Quando le omesse o false indicazioni di informazioni contenute nell’autodichiarazione finalizzata a conseguire il reddito di cittadinanza integrano il delitto di cui al D.L. 28 gennaio 2019, n. 4, art. 7, conv. in L. 28 marzo 2019, n. 26.
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Indice
1. Il fatto
La Corte di Appello di Salerno confermava una sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Nocera Inferiore che aveva condannato l’imputato alla pena di due anni e due mesi di reclusione per il reato di cui all’art. 81 c.p., comma 2, art. 640 c.p., comma 2, n. 1, D.L. 28 gennaio 2019, n. 4, art. 7, convertito, con modificazioni, dalla L. 28 marzo 2019, n. 26, perché, al fine di ottenere indebitamente il beneficio economico di cui al D.L. n. 4 del 2019, art. 3, comma 1, lett. a), (reddito di cittadinanza), con artifici e raggiri consistiti nell’attestare falsamente, nella dichiarazione sostitutiva unica (DSU) presentata ai fini ISEE, un valore del proprio patrimonio immobiliare inferiore a quello reale, induceva in errore l’INPS che gli erogava, in forza di tale dichiarazione, la somma di Euro 4.431,78 a titolo di integrazione del reddito familiare riferito all’anno 2019, così procurandosi l’ingiusto profitto derivante dalla indebita percezione del sussidio.
In particolare, la Corte territoriale riteneva fondata l’ipotesi accusatoria sul presupposto che il perfezionamento della fattispecie delittuosa di cui all’art. 7, cit., si era realizzato per il solo fatto di avere portato all’attenzione dell’amministrazione erogatrice del reddito di cittadinanza dati non veritieri, a nulla rilevando la circostanza, prospettata dalla difesa, che la dichiarazione parzialmente non veritiera non avesse alterato i termini economici dei limiti reddituali per l’ottenimento del beneficio.
Ciò posto, avverso il provvedimento emesso dai giudici di seconde cure proponeva ricorso per Cassazione la difesa dell’accusato il quale, tra i motivi addotti, per quello che rileva in questa sede, deduceva violazione del D.L. n. 4 del 2019, art. 7, artt. 42 e 43 c.p., e vizio di motivazione in relazione alla mancanza dell’elemento soggettivo del reato, non sussistendo, a suo avviso, alcuna prova che consenta di ritenere che l’intenzione dell’imputato fosse stata quella di ottenere, attraverso la falsa dichiarazione, un beneficio altrimenti non dovuto, considerato che, anche dichiarando il valore immobiliare omesso, egli avrebbe comunque avuto diritto al sussidio.
Nel dettaglio, secondo il ricorrente, posto che il reato di cui al D.L. n. 4 del 2019, art. 7, comma 1, è di pura condotta e a dolo specifico, si censurava, quindi, la sentenza impugnata per aver messo in diretta correlazione l’incompleta dichiarazione ISEE con il fine di ricevere il reddito di cittadinanza, senza aver compiuto i necessari approfondimenti in ordine alla consapevolezza e volontarietà della contestata omissione, richiamandosi, al contempo, ad ogni buon conto, la diversa interpretazione della norma seguita dalla Corte di Cassazione che, in un caso analogo, aveva ritenuto che la rilevanza penale della condotta, dovendosi informare al principio dell’offensività concreta, il quale sussiste solo quando l’intenzione dell’agente sia quella di conseguire, attraverso dichiarazioni false o incomplete, un beneficio altrimenti non dovuto.
Oltre a ciò, era altresì fatto presente come la Corte di Appello non avesse nemmeno indicato le ragioni della affermata analogia tra il reato di cui al D.L. n. 4 del 2019, art. 7 e quello di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 95 che sanziona la falsità o le omissioni nelle dichiarazioni richieste ai fini della ammissione al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, benché si tratti di procedimenti diversi; il secondo, infatti, è caratterizzato da due fasi (ammissione al beneficio e liquidazione assenti nel caso di ammissione al reddito di cittadinanza).
Orbene, a fronte di ciò, secondo la prospettazione difensiva, la sentenza impugnata non teneva conto della diversità strutturale dei due reati e sul dolo specifico (che qualifica il reato per il quale si procede) non affermando alcunché, essendosi limitata a sostenere che l’imputato aveva commesso il reato per il sol fatto di aver indicato una falsa consistenza del proprio patrimonio immobiliare.
In tal modo, sempre ad avviso del ricorrente, la Corte territoriale aveva abdicato al proprio compito di ricostruire compiutamente il fatto incorrendo in un vizio motivazionale.
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2. La soluzione adottata dalle Sezioni Unite: fornire informazioni false o ometterle per il reddito di cittadinanza è un delitto
Le Sezioni unite, dopo avere individuato la normativa rilevante rispetto al quesito proposto, e ampiamente esaminato gli orientamenti nomofilattici formatisi in subiecta materia, ritenevano di dovere aderire al secondo indirizzo interpretativo succitato.
In particolare, gli Ermellini addivenivano a siffatta conclusione, innanzitutto rilevando che l’argomento utilizzato dal primo orientamento per sostenere l’irrilevanza della sussistenza dei requisiti per ottenere il Rdc (e la conseguente superfluità del relativo accertamento) si fonda su un parallelismo (il confronto con il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 95) e su una individuazione del bene tutelato dalla norma incriminatrice (il dovere di lealtà del cittadino verso le istituzioni dalle quali riceve un beneficio economico) reputati niente affatto convincenti.
Il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 95, in effetti, sanziona con la reclusione da uno a cinque anni le falsità o le omissioni nella dichiarazione sostitutiva di certificazione, nelle dichiarazioni, nelle indicazioni e nelle comunicazioni previste, ai fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, dall’art. 79, comma 1, lett. b), c) e d), trattandosi, in particolare: delle informazioni relative alle generalità del richiedente il beneficio e dei componenti la sua famiglia e relativi codici fiscali (lett. b); delle informazioni relative alla sussistenza delle condizioni di reddito previste per l’ammissione al patrocinio, con specifica determinazione del reddito complessivo valutabile a tali fini, determinato secondo le modalità indicate nell’art. 76 D.P.R. n. 115, cit. (lett. c); dell’impegno a comunicare, nella pendenza del processo, ogni variazione rilevante dei limiti di reddito (lett. d), tenuto conto altresì del fatto che è ivi stabilito che, se dal fatto consegue l’ottenimento o il mantenimento dell’ammissione al patrocinio, la pena è aumentata.
Oltre a ciò, era altresì evidenziato che, sul piano strutturale, mentre il reato di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 95richiede il dolo generico, quello di cui al D.L. n. 4 del 2019, art. 7, richiede il dolo specifico di ottenere indebitamente il Rdc, essendo irrilevante, ai fini della sussistenza del reato, l’effettivo conseguimento del beneficio; l’ottenimento o il mantenimento del patrocinio a spese dello Stato, quale conseguenza delle falsità od omissioni aggravano invece il reato di cui all’art. 95 cit..
La falsità nella dichiarazione sostitutiva di cui all’art. 79, comma 1, lett. c), penalmente sanzionata dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 95, inoltre, è correlata alla ammissibilità dell’istanza, non a quella del beneficio richiesto (così, in motivazione, Sez. U, n. 6591 del 27/11/2008), mentre le falsità e le omissioni sanzionate dal D.L. n. 4 del 2019, art. 7, riguardano invece i requisiti di ammissione e mantenimento del beneficio.
Detto questo, le Sezioni denotavano un ulteriore profilo di distinzione tra queste due normative a proposito dei contesti procedimentali nei quali i due reati sono collocati.
Invero, la procedura prevista per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato nel processo penale è informata alla massima celerità e snellezza, trattandosi di istituto finalizzato ad assicurare e a rendere effettivo il diritto di difesa nell’ambito di un processo penale pendente e per questo motivo il Giudice che procede, verificata l’ammissibilità dell’istanza, entro dieci giorni dalla data di presentazione dell’istanza stessa, ammette l’interessato al patrocinio dello Stato se, alla stregua della dichiarazione sostitutiva prevista dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 79, comma 1, lett. c), ricorrono le condizioni di reddito cui l’ammissione al beneficio è subordinata (D.P.R. n. 115 del 2002, art. 96, comma 1), fermo restando che la documentazione integrativa eventualmente richiesta dal Giudice ai sensi dell’art. 79, comma 3, può essere sostituita, in caso di impossibilità, da una dichiarazione sostitutiva di certificazione da parte dell’interessato (art. 94, comma 1, D.P.R. n. 115, cit.).
Ciò posto, il Giudice può tra l’altro respingere l’istanza se, tenuto conto degli indicatori richiamati dall’art. 96, comma 2, ha motivo di credere che l’interessato non versi nelle condizioni previste per l’ammissione al patrocinio; a tal fine, può trasmettere l’istanza (e la relativa dichiarazione sostitutiva) alla Guardia di finanza per le necessarie verifiche, ma deve comunque decidere nei dieci giorni successivi alla presentazione dell’istanza stessa e, quando si procede per uno dei delitti previsti dall’art. 51 c.p.p., comma 3-bis, o nei confronti di persona proposta o sottoposta a misura di prevenzione, il Giudice deve preventivamente chiedere al questore, alla Direzione investigativa antimafia e alla Direzione nazionale antimafia le informazioni necessarie e utili relative al tenore di vita dell’interessato, alle sue condizioni personali e familiari e alle attività economiche eventualmente svolte (art. 96, comma 3); ciò nondimeno la decisione deve essere adottata nei dieci giorni successivi alla presentazione dell’istanza (art. 96, comma 4).
Ad ogni modo, normalmente i controlli sono effettuati dopo l’adozione del decreto di ammissione e se, a seguito degli accertamenti dell’ufficio finanziario competente, risulta che il beneficio è stato erroneamente concesso, l’ufficio finanziario stesso ne chiede la revoca (D.P.R. n. 115 del 2002, art. 98, u.c.,), fermo restando che pure la revoca del decreto di ammissione è altresì obbligatoria nei casi stabiliti dall’art. 112, commi 1 e 2, D.P.R. n. 115, cit..
Del resto, anche il procedimento finalizzato all’eventuale erogazione del Rdc deve essere definito in tempi brevi, ma non con quell’immediatezza richiesta per assicurare al non abbiente la difesa nel processo penale pendente, dovendo essere effettuato, come visto, al più tardi, entro la fine del mese successivo alla trasmissione della domanda ma, nel procedimento per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, i controlli preventivi sulla corrispondenza al vero dei dati comunicati con la domanda dell’interessato sono, per la maggior parte dei casi, eventuali, superabili anche con dichiarazione sostitutiva di certificazione, e di certo non condizionano (perlomeno non nell’immediato) la decisione, considerato che il Giudice deve comunque assumere le proprie determinazioni entro dieci giorni dalla presentazione dell’istanza, mentre la domanda di Rdc è invece sottoposta ad una (sia pur minima) attività istruttoria finalizzata alla verifica del possesso dei requisiti per l’accesso al beneficio.
Orbene, a questo punto della disamina, il Supremo Consesso considerava interessante, da questo punto di vista, notare come il legislatore imponga all’INPS la verifica del “possesso dei requisiti per l’accesso del Rdc” (D.L. n. 4 del 2019, art. 5, comma 3) non di quelli dichiarati nella domanda o nella DSU cui la stessa faccia eventualmente riferimento.
Nel caso di ammissione al patrocinio a spese dello Stato nel processo penale i dati comunicati con la domanda, per la Corte di legittimità, assumono, dunque, un ruolo pressoché decisivo e ciò spiega l’evocazione del dovere di lealtà del cittadino verso le istituzioni dalle quali egli riceve un beneficio economico, dovere la cui violazione rende superflua la verifica della possibile sussistenza, in concreto, delle condizioni di ammissione al beneficio stesso.
Concluso questo raffronto comparativo di ordine normativo, la Suprema Corte denotava per di più che anche la giurisprudenza più recente in tema di patrocinio a spese dello Stato nel processo penale richiede, in caso di oggettiva sussistenza delle condizioni di ammissione al beneficio, che il dolo generico del reato di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 95 venga rigorosamente provato (Sez. 4, n. 35969 del 29/05/2019; Sez. 4, n. 4623 del 15/12/2017; Sez. 4, n. 45786 del 04/05/2017; Sez. 4, n. 21577 del 21/04/2016), fermo restando che le stesse Sezioni Unite, con la sentenza n. 14723 del 19/12/2019, hanno successivamente affermato il principio di diritto secondo il quale la falsità o l’incompletezza della dichiarazione sostitutiva di certificazione prevista dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 79, comma 1, lett. c) non comporta, qualora i redditi effettivi non superino il limite di legge, la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, che può essere disposta solo nelle ipotesi espressamente disciplinate dal D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 95 e 112, ed è significativo, per la Corte, notare che la pronuncia richiama, facendone argomento di decisione, l’indirizzo giurisprudenziale di cui al capoverso che precede in tema di prova rigorosa del dolo generico del reato di cui all’art. 95, cit..
In conclusione, per i giudici di legittimità ordinaria, la diversità strutturale dei due reati, quello di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 95 e quello di cui al D.L. n. 4 del 2019, art. 7, nonché dei relativi contesti procedimentali, l’uno (quello finalizzato all’ammissione del patrocinio a spese dello Stato) informato alla massima speditezza, l’altro (quello finalizzato all’erogazione del Rdc) scandito da una sia pur minima istruttoria che, in ogni caso, non contempla l’intervento “sostitutivo” del richiedente il beneficio il quale non può autocertificare le informazioni mancanti o carenti, tenuto conto altresì del fatto che, essendo oggetto della condotta decettiva tipizzata dall’art. 95 D.P.R. n. 115, cit. le informazioni ritenute necessarie per la ammissibilità della domanda, mentre oggetto della condotta sanzionata dall’art. 7, comma 1, D.L. n. 4, cit., sono i dati essenziali alla erogazione stessa del beneficio, per la Cassazione, questi sono argomenti che ostano ad improbabili parallelismi essendo i termini di paragone indiscutibilmente eterogeni, tanto sotto il profilo strutturale, quanto sotto quello funzionale.
Sempre per i giudici di piazza Cavour, non convince, inoltre, la teorizzazione di un “dovere di lealtà del cittadino verso le istituzioni dalle quali riceve un beneficio economico” sostenuto in talune delle pronunce rappresentative del primo orientamento, posto che tale dovere sembra costituire il corrispettivo di un beneficio “graziosamente” concesso al cittadino, piuttosto che in forza di un diritto espressamente riconosciuto per legge sulla base di dati oggettivi e verificabili.
Si tratta, pertanto, per il Supremo Consesso, di una prospettiva che riduce il bere giuridico tutelato dal D.L. n. 4 del 2019, art. 7, a vuoto guscio privo di sostanza concreta che attrae a sé, rendendoli punibili, anche fatti del tutto inoffensivi visto che il Rdc è comunque riconducibile al rapporto tra amministrazione e società che, secondo l’impostazione costituzionale, non è un rapporto di imperio ma strumentale alla cura degli interessi di quest’ultima (Corte Cost., sent. n. 341 del 1994), sicché ciò che giustifica la sanzione penale non è la violazione di un generico “dovere di lealtà“, bensì il fatto che il mendacio possa ledere (o effettivamente leda) gli interessi pubblici alla cui tutela il beneficio economico è finalizzato.
D’altronde, il principio di necessaria offensività, costituzionalizzato dal combinato disposto di cui all’art. 3 Cost., art. 13 Cost., commi 1, 2 e 3, art. 25 Cost., comma 2, e art. 27 Cost., commi 1 e 3, ed espressamente riconosciuto anche dal legislatore ordinario (art. 49 c.p., comma 2, ma, prima ancora, art. 2 c.p., nella parte in cui esclude la punibilità di un fatto che per la legge posteriore successiva non costituisce reato; L. 24 dicembre 2012, n. 234, art. 32, comma 1, lett. d), che, in materia di principi e criteri direttivi generali di delega per l’attuazione del diritto dell’Unione Europea, dispone che le sanzioni penali, nei limiti, rispettivamente, dell’ammenda fino a 150.000 Euro e dell’arresto fino a tre anni, sono previste, in via alternativa o congiunta, solo nei casi in cui le infrazioni ledano o espongano a pericolo interessi costituzionalmente protetti), pone un limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore in materia di previsione delle fattispecie penalmente rilevanti. Il principio di offensività opera ininterrottamente “dal momento della astratta predisposizione normativa a quello della applicazione concreta da parte del Giudice, con conseguente distribuzione dei poteri conformativi tra Giudice delle leggi e autorità giudiziaria, alla quale soltanto compete di impedire, con un prudente apprezzamento della lesività in concreto, una arbitraria ed illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale” (Corte Cost., sent. n. 263 del 2000; ordinanza n. 30 del 2007; nello stesso senso anche Corte Cost. sentenze n. 360 del 1995, n. 247 del 1997, n. 133 del 1992, n. 333 del 191, n. 144 del 1991).
Del resto, ancor più recentemente, il Giudice delle leggi ha ribadito che il principio di offensività opera su due piani distinti.
Da un lato, cioè, come precetto rivolto al legislatore, diretto a limitare la repressione penale a fatti che, nella loro configurazione astratta, esprimano un contenuto offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di protezione (offensività “in astratto“); dall’altro, come criterio interpretativo-applicativo affidato al Giudice il quale, nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, dovrà evitare che ricadano in quest’ultimo comportamenti privi di qualsiasi attitudine lesiva (offensività “in concreto“)” (Corte Cost., sentenza n. 139 del 2023, che richiama le sentenze n. 211 del 2022, n. 278 e n. 141 del 2019, n. 109 del 2016, n. 265 del 2005, n. 263 del 2000, cit., e n. 360 del 1995), senza del resto ignorare come “il principio di offensività in astratto non implica che l’unico modello, costituzionalmente legittimo, sia quello del reato di danno, dato che rientra nella discrezionalità del legislatore optare per forme di tutela anticipata, le quali colpiscano l’aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo, nonché, correlativamente, individuare la soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva (sentenze n. 211 del 2022, n. 141 del 2019, n. 109 del 2016 e n. 225 del 2008): prospettiva nella quale non è precluso, in linea di principio, il ricorso al modello del reato di pericolo presunto (sentenze n. 211 del 2022, n. 278 e n. 141 del 201.9, n. 109 del 2016, n. 247 del 1997, n. 360 del 1995, n. 133 del 1992 e n. 333 del 1991)”.
Dunque, per la Suprema Corte, il generico “dovere di lealtà“, posto a fondamento dell’indirizzo ermeneutico qui disatteso, costituisce una giustificazione tautologica della potestà punitiva dello Stato (prohibitum quia prohibitum) che deve cedere il passo di fronte a possibili spiegazioni alternative della penale rilevanza della condotta più aderenti al principio di offensività.
Ciò posto, gli Ermellini notavano altresì che il reato di cui al D.L. n. 4 del 2019, art. 7 è un reato di pericolo concreto a consumazione anticipata posto a presidio delle risorse pubbliche economiche destinate a finanziare il Rdc impedendone la dispersione a favore di chi non ne ha (o non ne ha più) diritto o ne ha diritto in misura minore, nonché un reato posto a tutela del patrimonio dell’ente erogante e, in particolare, delle specifiche (e limitate) risorse destinate all’erogazione del beneficio ed al perseguimento del fine pubblico ad esso sotteso.
Invero, per la Corte di legittimità, a sostegno di tale conclusione militano vari argomenti, il primo dei quali ha natura letterale e riguarda l’interpretazione dell’avverbio “indebitamente” che qualifica il dolo specifico.
In effetti, la lettura, che propone l’indirizzo non accolto dalle Sezioni unite nel caso di specie, ne rende sostanzialmente inutile l’inserimento nella fattispecie; non si comprende, cioè, per quale ragione, venendo in rilievo il dovere di lealtà del cittadino verso le istituzioni, il legislatore non abbia ritenuto sufficiente il solo fine di ottenere il beneficio ma abbia ritenuto necessario il fine di ottenerlo “indebitamente“.
Sarebbe stato sufficiente pretendere la consapevolezza della falsità delle informazioni date (o della doverosità di quelle omesse) per ritenere punibile la condotta posta in essere nella prospettiva del conseguimento del risultato.
In altre parole, se il reato sussistesse a prescindere dall’effettivo diritto dell’interessato a ottenere il beneficio, l’avverbio “indebitamente” finirebbe per attribuire al dolo specifico lo stesso contenuto di quello generico: l’agente verrebbe punito perché rende dichiarazioni consapevolmente false (o scientemente omette informazioni dovute) nella prospettiva di conseguire il beneficio pur sapendo di rendere, a tal fine, dichiarazioni false o di omettere informazioni dovute.
Ben più coerente con il dato testuale è invece, per le Sezioni unite, la soluzione che attribuisce all’avverbio “indebitamente” un contenuto autonomo che qualifica il dolo specifico diversificandolo rispetto alla mera consapevolezza della falsità delle informazioni date (o omesse) per ottenere il beneficio.
Precisato ciò, la Cassazione richiamava, per sostenere l’adesione all’altro indirizzo ermeneutici, un’altra argomentazione di natura sistematica riguardante il rapporto tra il reato di cui al D.L. n. 4 del 2019, art. 7, comma 1, e quello di cui al comma 2 del medesimo articolo.
Difatti, secondo la Corte, l’interpretazione recepita in tale occasione rende più armonico il rapporto tra le due fattispecie di reato sanzionate dal medesimo articolo.
Non v’e’ dubbio, infatti, che l’omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio, nonché delle altre informazioni dovute ai fini della revoca o della riduzione del beneficio, è penalmente sanzionata, purché i dati non comunicati siano rilevanti mentre l’omessa comunicazione di dati non rilevanti costituisce puramente e semplicemente un fatto atipico che non reca alcuna offesa al patrimonio e agli interessi pubblici dell’ente erogante.
L’indirizzo qui disatteso, all’opposto, postula necessariamente la diversità dei beni tutelati dalle due fattispecie: il dovere di lealtà nei confronti dell’ente erogante, nel comma 1, e il patrimonio dell’ente, nel comma 2.
Orbene, per le Sezioni unite, non si comprende perché tale dovere di lealtà dovrebbe cessare una volta ottenuto il beneficio e perché non permei di sé anche il compito del beneficiato di rendere edotto l’ente pubblico di ogni variazione delle condizioni che legittimano la persistente erogazione del Rdc. Del resto, se si potrebbe obiettare che la “rilevanza” dell’informazione omessa (comma 2) per evitare la revoca o la riduzione del beneficio non qualifica, ai sensi del comma 1, anche le informazioni omesse per ottenere il beneficio stesso, questa obiezione, per la Corte di legittimità, non spiega, però, perché, in caso di decadenza dal beneficio nei casi previsti dal comma 6 dell’art. 7, l’ente debba recuperare solo “quanto versato in eccesso” e non l’intero ammontare delle somme corrisposte a titolo di Rdc poichè il comma 6 dell’art. 7 prevede, quale specifico motivo di decadenza, la percezione del Rdc in misura maggiore rispetto a quanto sarebbe spettato al nucleo familiare “per effetto di dichiarazione mendace in sede di DR o di altra dichiarazione nell’ambito della procedura di richiesta del beneficio, ovvero per effetto dell’omessa presentazione delle prescritte comunicazioni”.
Il legislatore ha dunque espressamente contemplato la possibilità che l’interessato ottenga il beneficio in misura maggiore del dovuto (anche) per effetto di dichiarazione mendace, ma se venisse in rilievo il dovere di lealtà nei confronti dell’ente erogatore non si comprenderebbe il motivo per il quale la decadenza non determini il recupero totale di quanto versato, piuttosto che di “quanto versato in eccesso”.
Ebbene, tale conclusione, per gli Ermellini, consente di affermare che il reato previsto dal comma 1 dell’art. 7, cit., sussiste anche quando l’agente agisce nella prospettiva di ottenere più del dovuto e di attribuire, dunque, all’avverbio “indebitamente‘ un contenuto più ampio, non limitato alla sola prospettiva di ottenere il beneficio senza averne diritto, ma anche a quella di ottenere il beneficio in misura maggiore del dovuto.
D’altronde, il fatto che in quest’ultimo caso il legislatore abbia espressamente previsto “il recupero di quanto versato in eccesso”, per il Supremo Consesso, costituisce ulteriore prova che (anche) il bene tutelato dal comma 1 dell’art. 7 è il patrimonio dell’ente, non già un generico dovere di lealtà nei suoi confronti, tanto più se si considera che tale conclusione rende omogeneo (ed unico) il bene tutelato dalle due fattispecie di reato; le condotte ivi previste non costituiscono altro che modalità diverse di aggressione a tale unico bene in costanza della diversità del presupposto: la mancanza del beneficio (e la prospettiva di ottenerlo), nel primo caso; il suo godimento nel secondo.
Il minimo comune denominatore di entrambe le fattispecie penali, quella di cui al comma 1 e quella di cui al D.L. n. 4 del 2019, art. 7, comma 2, è quindi, per le Sezioni unite, costituito dal patrimonio (o dalle risorse economiche) dell’ente e dal fine che con il suo utilizzo si intende perseguire. Il patrimonio non rileva come bene di proprietà ma come strumento per il raggiungimento di determinati obiettivi; non rileva l’aspetto statico, bensì quello dinamico: sullo sfondo s’intravede l’interesse pubblico leso (anche solo potenzialmente) dall’azione di chi sottrae risorse per perseguirlo.
Per l’erogazione del Rdc (e della pensione di cittadinanza), infatti, sono state stanziate somme da iscrivere su apposito capitolo dello stato di previsione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali denominato “Fondo per il reddito di cittadinanza”, destinato ad essere alimentato; almeno fino al 2022, con gli importi indicati dal D.L. n. 4 del 2019, art. 12,comma 1. Le somme sono trasferite annualmente all’INPS su apposito conto corrente di tesoreria centrale ad esso intestato, da cui sono prelevate le risorse necessarie per l’erogazione del beneficio da trasferire sul conto acceso presso Poste Italiane con cui è stipulata apposita convenzione.
Con circolare del 20 marzo 2019, n. 4, l’INPS ha espressamente previsto che “(i)n caso di esaurimento delle risorse disponibili per l’esercizio di riferimento, con decreto del Ministro del Lavoro e delle politiche. sociali, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle finanze, da adottarsi entro trenta giorni dall’esaurimento di dette risorse, è ristabilita la compatibilità finanziaria mediante rimodulazione dell’ammontare del beneficio. Nelle more dell’adozione del suddetto decreto, l’acquisizione di nuove domande e le erogazioni sono sospese” (analoga previsione è contenuta nella circolare dell’Istituto del 5 luglio 2019).
L’indebita percezione (o fruizione) del Rcic, di conseguenza, per i giudici di piazza Cavour, distrae le somme messe a disposizione per finanziarne l’erogazione a danno (diretto) dell’ente pubblico erogatore e (indiretto) di chi avrebbe diritto di godere del beneficio.
Tal che se ne fa conseguire come debba escludersi che il reato di cui al D.L. n. 4 del 2019, art. 7, comma 1, sia posto a tutela della fede pubblica e che si risolva in un reato di falso.
Non necessariamente, del resto, il fatto che una fattispecie contempli, per la consumazione del reato, l’indicazione di dati falsi o il silenzio su fatti veri legittima tale conclusione: prova ne sia che il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2 non è posto a tutela della fede pubblica bensì del dovere, costituzionalmente sancito, di concorrere alle spese pubbliche n ragione, ognuno, della propria capacità contributiva (art. 53 Cost., comma 1,).
Ascrivere il delitto di cui al D.L. n. 4 del 2019, art. 7 alla categoria dei reati contro la fede pubblica equivarrebbe, per la Corte, a spostarne il disvalore dall’evento alla condotta e a svuotare di senso l’avverbio “indebitamente” che qualifica il movente tipizzato dell’azione (il dolo specifico).
La previsione del dolo specifico non costituisce, quindi, nel caso di specie, un inedito nella materia del falso e, ancor più, in quella delle falsità nelle c.d. autodichiarazioni perché il reato di cui al D.L. n. 4 del 2019, art. 7, comma 1, non si colloca nella tradizione sanzionatoria dei delitti di falso, né è norma speciale rispetto al reato di cui al D.P.R. n. 445 del 2000, art. 76.
La specifica previsione del finalismo della condotta decettiva è difatti il frutto della scelta del legislatore di anticipare la tutela penale al momento della domanda piuttosto che a quello dell’erogazione del beneficio e proietta il reato fuori dall’ambito della tutela della fede pubblica collocandola in quella dell’aggressione alle risorse dell’ente pubblico specificamente destinate all’erogazione del beneficio.
Il dolo specifico, in questo contesto, svolge pertanto una funzione selettiva tra condotte penalmente rilevanti e quelle che tali non sono, estromettendo dalla fattispecie quelle insuscettibili di mettere in pericolo il bene protetto.
Infatti, se l’agente ha comunque diritto al beneficio, la non corrispondenza al vero delle informazioni a tal fine rese non qualifica il falso come “inutile“, ma rende puramente e semplicemente atipica la condotta, dovendosi escludere la natura indebita del beneficio stesso; viene meno, cioè, un elemento del fatto tipico.
Il dolo specifico, nel caso di specie, non si limita quindi a tipizzare il movente dell’azione, ma assolve anche allo scopo di qualificare la condotta, costituendo, sul piano oggettivo, un elemento della fattispecie rivelatore dell’offesa che si intende prevenire (e punire).
L’anticipazione della tutela qualifica il delitto in questione come reato di pericolo concreto laddove l’interpretazione qui confutata lo qualifica come reato di pericolo astratto la cui declinazione applicativa, pertanto, non potrebbe mai sfuggire alla verifica, in concreto, della idoneità della condotta tipica a ledere gli interessi tutelati dalla minaccia della sanzione penale: anche nei reati di pericolo presunto, il Giudice deve escludere la punibilità di fatti pure corrispondenti alla formulazione della norma incriminatrice, quando alla luce delle circostanze concrete manchi ogni (ragionevole) possibilità di produzione del danno (Corte Cost., sent. n. 123 del 2023).
In conclusione, le Sezioni unite, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, giungevano a formulare il seguente principio di diritto: “Le omesse o false indicazioni di informazioni contenute nell’autodichiarazione finalizzata a conseguire il reddito di cittadinanza integrano il delitto di cui al D.L. 28 gennaio 2014, n. 4, art. 7, conv. in L. 28 marzo 2019, n. 26 solo se funzionali ad ottenere un beneficio non spettante ovvero spettante in misura superiore a quella di legge”.
3. Conclusioni
La decisione in esame desta un certo interesse essendo ivi chiarito quando le omesse o false indicazioni di informazioni contenute nell’autodichiarazione finalizzata a conseguire il reddito di cittadinanza integrano il delitto di cui al D.L. 28 gennaio 2019, n. 4, art. 7, conv. in L. 28 marzo 2019, n. 26.
Difatti, fermo restando che, come è noto, questa norma prevede al primo comma che, salvo “che il fatto costituisca piu’ grave reato, chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio di cui all’articolo 3, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute, e’ punito con la reclusione da due a sei anni”, con tale decisione le Sezioni unite chiariscono, con la pronuncia in esame, che le omesse o false indicazioni di informazioni contenute nell’autodichiarazione finalizzata a conseguire il reddito di cittadinanza integrano il delitto di cui al D.L. 28 gennaio 2014, n. 4, art. 7, conv. in L. 28 marzo 2019, n. 26 solo se funzionali ad ottenere un beneficio non spettante ovvero spettante in misura superiore a quella di legge.
Dunque, per effetto di questo arresto giurisprudenziale, non rileva più quell’orientamento ermeneutico, sostenuto in talune pronunce emesse sempre in sede di legittimità ordinaria, secondo il quale, ai fini della configurabilità di siffatto illecito penale, rilevano le false indicazioni od omissioni di informazioni dovute, anche parziali, dei dati di fatto riportati nell’autodichiarazione finalizzata all’ottenimento del reddito di cittadinanza, indipendentemente dalla sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio, essendo per contro necessario, come appena visto, che questo rapporto di dipendenza sia provato dalla pubblica accusa.
Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza è positivo, non solo perché con essa si fa chiarezza su siffatta tematica giuridica facendo venire meno il contrasto giurisprudenziale che era sorto in precedenza, ma anche perché il frutto di un articolato e ben ponderato ragionamento giuridico basato su un’attenta analisi del dato normativo e della giurisprudenza che si era formata a proposito di tale tematica giuridica.
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