Reati tributari: il confine tra forza maggiore e inesigibilità

Scarica PDF Stampa

La particolare congiuntura economica in cui si innesta l’attuale sistema ordinamentale ha portato a riconsiderare alcune problematiche attinenti le categoriche giuridiche dell’inesigibilità e forza maggiore correlate all’apparato normativo dei reati tributari in specifiche situazioni di crisi di liquidità finanziaria.

Il contesto socio-economico, connotato da una spiccata criticità in ordine alla reperibilità di risorse cui attingere per far fronte ad una fase depressiva a rischio recessivo, fa da sfondo a questioni che lungi da essere mere dissertazioni sulla teoria generale del diritto e su concetti astratti e avulsi dalla realtà, si rappresentano nella concretezza risolutiva delle loro applicazioni.

 

La categoria dell’inesigibilità e della forza maggiore sono riconducibili alla matrice comune della  c.d. colpevolezza quale principio cardine del sistema giuridico in combinazione con il principio di personalità della responsabilità penale ex art. 27 Cost.

Molto discussa è stata l’ammissibilità tra le cause di esclusione della colpevolezza dell’inesigibilità quale scusante dotata di propria autonomia, in particolare in punto di analogia iuris, oltre che di analogia legis per determinate disposizioni.

E tra le cause di esclusione della colpevolezza taluni fanno rientrare la forza maggiore, distinta dallo stato di necessità ex art. 54 c.p. (art. 49 c.3 Codice Zanardelli 1889) , diversamente da chi sostiene la configurabilità della forza maggiore quale evento interruttivo del nesso causale.

 

In posizione intermedia si colloca quell’orientamento in base al quale la forza maggiore ex art. 45 c.p. costituisce una ipotesi di inesigibilità, presupposto il riconoscimento, a livello di ordinamento giuridico, di questa categoria.

 

A seconda dell’opzione interpretativa che si adotta diverse saranno le conseguenze pratiche in quanto se le scusanti incidono sul piano soggettivo escludendo la colpevolezza, gli eventi interruttivi del nesso causale incidono sul piano oggettivo escludendo la causalità tra condotta ed evento lesivo dannoso.

Ne derivano soluzioni differenti, in primo luogo per quanto concerne l’ammissibilità di una applicazione analogica, la disciplina concorsuale ex 110 c.p., e la pronuncia, nello specifico di formula assolutoria ex 652 c.p.p. con riguardo non solo agli effetti extrapenali ma anche a livello di giudizi di danno e disciplinari sia in riferimento all’imputato che al danneggiato parte civile ex 658 co. 4 c.p.p.

In tema di reati tributari il problema si è presentato a seguito di crisi di liquidità finanziaria degli imprenditori per le ipotesi di reati in materia di documenti e pagamenti di imposte quali, ad esempio, omesso versamento di ritenute certificate ex art. 10 bis d. lgs. 74/00, così come modificato dalla legge finanziaria per il 2005, omesso versamento ritenute previdenziali e assistenziali ex art. 2 l.  638/83 di conversione del d.l. 463/83, ed ancora per il caso di omesso versamento iva ex art. 10 ter d. lgs. 74/00 così come introdotto dall’art. 35 vo. 7 d. l. 223/06.

 

Ciò ha assunto importanza anche a seguito degli interventi del legislatore succedutisi nel 2013, dalla l. 64/13 attuativa, con modifiche, del d.l. 35/13 “Disposizioni urgenti per il pagamento dei debiti scaduti della pubblica amministrazione, per il riequilibrio finanziario degli enti territoriali,
nonché in materia di versamento di tributi degli enti locali”, al c.d. “Decreto del Fare” d. l. 69/13 recante “Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia”, convertito in  l. 98/13.

Al fine di un corretto inquadramento della questione è opportuno in via preliminare definire il concetto di colpevolezza individuandone i referenti normativi a livello costituzionale e sovranazionale e la natura giuridica oscillante tra teoria psicologica e concezione normativa.

 

Nel nostro ordinamento vige il principio in base al quale “nullum crimen nulla poena sine culpa”: la colpevolezza è requisito strutturale del fatto tipico la cui assenza esclude la punibilità; essa non è desumibile dal carattere o dalla condotta di vita, posto che dottrina e giurisprudenza maggioritaria rifiutano la concezione legata alla colpa d’autore.

 

Il fondamento a livello di Carta fondamentale è dato dalla tutela della libertà personale ex art. 13 Cost., ma in modo ancor più significativo dal principio della personalità della responsabilità penale ex art. 27 co.1 Cost., cui si ricollegano a livello di CEDU l’art. 5 sul diritto alla libertà in parallelo con l’art. 6 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, a presidio il principio di legalità ex art. 25 Cost, 7 CEDU e 49 della medesima Carta.

 

La legislazione ordinaria affronta la tematica all’art. 40 c.p. il quale con riguardo al rapporto di causalità afferma che nessuno possa essere punito se l’evento da cui dipende il reato non è conseguenza della sua azione od omissione, e nell’art. 42 co. 1 c.p. il quale prevede che “Nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato se non l’ha commessa con coscienza e volontà.”

Il suo precedente storico è rinvenuto nell’art. 45 del Codice Zanardelli laddove si statuisce che “Nessuno può essere punito per un delitto, se non abbia voluto il fatto che lo costituisce [..]” formula che è stata oggetto di revisione in quanto criticata di applicazione restrittiva alle sole ipotesi di dolo, allo stesso modo l’inciso successivo che, nel tentativo di chiarire la portata, ha dato origine a dibattiti in ordine all’ammissibilità di una responsabilità oggettiva nel nostro sistema penale.

 

L’art. 41 c.p. individua ulteriormente quel peculiare fenomeno del concorso di cause precisando l’effetto interruttivo del nesso causale delle concause sopravvenute da sole sufficienti a determinare l’evento.

La colpevolezza va distinta dalla colpa intesa “negligenza, imprudenza, imperizia” tanto più che è proprio l’incapacità di ricondurre la colpa nella nozione di colpevolezza propria della teoria psicologica che porta a prediligere la teoria normativa della “rimproverabilità dell’atteggiamento antidoveroso”.

 

Presupposto del giudizio di rimprovero è la possibilità di tenere un comportamento conforme al precetto: è necessaria la suitas della condotta, ovvero coscienza e volontà, intesa per taluni nel senso di dominio per altri di dominabilità dell’azione od omissione.

L’inesigibilità è una categoria pretoria, creazione della giurisprudenza per far fronte a lacune sistematiche del sistema emerse in presenza di determinati casi di non esigibilità di condotte diverse rispetto a quelle tenute in carenza di alternative all’autoaccusa.

 

Questo orientamento si basa sulla negazione del principio di autoresponsabilità: non si può pretendere dal soggetto che, a fronte di una specifica situazione, questi operi una sorta di autodenuncia del proprio operato, è il caso, ad esempio, delle false comunicazioni sociali ex 2621 c.c. prima della riforma ex d. lgs. 74/00.

Secondo i sostenitori della c.d. inesigibilità se è vero che in presenza di circostanze concomitanti normali si può pretendere un preciso comportamento da parte del soggetto, ciò non vale in presenza di circostanze concomitanti anomale per cui, ricorrendo ad un’analogia iuris della eadem ratio delle cause di esclusione della colpevolezza, si estenderebbe l’inesigibilità ad altri episodi pervenendo alla conclusione che essa costituirebbe causa ultralegale di esclusione della colpevolezza quale limite intrinseco alla legge.

 

Così opinando i fautori di questa teoria hanno rinvenuto nella fattispecie di cui all’art. 2621 c.c. il principio di inesigibilità applicato all’amministratore di società che non si autodenuncia per aver falsificato scritture contabili della società allo scopo di occultare illeciti pregressi, pervenendo, pertanto all’assoluzione.

 

Altro orientamento, invece, ritiene che non solo non sia riscontrabile nel nostro ordinamento, in via di analogia iuris, un principio di inesigibilità ma che, anzi, nel caso considerato vada semmai applicata l’aggravante di cui all’art. 61 n.2 c.p., poichè, diversamente, si vanificherebbe la funzione propria dell’art. 2621 c.c.: l’obbligo di veridicità del bilancio e delle comunicazioni sociali volto a prevenire scorrettezze gestionali.

Nè, a parere di questa posizione, si può operare per analogia legis del 384 c.p. in quanto va distinto il piano processuale da quello sostanziale in cui non trova spazio il principio nemo tenetur se detegere.

 

Di rilievo i riflessi sul piano della natura giuridica della forza maggiore ex art. 45 c.p., in ordine alla quale si confrontano coloro che, in ossequio all’ammissibilità nel nostro ordinamento del principio di inesigibilità, riconducono la forza maggiore nelle ipotesi di inesigibilità, a fronte di coloro che, invece, negando tale categoria, riconducono la forza maggiore nel parametro delle cause, da taluni definite soggettive, di esclusione della colpevolezza.

 

Altra parte della dottrina e della giurisprudenza, invece, inserisce la forza maggiore nell’alveo di quegli eventi interruttivi del nesso causale, quindi non come causa di esclusione della punibilità ma del nesso causale tra condotta ed evento ex art. 40 c.p.

Il codice non fornisce una nozione di forza maggiore limitandosi a prevedere che non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito o forza maggiore.

E’ proprio il riferimento della norma alla punibilità che fonda l’orientamento propendente per la scusante, laddove invece i sostenitori dell’interruzione del nesso interruttivo affermano che è la lettura sistematica, in combinato disposto con gli art. 40 e 41 c.p., a chiarire ciò che di per sè la norma non sembra chiarire.

Il fatto che vi sia stata previsione esplicita dell’ipotesi di forza maggiore, secondo costoro, vale a conferirle autonomia rispetto alle concause preesistenti, simultanee o sopravvenute, cosicchè se si riconosce capacità interruttiva a quest’ultime, a fortiori laddove la previsione autonoma riferisce della sola forza maggiore.

In disparte l’ulteriore dibattito sull’ammissibilità di un’estensione analogica dell’efficacia interruttiva delle concause preesistenti non accolta da chi afferma, in ossequio alla  principio della calcolabilità delle conseguenze dannose, la violazione del principio di uguaglianza sostanziale ex art. 3 Cost., in virtù del quale situazioni diverse vanno trattate in modo differente.

 

La giurisprudenza e la dottrina si sono sforzate di distinguere la forza maggiore dal caso fortuito: comune denominatore delle varie ricostruzioni è la situazione in cui versa il soggetto che non agit sed agitur, come vis maior cui resisti non potest; il criterio discretivo più utilizzato è quello che ravvisa quale elemento qualificatore l’imprevedibilità del caso fortuito e la irresistibilità della forza maggiore.

Va effettuata una precisazione anche in ordine allo stato di necessità di cui all’art. 54 c.p.: all’orientamento che ricostruisce lo stato di necessità come species del più ampio  genus della forza maggiore si contrappone quello che riconosce l’autonomia delle due disposizioni, e chi, invece, diversamente, sostiene che la forza maggiore costituisce inutile superfetazione del disposto di cui all’art. 54 c.p.

È chiaro che ricostruire la forza maggiore in termini di causa di giustificazione o scriminante  piuttosto che come causa di esclusione della punibilità determina notevoli conseguenze sul piano dell’applicazione analogica e della disciplina del concorso di persone.

 

L’adesione alla teoria bipartita dell’elemento negativo (assenza di scriminanti a configurare la tipicità del fatto), o tripartita dell’antigiuridicità obiettiva vale a ricondurre le scriminanti ora nelle cause di esclusione del reato per difetto di tipicità o nelle cause di esclusione dell’antigiuridicità.

Dal combinato disposto dell’art. 12 e 14 disp. prel. al codice civile, se ne deduce che per  determinate ipotesi e  a determinate condizioni è ammissibile il ricorso all’applicazione analogica per le cause di giustificazione espressione di principi generali laddove, invece, essendo le scusanti caratterizzate per l’eccezionalità, si tende ad escludere il ricorso allo strumento dell’analogia difettando eadem ratio.

Tutto ciò sempre a considerare lo stato di necessità  c.d. anticipato, diversamente l’ipotesi di stato di necessità con pericolo per il solo patrimonio per la cui peculiarità se ne esclude l’applicazione analogica, laddove invece lo stato di necessità ex art. 54 c.p. è inquadrato tra le cause di esclusione della colpevolezza.

Quanto detto vale anche con riguardo all’estensibilità al concorrente della scriminante, per la maggior parte ammessa dalla giurisprudenza e controversa, se non negata, nelle ipotesi delle scusanti, in disparte la questione attinente il reato putativo ex art. 49 co.1  e l’errore ex art. 45 e 47 c.p.

 

La disamina del principio dell’inesigibilità e forza maggiore appare risolutiva del dibattito giurisprudenziale e dottrinale che si  è aperto in tema di reati tributari con particolare riguardo a quelle situazioni di crisi di liquidità finanziaria, essendo diverse le soluzioni cui si perviene, accogliendo l’una o l’altra tesi, sul piano processuale in riferimento alla formula assolutoria adottata dal giudice e alle sue implicazioni ulteriori.

 

La problematica è emersa per quei casi in cui l’imprenditore,  il quale vanta crediti nei confronti dallo Stato, si trova in crisi di liquidità tale da non poter assolvere gli oneri tributari imposti dalla legge.

Il legislatore per reagire a questa situazione emergenziale in cui lo Stato non riesce a far fronte all’accumulo di debiti ha previsto, oltre al ricorso alla conversione in titoli di Stato, l’innalzamento della soglia della compensazione previa certificazione crediti, da 516.000 a 700.000 euro, intervenendo con l’art.9 del d.l. 35/13 sull’art. 56 l. fall., nonostante il parere contrario della Ragioneria dello Stato per carenza di copertura finanziaria.

 

Ciò non è valso a risolvere quelle situazioni in cui la cifra esorbiti da tale ammontare generando una crisi di liquidità per l’imprenditore che non è più solo temporanea e, che per questo, rischia di risolversi in uno stato di insolvenza preordinatore di un possibile fallimento, posta la non differibilità dell’assolvimento di quegli oneri fiscali a carico del soggetto in questione.

I reati che vengono in questione nel caso di specie sono l’omesso versamento di ritenute certificate ex art. 10 bis d. lgs. 74/00,l’ omesso versamento ritenute previdenziali e assistenziali ex art. 2 l.  638/83, e l’omesso versamento iva ex art. 10 ter d. lgs. 74/00.

 

Sul punto la giurisprudenza si è divisa: all’interno della posizione escludente l’inesigibilità occorre distinguere tra coloro che pervengono ad una pronuncia di condanna e coloro che invece assolvono ricorrendo alla forza maggiore; all’interno posizione di chi assume sussistente la forza maggiore occorre discernere, a sua volta,  tra chi assume la natura giuridica di causa di esclusione della colpevolezza e chi, invece, di fattore interruttivo del nesso causale.

 

In occasione dell’emanazione della l. 516/82 si era consolidato infatti quell’orientamento in base al quale la possibile crisi di liquidità del sostituto, o lo stato di insolvenza che potesse degenerare nel fallimento, non erano idonei ad escludere il fatto, cioè l’elemento oggettivo, nè il dolo che connota la fattispecie di cui all’art. 10 bis del d. lgs. 74/00,  cui si associa la peculiare previsione di cui all’art. 2 l. 638/83 concernente misure urgenti in materia previdenziale.

Secondo questa tendenza giurisprudenziale e dottrinaria grava sul sostituto d’imposta l’onere di ripartire le risorse presenti al momento della corresponsione del compenso, al fine di poter adempiere all’obbligo di versamento, anche se ciò si rifletta sul pagamento integrale dei compensi.

La conseguenza logica di tale ragionamento è che il mancato versamento delle ritenute si connota quale risultato di una scelta consapevole del sostituto che, nel caso di specie, omette di conservare, o accantonare tali ritenute, integrando così l’elemento soggettivo del dolo richiesto dall’art. 10 bis d. lgs. 74/00.

 

Correlato al reato in questione è l’ipotesi dell’omesso versamento di iva, tant’è che l’art. 10 ter d. lgs. 74/00 è costruita mediante richiamo esplicito dell’art. 10 bis di cui condivide la struttura aldilà del trattamento sanzionatorio.

In disparte la comminazione della pena in termini di reclusione o sanzione amministrativa risolta ricorrendo al principio di specialità  ex art. 19 co. 1 d. lgs. 74/00, occorre applicare le categorie concettuali astratte alla realtà del fatto concreto.

 

Il filone di quella giurisprudenza che perviene a pronunce assolutorie fa leva, a fortiori, sull’elemento soggettivo qualificatore del dolo che connota le fattispecie considerate per rilevarne l’incompatibilità con  l’inesigibilità di una condotta diversa da quella tenuta dal soggetto, e lo fa richiamando l’assenza di quel rimprovero dell’atteggiamento antidoveroso.

Secondo questa posizione se non si agisse in via di applicazione di analogia iuris si creerebbe un vulnus causato da una lacuna non intenzionale del legislatore, condannando soggetti per reati di cui manca il connotato essenziale della colpevolezza; tale lacuna viene colmata ricorrendo ad una causa ultralegale di esclusione della colpevolezza quale limite intrinseco alla legge.

Se si accoglie questa ricostruzione allora avremo una pronuncia assolutoria con formula “perché il fatto non costituisce reato” poichè la tipicità del fatto è integrata dal punto di vista oggettivo della condotta e nesso causale dell’evento produttivo di danno, venendo ad essere “scusato” mediante l’esclusione della colpevolezza.

 

Alla medesima conclusione si giunge se si aderisce a quella teoria che ricorre alla figura della forza maggiore quale species della più ampia categoria dell’inesigibilità, e quindi quale scusante che fa venir meno il requisito della colpevolezza.

Diversamente ricostruendo la forza maggiore come fattore interruttivo della causalità, tale da far venir meno il nesso tra condotta posta in essere dal soggetto ed evento lesivo, viene a mancare l’in sè del reato tanto che la pronuncia assolutoria avrà la formula o che “il fatto non sussiste”, o che “l’imputato non lo ha commesso”.

Ad un’analisi superficiale non sembrerebbero esserci differenze posto che si tratta in entrambi i casi di pronuncia favorevole.

 

Tuttavia non bisogna trascurare quegli effetti extrapenali più favorevoli, o comunque meno pregiudizievoli, in punto di  effetti del giudicato di assoluzione nei giudizi civili o amministrativi di risarcimento del danno e in quelli disciplinari tanto con riguardo alla posizione dell’imputato che della parte civile.

Prima dell’intervento della Corte EDU del 2008 la questione aveva rilievo in tema di confisca urbanistica laddove, ex art. 44 co. 2 D.P.R. 380/01 (vecchio art. 19 l. 47/85), si applicava tale misura non solo alle ipotesi di pronunce di condanna ma anche di assoluzione con formula “perché il fatto non costituisce reato” con la sola esclusione della formula assolutoria perché “il fatto non sussiste”.

La Corte rilevando la “frode di etichette”in ordine alla natura di pena e non di sanzione amministrativa ne ha inferito la non applicabilità anche per l’ipotesi della formula assolutoria “perché il fatto non sussiste”; la Cassazione, dal suo canto, è pervenuta ai medesimi esiti restando ancorata alla qualifica di sanzione amministrativa.

 

Ancor più evidenti sono i profili applicativi per l’imputato il quale nel caso della forza maggiore, quale evento idoneo ad interrompere il nesso causale, si vedrà riconosciuta  l’assoluzione con formula liberatoria più ampia, o comunque limitativa di quegli effetti pregiudizievoli ex 652 e 653 c.p.p.

 

La parte civile del giudizio penale, al contrario, nel caso di formula assolutoria “perché il fatto non costituisce reato” trarrà certamente effetti favorevoli per i suoi interessi civili maggiori di quanto non sia per l’ipotesi dell’insussistenza o non commissione del fatto, e ciò, in particolare, sia per quanto concerne il riconoscimento della responsabilità dell’imputato ai soli fini civili, che, più in generale, per quanto concerne gli effetti preclusivi nel giudizio civile.

 

Ciò dimostra quanta rilevanza assuma la qualificazione giuridica delle categorie dogmatiche concettuali in termini di giudizio del caso concreto e quanto sia risolutivamente incisiva nella realtà al di fuori dall’astratta teorica fine a se stessa.

Gabriella Longo

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento