NOTA A SENTENZA: Cass. civ., sez. I, 25 febbraio 2020, ordinanza interlocutoria n. 5078, Pres. Di Virgilio, Est. Lamorgese.
Sommario: 1. Premessa. I fatti di causa. – 2. La decisione.
Premessa. I fatti di causa.
Il Tribunale di “X” dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto mediante il rito concordatario da Tizia e Caio, ponendo a carico del secondo l’onere di corrispondere un assegno divorzile in favore della seconda.
Caio proponeva ricorso avverso tale sentenza, ma la Corte d’appello rigettava il gravame e proponeva pertanto ricorso per Cassazione contestando la debenza dell’assegno.
La sentenza della Corte d’appello aveva reso esecutiva la sentenza di nullità del matrimonio, resa dal Tribunale ecclesiastico Regionale Etrusco, ratificata dal Tribunale Ecclesiastico di Flaminio e resa esecutiva dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica.
La causa veniva rimessa alla Sezione semplice della Corte di cassazione.
La controricorrente rappresentava che non potesse tenersi conto della sentenza del Tribunale Ecclesiastico per due ordini di ragioni: da un lato la sentenza non era ancora passata in giudicato; dall’altro lato, asseriva l’autonomia dei giudizi di divorzio e di riconoscimento della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, i quali si differenziano sia in ordine al petitum, sia in ordine alla causa petendi.
La decisione
La prima sezione della Corte di cassazione ha ritenuto infondato l’assunto della controricorrente. Invero, il pendente ricorso per Cassazione di cui riferiva la predetta parte è stato rigettato dalla Corte. Conseguenza immediata di ciò, è stato il passaggio in giudicato della sentenza della Corte fiorentina, la quale ha reso esecutiva la sentenza ecclesiastica con cui si dichiarava la nullità del matrimonio.
La parte controricorrente contestava – inoltre – gli effetti della sentenza ecclesiastica di nullità nel giudizio civile, in relazione alle statuizioni economiche consequenziali al divorzio e afferenti agli ex coniugi.
I giudici hanno osservato al riguardo che la cessazione degli effetti civili del matrimonio è stata dichiarata nel caso di specie dal Tribunale di “X” e che la predetta sentenza non è stata impugnata né in appello, né per Cassazione. Questo ha determinato la formazione del giudicato interno. Invero, ad essere impugnata è stata la sola statuizione afferente all’assegno di divorzio.
Questa precisazione consente di comprendere gli effetti della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario sulle statuizioni economiche accessorie, sulle quali non si sia ancora formato il giudicato, essendo ancora pendente un giudizio per Cassazione.
Al riguardo ci si è chiesti se la nullità del matrimonio possa determinare la cessazione della materia del contendere nel giudizio avente ad oggetto le predette statuizioni. Ci si chiede, pertanto, quali effetti possa produrre la nullità del matrimonio – statuita da un Tribunale ecclesiastico – sull’assegno divorzile.
La materia è stata oggetto di un dibattito interpretativo che ha visto contrapporsi due filoni ermeneutici.
Per una comprensione più esaustiva si ritiene necessario ripercorrere le tappe della giurisprudenza.
Le Sezioni unite con la sentenza n. 1824 del 1993 hanno confermato la giurisdizione del Tribunale ecclesiastico nelle controversie afferenti alla nullità del matrimonio celebrato secondo le disposizioni del diritto canonico. Con la medesima sentenza è stato sancito, altresì, il principio di diritto secondo cui sulla base dell’accordo di revisione del Concordato con la Santa sede dell’11 febbraio 1929 la riserva di tale giurisdizione doveva ritenersi abrogata ex art. 13 dell’Accordo medesimo, in maniera tale che per le controversie in materia di nullità del matrimonio concordatario sussistono entrambe le giurisdizioni: quella italiana e quella ecclesiastica. Queste concorrono sulla base del criterio della prevenzione e del collegamento nel procedimento delibativo delle decisioni del tribunale ecclesiastico.
Ulteriore tassello in materia è stato posto dagli interpreti con la sentenza della prima Sezione civile n. 4202 del 2001 con la quale è stato affermato che essendo venuta meno l’esclusività della giurisdizione dei Tribunali ecclesiastici sulle cause di nullità dei matrimoni concordatari – qualora le parti non introducano espressamente nel giudizio di divorzio questioni circa l’esistenza e la validità del matrimonio – di regola la validità e l’esistenza stessa del matrimonio costituiscono un presupposto della sentenza di divorzio. Tuttavia, non sono oggetto di specifico accertamento suscettibile di dare luogo al formarsi di un giudicato. Nella specie, le contestazioni afferenti alla esistenza e validità del matrimonio inciderebbero sullo stato delle persone e come tali non possono essere adottate incidenter tantum, ma dovrebbero essere decise necessariamente ai sensi dell’art. 34 c.p.c., con accertamento avente efficacia di giudicato.
Per le ragioni sopra esposte, la sentenza di divorzio[1] non impedisce la possibilità di delibazione della sentenza dei Tribunali ecclesiastici con cui sia stata dichiarata la nullità del matrimonio concordatario.
In ordine ai capi della sentenza di divorzio che contengano statuizioni di tipo economico, precisa la Corte, è necessario applicare la regola generale secondo cui a fronte dell’accertamento in giudizio della spettanza di un determinato diritto – mediante sentenza passata in giudicato – tale spettanza non può essere rimessa in discussione[2] fra le parti.[3]
La Corte ha precisato, inoltre, che gli impegni assunti dall’Italia con l’Accordo del 1984[4] si sostanziano nell’obbligo per la prima di riconoscere gli effetti civili ai matrimoni contratti sulla base delle norme del diritto canonico e, per altro verso, di dichiarare efficaci le sentenze dei Tribunali ecclesiastici con le quali si dichiara la nullità del matrimonio che siano munite del decreto di esecutività. Allo Stato italiano rimane, invece, la competenza afferente alla disciplina dei rapporti patrimoniali fra coniugi derivanti dagli effetti civili dei matrimoni concordatari.
Per quanto concerne, invece, le statuizioni relative al venir meno degli effetti – a tenore di quanto disposto dall’art. 8, comma 2 dell’Accordo – la giurisdizione e la competenza è attribuita al giudice civile. Da ciò deriva che la sopravvenienza della delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio non osta alla piena operatività dell’art. 2909 c.c.[5]
La norma de qua statuisce che una volta accertata la spettanza di un determinato diritto – mediante una sentenza passata in giudicato – la predetta spettanza non può essere rimessa in discussione al di fuori dei casi eccezionali di revocazione di cui all’art. 395 c.p.c.
Alla luce di tali considerazioni, allorché venga accertato in giudizio – col quale si dichiari la cessazione degli effetti civili del matrimonio – la spettanza di un assegno divorzile, sul quale si sia formato il giudicato, questo deve ritenersi intangibile ai sensi dell’art. 2909 c.c.
Per tali ragioni, il giudicato civile afferente alla cessazione degli effetti civili del matrimonio e le connesse questioni economiche non possono essere considerati ostativi alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio.[6]
La sentenza di divorzio e la domanda di nullità del matrimonio – invero – hanno petitum e causa petendi differenti.
Inoltre, la delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità determina il travolgimento delle statuizioni economiche contenute nella sentenza non passata in giudicato o comunque la materia del contendere nel giudizio sull’assegno di divorzio.
Invero, questi presuppongono la validità dell’atto matrimoniale e del conseguente vincolo venuto meno.
Questo effetto – tuttavia – non è in grado di prodursi allorché si sia in presenza di un giudicato che investa le statuizioni economiche, in ragione di quanto disposto dall’art. 2909 c.c.[7]
Un’altra impostazione, avallata dall’ordinanza n. 1882 del 2019[8] nega che la delibazione ecclesiastica di nullità del matrimonio possa avere un effetto paralizzante nel giudizio afferente all’assegno divorzile. Nella specie i giudici hanno asserito che l’ex moglie ha diritto a mantenere l’assegno divorzile, qualora la sentenza di divorzio sia passata in giudicato prima dell’annullamento dalla Sacra rota.
Nell’ordinanza in parola, i giudici hanno asserito che il titolo giuridico dell’obbligo del mantenimento che grava sull’ex coniuge poggia sull’accertamento dell’impossibilità di proseguire “la comunione morale e spirituale”. Diretta conseguenza di tale impossibilità è lo scioglimento del vincolo matrimoniale ovvero la dichiarazione della cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario.
Inoltre, hanno precisato che la declaratoria di nullità del vincolo matrimoniale non è in grado di far venir meno lo status di divorziato[9], che di per sé è uno stato inesistente dal momento che la pronuncia di divorzio al più determina per gli ex coniugi la riacquisizione dello stato “libero”.[10]
Secondo tale indirizzo, pertanto, la sentenza di nullità del matrimonio, pronunciata dal Tribunale ecclesiastico, una volta delibata non sarebbe in grado di travolgere le statuizioni economiche: sia quelle coperte dal giudicato; sia quelle poste a valle della sentenza o del capo della sentenza con la quale si dichiari con effetto di giudicato la cessazione degli effetti civili del matrimonio, allorché il processo prosegua anche in fase impugnatoria sulle statuizioni economiche.
Al riguardo però è stato obiettato che le misure di carattere economico che possono essere disposte dal Tribunale ai sensi dell’art. 5 della legge n. 898 del 1970 richiedono quale presupposto necessario – anche se non sufficiente – il matrimonio, inteso quale atto valido o quantomeno non nullo.
La solidarietà post – coniugale presuppone un rapporto di coniugio che poggia su un matrimonio valido e non nullo. Pertanto, se il riacquisto dello stato libero fosse condizione sufficiente per l’operatività del regime patrimoniale disciplinato dalla legge sul divorzio, si dovrebbe ammettere che il medesimo stato di “libertà” viene acquisito anche per effetto della sentenza di nullità del matrimonio.
Il nodo gordiano riguarda, dunque, la possibilità di ritenere che il giudicato sul divorzio possa precludere alla successiva sentenza di nullità di esplicare i propri effetti oppure no.
In conclusione, la prima sezione rimette alle Sezioni unite il quesito se “il giudicato interno (per effetto di sentenza parziale o capo autonomo non impugnato della sentenza) che dichiari la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario sia idoneo a paralizzare gli effetti della nullità del matrimonio, dichiarata con sentenza ecclesiastica successivamente delibata dalla corte d’appello ( con sentenza passata in giudicato), solo in presenza di statuizioni economiche assistite dal giudicato o anche in assenza di dette statuizioni, con l’effetto (nel secondo caso) di non precludere al giudice civile il potere di regolare, secondo la disciplina della legge n. 898 del 1970 e successive modificazioni, i rapporti patrimoniali tra gli ex coniugi il cui vincolo sia consacrato in un atto matrimoniale nullo”.
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Note
[1] Vale la pena precisare che la predetta sentenza si caratterizza per un petitum e una causa petendi differenti da quelli della sentenza di nullità del matrimonio.
[2] Occorre precisare che debbono essere esclusi i casi eccezionali e tassativi di revocazione di cui all’art. 395 c.p.c.
[3] Tale impossibilità deriva dagli effetti del giudicato di cui all’art. 2909 c.c.
[4] Il predetto Accordo, noto anche come nuovo Concordato o come Concordato bis, costituisce un accordo politico stipulato tra lo Stato italiano e la Città del Vaticano. Nella specie non costituisce un nuovo accordo, ma un mero accordo di revisione del Concordato del 1929. È il frutto di un’attività di aggiornamento e adeguamento alla società del tempo, dei rapporti intercorrenti tra lo Stato e la Chiesa. Consta di 14 articoli, i quali sono estrinsecazione e sintesi dei principi di derivazione costituzionale e dei principi espressi dalla Santa Sede.
[5] Con l’espressione “cosa giudicata” ci si riferisce all’accertamento di fatti, situazioni o rapporti oggetto di una sentenza passata in giudicato. L’accertamento in essa contenuto deve essere riconosciuto e rispettato dalle parti del giudizio, dai loro eredi o chiunque derivi un proprio diritto da essi. Invero, sebbene la sentenza debba essere riconosciuta da tutti, questa è in grado di produrre ed esplicare i propri effetti solo tra i predetti soggetti e non anche nei confronti di soggetti terzi.
La ratio della disposizione deve essere ricercata nella esigenza di certezza dei rapporti giuridici.
La norma in esame stabilisce, invero, il cosiddetto giudicato sostanziale che presuppone l’impossibilità di impugnare la sentenza che costituisce giudicato formale ai sensi dell’art. 324 c.p.c.
[6] Cass. civ., sez. I, n. 4202 del 2001.
[7] In tal senso e per approfondimenti in merito si vedano Cass. civ., sez. I, 7 ottobre 2019, n. 24933 e Cass. civ., sez. I, n. 13625 del 2010.
[8] Cass. civ., sez. I, 23 gennaio 2019, ordinanza n. 1882.
[9] Seppur non può ritenersi esistente lo status di divorziato, deve rilevarsi che esiste la condizione di divorziato che inerisce alla persona e alle sue relazioni all’interno della collettività, come dimostrano – ad esempio – gli artt. 73, comma 1 del d.p.r. n. 396/2000 ovvero gli artt. 612 bis e 612 ter c.p.
[10] Nella medesima direzione si è orientata la Cassazione con la pronuncia n. 11553 del 2018, con la quale i giudici hanno asserito che diversamente da quanto si verifica nei casi di separazione dei coniugi, le statuizioni economiche afferenti all’assegno divorzile risultano essere insensibili alla pronuncia che rende esecutiva la sentenza ecclesiastica con la quale viene dichiarata la nullità del matrimonio.
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