Nell’ottica dell’accertamento del reato in ambito giudiziario penale, spesso si manifestano forti contrapposizioni laddove si evidenzia l’esigenza di realizzare opportune e puntuali investigazioni direttamente sulla persona dell’indagato o dell’imputato, quando egli si trovi in posizione di soggezione rispetto all’organo giudiziario.
Le principali problematiche[1] ravvisate sul punto, si sono storicamente riferite alla necessità di rendere conciliabili gli atti di indagine con il presidio di garanzia della libertà personale, nonché del diritto dell’indagato o imputato a mantenere un comportamento “non collaborativo”.
In tale ultima evenienza peraltro, un simile atteggiamento diviene assolutamente non essenziale qualora oggetto dell’accertamento sia la persona nella sua corporeità, non potendo essa contrastare il rilevamento di tracce o elementi di prova direttamente appresi dal proprio fisico ad opera delle autorità inquirenti.
Si pensi ai mezzi di ricerca della prova previsti dal sistema processuale penale, come le ispezioni, le perquisizioni personali, le ricognizioni, nelle quali anche a fronte della mancata cooperazione dell’indagato, il legislatore ha comunque stabilito forme di coercizione della volontà in ordine all’acquisizione dell’elemento conoscitivo.
Nondimeno nel corso degli ultimi anni il progresso scientifico e tecnologico ha svelato una più ampia serie di possibili modalità di accertamento del reato, capaci di manifestare caratteristiche invasive dell’ambito corporale in maniera molto più decisa rispetto a quelle tradizionali appena elencate[2].
Appare in prima battuta esemplare il richiamo al prelevamento di campioni biologici – sangue o altre sostanze organiche – per l’esecuzione dell’esame del DNA.
In tale evenienza si è posto il dubbio se la volontà personale sia comunque coercibile, in ossequio al diritto di libertà personale di cui all’art.13 Cost., in caso di esplicito rifiuto dell’indagato nel sottoporsi all’esame invasivo.
Deve da subito rammentarsi che, sul punto, il legislatore non ha predisposto una disciplina specifica, ma piuttosto si è limitato ad emanare isolate disposizioni relative a specifici reati, ovvero a tipologie di interventi di carattere stringente.
Per ciò che concerne i reati specifici, si evidenziano ad esempio le previsioni del codice della strada per i reati di guida in stato di ebbrezza o sotto l’influsso di sostanze stupefacenti, di cui agli articoli 186 e 187 del D.Lvo n.285/92 e successive modifiche, per i quali si è inteso fare riferimento al concetto di “accertamenti qualitativi non invasivi”, essendo in alternativa ammessa anche l’acquisizione delle analisi cliniche eseguite per ragioni di cura[3].
Rispetto invece alle situazioni emergenziali, un ampio intervento si è potuto annotare in sede di recente legislazione in tema di contrasto al terrorismo internazionale[4], laddove si è inserito il comma 2-bis nel corpo dell’articolo 349 del Cpp, prevedendosi l’eventualità in capo alla polizia giudiziaria di procedere al prelevamento coattivo di campioni biologici formati da saliva o capelli nei confronti di individui per i quali appaia necessario provvedere all’identificazione e che, in caso di dissenso dell’interessato, tale prelievo sia concesso previo consenso, anche in forma orale, del pubblico ministero, in un secondo tempo approvato per iscritto.
Una disposizione correlativa si può rinvenire anche nell’art.354 comma 3 del Cpp, in materia di accertamenti urgenti sulla persona ad opera del personale di P.G., dove seppur il legislatore si sia genericamente riferito alla possibilità di prelievo di materiale biologico, si può ritenere che il richiamo alle modalità operative di cui all’art.349 Cpp debba essere recepito come prelevamento limitato ai soli campioni costituiti da saliva e capelli, non potendosi ritenere accettabili prelievi di differente natura.
In definitiva, ciò che emerge dal portato della nuova legislazione è la circostanza che il prelievo coattivo di campioni biologici debba in ogni caso ritenersi circoscritto ai capelli o alla saliva, così da favorire prassi esecutive che manifestino ricadute assai limitate sulla libertà personale.
Questo stato delle cose avrebbe determinato, secondo parte della dottrina[5], una incompleta e inadeguata morfologia di congegni normativi settoriali, azionabili al solo scopo di procedere all’identificazione personale, ovvero alla raccolta di quelle tracce del reato fortemente sottoposte al pericolo di dispersione[6].
Si è evidenziato in tal guisa l’emergere di una forte contraddittorietà della normativa in parola, ancora più manifesta ove si consideri la portata attuale del nuovo articolo 354 Cpp, che ammette il prelevamento di reperti biologici da parte della polizia giudiziaria, seppur previa autorizzazione del P.M., per finalità di indagine, mentre una correlativa facoltà non viene individuata in capo all’autorità giudiziaria in sede di attività peritali.
Il legislatore non ha ritenuto a tutt’oggi di dover riempire questo vuoto di disciplina[7], e non pare nemmeno ammissibile un’interpretazione analogica dei principi di cui all’art.354 Cpp, posto che il relativo precetto normativo, gravando su libertà costituzionalmente garantite, deve considerarsi di “stretta interpretazione”.
Di conseguenza, i prelievi coattivi non potranno essere disposti nella fase delle normali attività peritali e la loro utilizzabilità probatoria in fase dibattimentale, non potrà che manifestarsi in forma assai circoscritta e fortemente depotenziata.
Questa incompletezza di disciplina appare ancora più visibile se si tiene in conto che l’opportunità di porre in essere i prelievi coattivi, assai spesso affiora nel prosieguo dell’attività investigativa, quando vi sia il conseguimento di una traccia biologica ed un profilo di comparazione.
In tutti questi casi – nella statistica molto frequenti – non sarà più spendibile il potere di acquisizione ex art.354 Cpp e, in conseguenza, diverrà alquanto problematico eseguire una perizia comparativa del DNA, specie quando il materiale biologico prelevato in sede di accertamenti urgenti sia già stato interamente utilizzato e l’imputato non presti il consenso ad una nuova apprensione.
Si è sostenuto invero in giurisprudenza che l’opposizione dell’imputato nel sottoporsi all’esame del DNA mediante prelevamento di materiale biologico, non si eleva a rango di fatto o circostanza imprevedibile di natura oggettiva, conseguendo a ciò che qualora in fase di indagine sia stata espletata una consulenza tecnica al di fuori delle forme dell’accertamento tecnico irripetibile, non sarà utilizzabile in dibattimento l’esito dell’accertamento compiuto dagli organi investigativi[8].
La disciplina normativa odierna pertanto, non approva l’idea di un potere diffuso – al di fuori dei limitati casi di cui all’art.354 Cpp – di acquisizione coattiva di reperti biologici prelevati dalla persona dall’indagato.
Ecco allora che il concreto repentaglio all’irripetibilità dell’esame del DNA a fronte di un prevedibile e susseguente ripudio dell’imputato ad assoggettarsi al prelievo, potrebbe ragionevolmente ovviarsi effettuando il relativo esame a mezzo accertamento tecnico irripetibile, ovvero nelle forme dell’incidente probatorio, recuperandone così legittimamente i risultati e la conseguente utilizzabilità in dibattimento, anche nel caso in cui i reperti siano già stati integralmente consumati[9].
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Esiste poi tutt’altra problematica afferente la legittima acquisizione non coattiva di materiale biologico, seppur in mancanza di consenso da parte dell’imputato.
Sono noti infatti nella prassi giudiziaria, i diversi espedienti per l’acquisizione di reperti biologici nel momento in cui gli stessi si siano definitivamente separati dalla persona indagata (mozziconi di sigaretta, bicchieri contenenti tracce di saliva, ecc…), ovvero mediante l’apprensione materiale di capi d’abbigliamento o accessori personali dai quali carpire elementi di DNA (biancheria intima, pettini, spazzolini da denti, ecc…).
I predetti conseguimenti di reperti, avvengono fondamentalmente tramite un vero e proprio sequestro probatorio effettuato su cose abbandonate dall’indagato, ovvero in sede di perquisizione locale.
Tale forma di sequestro viene ritenuta perfettamente legittima, non assumendo rilievo l’eventuale dissenso dell’indagato atteso che il residuo biologico, una volta slegato dal suo corpo, diventa una “cosa pertinente al reato”[10].
Le necessità di garanzia della libertà personale, infatti, si manifestano nel tempo della materiale apprensione del reperto, posto che in caso di mancata collaborazione dell’indagato necessiterà la sua coartazione fisica. Qualora tale coazione non sia invece necessaria, essendo il materiale biologico appresso altrimenti, verranno meno anche tali esigenze di salvaguardia della libertà personale.
In definitiva dunque, l’assenza di una specifica disciplina afferente casistica e modalità di apprensione coattiva dei dati biologici, in uno con l’eventuale dissenso dell’indagato o, in ogni caso, della sua mancata collaborazione, fa sì che la prassi concreta di conseguimento dei predetti campioni debba fare ricorso a differenti espedienti[11].
Sul punto la letteratura giuridica ha voluto affrontare un importante questione, attinente la disamina delle giustificazioni ad un eventuale opposizione dell’indagato al test del DNA, senza che da tale rifiuto possano ricavarsi elementi indiziari a suo carico.
Posto che un eventuale rifiuto non potrà mai ritenersi legittimo qualora l’apprensione del campione biologico non assuma natura invasiva dell’ambito fisico[12] e, quindi, della libertà della persona, si è invece ritenuto assolutamente ingiustificato il rifiuto fondato su ragioni pretestuose, dal quale ben potrebbero pertanto ricavarsi elementi indiziari a carico.
Una visione assolutamente garantista della questione, ha ritenuto che le ragioni capaci di persuadere l’interessato al rifiuto possono essere variegate e indeterminabili, potendo egli avere l’esigenza di occultare una patologia genetica, vincoli familiari ignoti, ovvero per il semplice timore di fornire ulteriori elementi che possano consentire la sua incriminazione per altri fatti sconosciuti alle autorità.
Le predette motivazioni, a ben vedere, possono essere tuttavia ricondotte a quei motivi di c.d. riservatezza, di per sè incapaci di giustificare eventuali rifiuti ed assolutamente incompatibili con gli schemi e le regole del procedimento penale, nel quale la verifica del fatto-reato deve potersi svolgere con la maggiore estensione possibile.
Ciò nonostante, deve riservarsi maggiore attenzione alla situazione in cui l’indagato rifiuti il consenso all’esame perché timoroso di ulteriori incriminazioni a suo carico.
Non essendovi dubbio alcuno che egli possa vantare il diritto, processualmente e costituzionalmente garantito, di non rendere alcuna dichiarazione, ci si è chiesti se analogo diritto possa ritenersi operante per ciò che concerne gli apporti di altra natura, come quelli aventi ad oggetto direttamente la sua persona.
Parte della dottrina[13] sembrerebbe rispondere positivamente al quesito, ritenendo che i diritti dell’accusato coinvolgono non solo quello di non rispondere alle domande formulate e, pertanto, di non rendere propalazioni dalle quali possano affiorare eventuali responsabilità a suo carico, ma anche quello di non offrire cose o documenti a supporto dell’accusa. Anche per i prelevamenti di materiale biologico pertanto, si potrebbe validamente ipotizzare la necessità del consenso, e quindi dell’atteggiamento collaborativo dell’accusato, a prescindere dalla tipologia di attività effettuata (invasiva o meno) per conseguire il reperto preteso dall’autorità investigativa.
Vi è da dire tuttavia, forse più ragionevolmente, che seppure l’imputato possa decidere autonomamente se collaborare o meno all’accertamento del reato, non si potrà escludere che una sua eventuale condotta volta a intralciare ingiustificatamente le indagini possa essere considerata quale vero e proprio elemento indiziario che, in presenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza, potrà anche concorrere a rafforzare un’eventuale pronunciamento di condanna.
Avv. Alessandro Buzzoni
[1] Cfr. in maniera più esaustiva P.DI GERONIMO, Il contributo dell’imputato all’accertamento del fatto, Giuffrè ed., 2009, dal quale è sostanzialmente tratta la presente recensione.
[2] Sul punto, per maggiore approfondimento, si veda in dottrina: DOMINIONI, La prova scientifica. Gli strumenti scientifico-tecnici nuovi o controversi e di elevata specializzazione, Milano, 2005; CONTI, I test genetici: etica, deontologia, responsabilità, Milano, 2007; FANUELE, Dati genetici e procedimento penale, Padova, 2007; SANTORUSSO-GENNARI, Il prelievo coattivo di campioni biologici e i terzi, in Dir.proc.pen., n.3, 2007, p.395; FELICIONI, Accertamenti sulla persona e processo penale. Il prelievo di materiale biologico, Milano, 2007.
[3] Appare estremante curioso osservare come la giurisprudenza abbia inteso chiarire che l’eventuale rifiuto di sottoporsi a prelievo ematico non configura alcuna violazione di quanto disposto dall’articolo 186, co.6 del codice della strada, essendo la tecnica ordinaria di accertamento prevista da tale norma quella rappresentata dall’alcoltest; mentre in senso diametralmente opposto, si è altresì precisato che l’impiego dell’alcoltest non assume i caratteri della necessità, essendo pienamente utilizzabili gli esiti dell’esame ematico eseguito in difetto di consenso dell’interessato, qualora detto prelievo venga compiuto sulla base degli ordinari protocolli medici e di pronto soccorso, in occasione di ricoveri in presidi ospedalieri pubblici in conseguenza a sinistri stradali verificatisi in seguito alla commissione del reato in parola, costituendo elementi di prova acquisibili tramite la semplice documentazione medica (Cfr.Cass.sez.IV, 5 febbraio 2003, n.34438, in Cass.pen., 2004; Cass.sez.IV, 12 giugno 2003, n.37442, in Cass.pen., 2004; Cass.sez.IV, 8 giugno 2006, n.26783, in CED Cass.).
[4] D.L. 27 luglio 2005, n.144, convertito in legge 31 luglio 2005, n.155.
[5] Cfr. tra gli altri, BRICCHETTI, Prelievi del DNA senza consenso, in Guida dir., 2005, n.33; SCALFATI, Le modifiche al sistema processuale, in Terrorismo internazionale: modifiche al sistema penale e nuovi strumenti di prevenzione. Commento al decreto legge 27 luglio 2005, n.144, convertito con modificazioni nella legge 31 luglio 2005, n.155, a cura di ROSI-SCOPELLITI, in Dir.giust., 2006; GIARDA-SPANGHER (a cura di), Codice di procedura penale commentato, Milano, 2007.
[6] SCAGLIONE, Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale, in Cass.pen., 2006, considera come la possibilità di effettuare prelievi biologici sia subordinata ad una duplice condizione: previo consenso del pubblico ministero e compresenza delle condizioni necessarie richieste dal comma 2 dell’art.354 Cpp, e cioè il periculum in mora, l’irrealizzabilità di un intervento immediato del pubblico ministero, ovvero il difetto di assunzione da parte di questi della direzione delle indagini
[7] Sul punto è intervenuta anche la Corte Costituzionale, segnalando la mancanza nell’art.224 Cpp di adeguate garanzie atte a specificare casi e modalità medianti i quali il giudice possa collocare i prelievi coattivi nella sfera dell’attività peritale. Identica questione, del resto, può ravvisarsi anche per ciò che concerne gli accertamenti tecnici irripetibili di cui all’art.360 Cpp.
[8] Secondo Cass.sez.I, 14 febbraio 2002, n.11886, l’accertamento tecnico sul DNA espletato dalla polizia giudiziaria in fase investigativa ex art.348 Cpp, non è utilizzabile per la decisione ai sensi dell’art.512 Cpp nel caso in cui l’analisi abbia determinato un mutamento inconvertibile delle cose oggetto di esame (nella fattispecie, mozziconi di sigarette) e difetti il fondamentale elemento dell’irripetibilità provocata da fatti e circostanze imprevedibili, non essendo considerato come tale il rifiuto dell’imputato nel sottoporsi a prelievo di campione biologico, rientrando tale atteggiamento tra i diritti della persona costituzionalmente garantiti. (In tale evenienza la S.C. ha avuto modo di osservare come l’accertamento in parola, al fine di una sua possibile acquisizione al fascicolo dibattimentale, doveva essere eventualmente espletato in base a quanto previsto dagli articoli 360 Cpp e 117 disp.att.Cpp).
[9] Vi sono stati numerosi progetti di legge di riforma in materia di costituzione di una banca dati DNA, allo stato peraltro inattuali (Cfr., tra gli altri, FANUELE, Un archivio centrale per i profili del DNA nella prospettiva di un diritto comune europeo, in Dir.pen.proc., 2007; GAROFALO, Genetica identificativa e biobanche: aspetti tecnici e problematiche connesse, in AA.VV., La prova scientifica nel processo penale, a cura di TONINI, in Dir.proc.pen., 2008, suppl.n.6/08).
[10] La giurisprudenza ha voluto specificare che il sequestro di biancheria intima al fine di rinvenirne i profili genetici e compararli con i reperti trovati sul luogo del reato, non costituisce atto invasivo o coattivo e, quindi, non richiede il preventivo consenso dell’indagato…rientrando nel concetto di “cose pertinenti al reato” anche quelle “indirettamente legate al reato per cui si procede, le quali come recita l’art.253, comma 1, c.p.p., siano necessarie per l’accertamento dei fatti”. (Cfr.Cass.sez.II, 13 marzo 2007, n.12929; nello stesso senso: Cass.sez.I, 2 febbraio 2005, n.8393).
[11] E’infatti nota la prassi delle forze dell’ordine di porgere bevande al sospettato, ovvero consentirgli di fumare sigarette, con il recondito fine di provvedere successivamente al sequestro del bicchiere o del mozzicone di sigaretta abbandonato, dai quali estrarre i campioni biologici indispensabili per l’analisi del DNA.
[12] L’odierno progresso della medicina legale ha infatti permesso di estrapolare il profilo del DNA da un semplice capello o dalla saliva della persona e, pertanto, deve ritenersi oramai oltrepassato il problema relativo al necessario espletamento di prelievi ematici, rispetto ai quali del resto già la Corte costituzionale (sent.9 luglio 1996, n.138), aveva ribadito il diritto per la persona di opporsi all’adempimento dell’atto invasivo della propria sfera corporale.
[13] Cfr.UBERTIS, Attività investigativa e prelievo di campioni biologici, in Cass.pen., 2008.
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