denota una reale disponibilità economica, suscettibile di valutazione ai fini fiscali”.
Tale principio è orientamento costante della Corte di Cassazione da quattro decenni e, invero, con la sentenza n. 973 del 1971, il Supremo Consesso ha, altresì, precisato che “la simulazione è inopponibile ai terzi come negozio giuridico produttivo di conseguenze sostanziali tra i contraenti, ma non anche la simulazione come semplice fatto o mezzo di prova di un altro fatto non costituente un effetto negoziale”.
Pertanto, con predetto consolidato orientamento enunciato nella sentenza del 2006, la Suprema Corte ha riconosciuto il pieno diritto al contribuente di opporre al Fisco, che pacificamente non è un terzo acquirente o un creditore che agisce in executivis sui beni trasferiti, l’inconsistenza del fatto della presunta capacità di spesa provando che a fronte di un trasferimento immobiliare non ha pagato alcun prezzo.
In un’altra pronuncia , infatti, la Suprema Corte ha sottolineato che il contribuente, sottoposto ad accertamento sintetico, ha sempre la facoltà di fornire, investendo il presupposto di fatto legittimante, l’accertamento stesso.
La mancata indicazione di un documento nell’indice del fascicolo di parte comporta l’inutilizzabilità dello stesso da parte del giudice
(Cass. 10 febbraio 2017, n.3593)
Caso
Equitalia Sud Spa impugnava la sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Catanzaro che aveva ritenuto inammissibile l’appello dalla essa ricorrente proposto contro la sentenza di primo grado che, in sua contumacia, aveva ritenute illegittime tre intimazioni di pagamento, in assenza di notificazione delle prodromiche cartelle esattoriali.
In particolare, la Commissione Tributaria Regionale aveva ritenuto che l’appello fosse inammissibile in quanto privo di una specifica censura alla ratio decidendi della Commissione medesima, basata appunto sulla mancata notificazione delle cartelle esattoriali e, per di più, la prova di tale avvenuta notificazione non poteva desumersi dai documenti menzionati da Equitalia Sud Spa nell’atto di appello, in quanto non materialmente prodotti in giudizio, come desumibile dalla loro omessa indicazione nell’indice del fascicolo di parte depositato.
Decisione
La Suprema Corte, investita della questione innanzi enunciata, decidendo sui motivi di doglianza li dichiara fondati, ma enuncia un importante principio di diritto in ambito tributario, fondato sull’interpretazione letterale dell’art. 24 Dlgs n. 546/1992.
La giurisprudenza di legittimità si sofferma nel punto in cui nella sentenza viene rilevata l’assenza nel fascicolo di causa della documentazione probatoria attestante la notifica della cartella di pagamento, sol perché non indicate nell’indice del fascicolo dell’appellante depositato agli atti, richiamando la disposizione normativa contenuta nell’art. 24 del Codice Tributario che, ove non rispettata, comporta la inammissibilità -inutilizzabilità della documentazione probatoria.
Precisamente, in base all’art. 24 del Dlgs n. 546/1992, “I documenti devono essere elencati negli atti di parte cui sono allegati ovvero, se prodotti separatamente, in apposita nota sottoscritta da depositare in originale ed in numero di copie in carta semplice pari a quello delle altre parti”
Su tale disposizione si fonda la decisione del giudice di appello, che motiva la sua pronuncia favorevole al contribuente basata sul fatto che i documenti probatori afferenti alla notifica delle cartelle di pagamento non fossero stati indicati nell’elencazione dei documenti del fascicolo di parte; ciò è sufficiente per dichiarare tamquam non esset tali documenti, senza che venga effettuata la materiale ricerca degli stessi.
Tale conclusione della Commissione Tributaria Regionale, secondo la Suprema Corte, è dipesa da una valutazione di natura prettamente giuridica; infatti, si verte “… non già di errore di fatto revocatorio su un evento di natura processuale, astrattamente ricorribile per revocazione ex art. 395 n.4 c.p.c., bensì di violazione e falsa applicazione delle norme di riferimento(errore di diritto)”(Cass. 10 febbraio 2017 n. 3593).
Una volta chiarita la natura del vizio, la giurisprudenza di legittimità sostiene che “non è infatti in discussione che la mancata elencazione dei documenti nel fascicolo di parte che li contenga, determini per sé, perché proprio contrastante con il disposto di legge,l’irritualità della produzione la conseguente inutilizzabilità, da parte del giudice, dei documenti non elencati”.
Il Supremo Consesso continua, rafforzando predetto principio, affermando che “sul piano della logica ispiratrice della disciplina legale non vi sono pertanto ragioni per non ritenere valido,anche nel processo tributario, ex art. 24 Dlgs n. 546/1992, quanto già osservato con riferimento al processo civile ordinario. Secondo cui l’inosservanza degli adempimenti di produzione e di deposito dei documenti preclude alla parte la possibilità di utilizzarli come fonte di prova, e al giudice di merito di esaminarli e porli a fondamento del proprio convincimento”.
Le ragioni della citata disposizione normativa sono riconducibili a esigenze sostanziali di tutela del contraddittorio e di esercizio del diritto di difesa della parte contro la quale le produzioni sono state effettuate.
Infatti, la Suprema Corte, dopo aver enunciato l’assenza di dubbi in ordine alla necessaria indicazione del documento probatorio nell’elenco contenuto nel fascicolo di parte, pena l’inammissibilità- inutilizzabilità del documento, i giudici di legittimità affermano che l’effetto preclusorio appena enunciato “non ha modo di verificarsi quando vi siano elementi per ritenere che nel documento , ancorchè irritualmente prodotto […]” , la parte contro la quale la produzione è posta in essere, “…abbia comunque avuto diretta e piena contezza, accettando di svolgere su di esso il contraddittorio”; ovvero, potrà aversi l’effetto preclusivo, “sempre che, tuttavia,la controparte legittimata a far valere l’irregolarità, non abbia accettato, anche implicitamente, il deposito così come eseguito, prendendo contezza della documentazione in tal modo prodotta”.
In conclusione, giova mettere in luce la pregevole importanza dei principi sanciti nell’esaminata pronuncia della Suprema Corte poiché rendono più evidente il fatto che, essendo il processo tributario prettamente documentale, con poteri istruttori del giudice tributario molto limitati, il legislatore ha ben previsto una serie di preclusione e decadenze alla produzione documentate, che qualora rispettate garantiscono lo svolgimento di un equo processo.
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