“
Diritto alla cultura e politiche culturali: le teorie di una prassi” costituisce un lavoro compatto, significativo, ricco di annotazioni attinte dal diritto comparato, dalla politica del diritto, dalla sociologia e dalla filosofia politiche. Tuttavia, le tre parti che lo costituiscono
[1] possono essere autonomamente studiate e fruite dal lettore. Il fatto che l’Autore non abbia inteso ricavare dalla trama unitaria tre spezzoni anche editorialmente distinti pare del resto in linea con le scelte sin qui compiute dall’esperimento di editoria e associazione culturale “Coessenza”, una realtà che propone laboratori di lettura e giornate di studio e di attività legate ai
luoghi (come quartiere fisico e
topos) della città. Ciò precisato, la prima sezione del lavoro affronta il tema della cultura in quanto ambiente ideologico espressione di una comunità: il senso dell’ideologia non è qui, marxianamente, quello di “falsa coscienza”, semmai più vicino a un
eadem sentire, che, previa la lezione di Pareyson, appare al tempo stesso performativo, cioè (auto)costituente(si). In questa parte del testo, risulta appropriato il raffronto tra la posizione di Bauman e quella di Derrida, autori, come per parti diverse Beck
[2], Habermas
[3] o Deleuze
[4], largamente frequentati anche dai giusfilosofi. Tuttavia, la posizione di Bauman, almeno cercando di contestualizzare la teoria della
liquidità in una prospettiva di riforma giuridica, non pare convincente quando paragona per globalismo e trans-nazionalismo i richiedenti asilo e i migranti per motivi economici a ogni elite politico-finanziaria. Innanzitutto, anche per quanto riguarda il profilo dei diritti culturali, richiedenti asilo e migranti in cerca di lavoro rappresentano due realtà in poco o niente omogenee
[5]: il nesso causale tra la loro condizione originaria e la novella nomadanza è l’unico tratto che li accomuna, anche perché ben facilmente un regime dispotico sui diritti di libertà avrà interesse a contrarre i diritti sociali, destinando al proprio entourage la quota sostanziale delle risorse complessive. Ma diversa è la cultura del perseguitato politico da quella del migrante: solo
modus (movimento)
et causa (la non accettabilità del loro status di autoctoni in un territorio dato) li rendono simili, ma la specificazione della
causa movendi e la futura aspettativa di vita divergono chiaramente. E, a maggior ragione, quanto è diversa la mobilità delle forze economiche? Essa è impositiva, di tipo disciplinare, perché ha come scopo monitoraggio e attacco di mercati. Non è imposta, dalla fame o dalla repressione o
incidenter tantum dalle due cose insieme. Né è detto che sia portatrice univoca ed esclusiva di alcuna delle due. La posizione di Derrida pare invece concentrarsi sulla dialettica tra inclusione e resistenza: Derrida respinge, nota Dionesalvi
[6], la matrice paternalistica di un
welfare volto a contenere, ammorbidire il dissenso –
recte, i dissensi; ritiene l’accoglienza esercizio di resistenza, almeno nel senso in cui, seguendo la suggestione lévinasiana
[7], la posizione dell’accogliente ne implica la sopravvivenza, esattamente come per l’accolto.
Il testo tenta di reperire una nozione operativa di “cultura” nel quadro delle fonti internazionalistiche, ma non si nasconde i gravi limiti “definitori” che affliggono uno degli strumenti più interessanti al riguardo, la Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli. Innanzitutto, e forse nel non rimarcare questa lacuna Dionesalvi segue le orme del multiculturalista Kymlicka
[8], il diritto alla cultura ha una componente individuale che non può ritenersi, come il “legislatore convenzionale” parrebbe pure suggerire, assorbita e risolta nel più vasto diritto (all’esistenza) delle culture “popolari”. E, non secondariamente, la mancata delineazione di un’accezione basica e comunemente accetta di “cultura” rende particolarmente difficile garantire l’efficacia degli artt. 13-15: se accettiamo che un regime politico sia un’espressione culturale, spesso legata a filo doppio con le vicende storiche di un “popolo”, e che è violenza imporre ad altri un’organizzazione di stato che essi non riconoscono, anzi collettivamente e… culturalmente intendono combattere
[9],
Enduring Freedom è o non è una violazione dei richiamati articoli della Carta di Algeri? Queste note sulle fonti internazionali non esauriscono le sezioni del testo più interessanti per il giurista: se nella parte dedicata alla esperienza del Comune di Cosenza nella promozione di iniziative culturali è possibile saggiare praticamente numerose di quelle norme del diritto amministrativo che regolano le attività degli enti locali, nella ricostruzione della situazione italiana trovano un peso significativo le riforme compiute tra l’inizio di questo decennio e la fine del precedente, sottolineando la diversità prospettica che teoricamente avrebbe dovuto distinguere il ciclo “Bassanini”
[10] dalla novella relativa al Titolo V della Costituzione
[11]. Dionesalvi, del resto, comprende come quelle trasformazioni giuridiche siano frutto dei mutamenti intervenuti nella politica parlamentare e, spingendo il ragionamento sino alle sue fondamenta, il modo più efficace per modificare gli indirizzi politico-parlamentari è la conquista del consenso elettorale. I “partiti massa”, sulla conquista del consenso, hanno costruito immagini ed immaginari, in definitiva “culture”,
teorie e
prassi… dei partiti della Prima Repubblica. L’inculturazione che tentano di operare i moderni partiti “contenitore” è scientificamente molto più dinamica, perché più dinamico è l’apprezzamento (o deprezzamento) di costumi e consumi sociali, ma è anche progetto molto più definitivo, perché all’immagine come mezzo sostituiscono l’immagine come fine. E Dionesalvi registra con preoccupazione: le arretratezze e gli scarsi spazi creativi che caratterizzavano i partiti tradizionali, connotati da forte disciplina interna, ed anche le rincorse feticistiche che rischiano di connotare l’agone politico contemporaneo
[12].
L’ultima parte del lavoro si sofferma sull’esperienza pratica dell’Autore come assessore alla Cultura: tuttavia l’approccio è del tutto originale per “riletture” di questo tipo. Innanzitutto, vengono esemplificate alcune particolari rassegne ed iniziative come espressione di un orientamento di politica generale volto a penetrare in un contesto meridionale, contraddistinto da depressione economica e da cedimenti nella qualità relazionale dei rapporti umani. E, a seguire, l’Autore cerca di ricostruire le ragioni che rendono una maggiore apertura sulle politiche culturali comunque appagante per migliorare, –
rectius: qualificare, il benessere di una data comunità. Seguendo un metodo storiografico recentemente diffusosi nella dottrina statunitense, partire da inquadramenti teorici vasti per testarne la validità nei contesti locali più periferici, “
Diritto alla cultura e politiche culturali: le teorie di una prassi” può forse in questo ultimo frammento sembrare apologetico. Ma ciò non ne mina la freschezza argomentativa, la capacità di collezionare testi giuridici e tesi di studio molteplici, la schiettezza nel delineare il senso più intimo della cultura, la liberazione ed il riscatto
[13].
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