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Premessa.
La tassazione internazionale del reddito d’impresa riguarda il c.d Paese della residenza, che di norma assoggetta a tassazione i reddi prodotti all’estero dai propri residenti e il c.d Paese della fonte, che di norma tassa i redditi dei non residenti prodotti al proprio interno.
Nel secondo aspetto divengono cruciali le norme che regolano la territorialità dei redditi, che possono essere unilaterali (nel caso italiano gli artt. 20, 112 e 113 del Tuir) ovvero pattizie (convenzioni contro la doppia imposizione) che prevedono regole comuni di territorialità per evitare che due Paesi possano contemporaneamente definirsi come “Stato della fonte” e ripartiscono la potestà impositiva tra il Paese della fonte e quello della residenza.
La quasi totalità delle convenzioni stipulate dall’Italia è conforme al modello elaborato dall’OCSE che è stato utilizzato dalla maggior parte dei trattati stipulati dai Paesi industrializzati (cfr Materiali §1).
Con la convenzione contro la doppia imposizione, di norma, il Paese della residenza riconosce al Paese della fonte la precedenza nella tassazione, attribuendo ai propri residenti crediti d’imposta o esclusioni dall’imponibile per i redditi prodotti all’estero, (cfr articoli 23A e 23B del Modello OCSE). Tali misure integrano usualmente analoghe previsioni unilaterali del Paese della residenza (cfr artt. 15, 96 e 96-bis del Tuir).
Nel Paese della fonte, comunemente, la tassazione dei redditi prodotti dai non residenti viene limitata nell’importo sia da norme convenzionali ( cfr. artt. 10, 11 e 12 del Modello Ocse) che da norme interne (cfr artt. 25, c. 4, 26 e 27 c. 3 DPR 600/73), che per categorie particolari di reddito (di lavoro autonomo, di capitale, interessi e dividendi) prevedono l’applicazione di ritenute alla fonte a titolo d’imposta, con aliquota inferiore a quella dell’imposta sul reddito.
LA STABILE ORGANIZZAZIONE
Il concetto di stabile organizzazione è fondamentale per la definizione della territorialità dei redditi d’impresa e interessa le c.d. branch o diramazioni delle imprese multinazionali.
La definizione di stabile organizzazione
La legislazione italiana non fornisce una definizione espressa di stabile organizzazione.
Tale concetto è stato ricavato attraverso interpretazione sistematica della disciplina interna, da cui si è ricavato che la della stabile organizzazione, da cui sono stati desunti i seguenti caratteri costitutivi della stabile organizzazione:
natura indifferentemente materiale o personale dell’organizzazione.
strumentalità ad un’attività produttiva di redditi d’impresa;
stabilità, ovvero abitualità o durabilità delle sue caratteristiche materiali, ovvero dei vincoli di carattere giuridico o economico con i soggetti che la compongono;
E’ invece opinione prevalente che la stabile organizzazione non necessiti di autonomia gestionale o contabile.
(Cfr Cass. n. 8815 del 27/11/87).
Va precisato che la stabile organizzazione non è un soggetto di diritto autonomo rispetto alla casa madre, non essendo dotata di personalità, in quanto costituisce mera organizzazione appartenente al soggetto non residente.
La stabile organizzazione rappresenta invece un centro di imputazione di situazioni giuridiche dell’impresa non residente, sia per la definizione del presupposto dell’imposta, sia per gli obblighi strumentali all’applicazione del tributo.
L’amministrazione finanziaria italiana si è richiamata alla definizione fornita dal modello OCSE, evidenziando come requisiti fondamentali: a) l’esistenza di una installazione fissa in senso tecnico (locali, materiali, attrezzature), ovvero b) l’esistenza di persone che svolgono attività per conto dell’impresa, disponendo ed esercitando abitualmente il potere di concludere contratti a nome dell’impresa stessa, a meno che non si tratti di intermediari che godano di uno status indipendente (mediatori, commissionari, ecc.) e che agiscono nel quadro ordinario della loro attività e quindi non come unici rappresentanti dell’impresa, c) l’esercizio di attività da parte dell’impresa per mezzo dell’installazione.
Riguardo alle esemplificazioni contenute nel modello OCSE, l’amministrazione finanziaria italiana. ha riconosciuto validità anche in campo interno alle esemplificazioni positive, salvo l’irrilevanza del limite temporale minimo stabilito per i cantieri, mentre si è pronunciata per la non recepibilità delle c.d. ipotesi negative, al di fuori degli accordi bilaterali
Secondo l’art. 5 del modello OCSE:
1. L’espressione stabile organizzazione designa una sede fissa di affari in cui l’impresa esercita in tutto o in parte la sua attività.
2. L’espressione “stabile organizzazione” comprende in particolare:
a) una sede di direzione;
b) una succursale;
c) un ufficio;
d) un’officina;
e) un laboratorio;
f) una miniera o giacimento petrolifero o di gas naturale, una cava o altro luogo di estrazione di risorse naturali.
3. Un cantiere di costruzione o di montaggio è considerato stabile organizzazione solamente se oltrepassa i dodici mesi.
4. Nonostante le precedenti disposizioni di questo articolo, non si considera che vi sia una stabile organizzazione se:
si fa uso di una installazione ai soli fini di deposito, di esposizione o di consegna di beni o di merci appartenenti all’impresa.
le merci appartenenti all’impresa sono immagazzinate ai soli fini di deposito, di esposizione e di consegna.
le merci appartenenti all’impresa sono immagazzinate ai soli fini della trasformazione da parte di un’altra impresa.
una sede fissa di affari è utilizzata ai soli fini di acquistare merci o di raccogliere informazioni per l’impresa.
una sede fissa di affari è utilizzata per l’impresa ai soli fini di pubblicità, di fornire informazioni, di ricerche scientifiche o di attività analoghe che abbiano carattere preparatorio o ausiliare per l’impresa.
Una sede fissa di affari è utilizzata unicamente per qualsiasi combinazione delle attività citate ai paragrafi da a) ad e), purché l’attività della sede fissa nel suo insieme quale risulta da tale combinazione, sia di carattere preparatorio o ausiliare.
5. Nonostante le disposizioni dei paragrafi 1 e 2, quando una persona – diversa da un agente che goda di uno status indipendente di cui al paragrafo 6 – agisce per conto di un’impresa, ha ed abitualmente esercita in uno Stato Contraente il potere di concludere contratti in nome dell’impresa, si può considerare che tale impresa abbia una stabile organizzazione in detto Stato in relazione ad ogni attività intrapresa dalla suddetta persona per l’impresa, a meno che l’attività di detta persona sia limitata all’attività citata al paragrafo 4 che, se esercitata per mezzo di una sede fissa di affari, non farebbe di tale sede fissa di affari una stabile organizzazione ai sensi delle disposizioni di detto paragrafo.
6. Non si considera che un’impresa di uno Stato Contraente abbia una stabile organizzazione nell’altro Stato Contraente per il solo fatto che essa eserciti in detto Stato la propria attività per mezzo di un mediatore, di un commissionario generale o di ogni altro intermediario che goda di uno status indipendente, a condizione che dette persone agiscano nell’ambito della loro ordinaria attività.
7. Il fatto che una società residente in uno Stato Contraente controlli una società residente dell’altro Stato Contraente o sia da questa controllata, ovvero svolga attività in questo altro Stato (a mezzo di una stabile organizzazione oppure no) non costituisce, di per sé, motivo sufficiente per far considerare una qualsiasi delle dette società una stabile organizzazione dell’altra.
Il commentario dell’OCSE al modello di convenzione precisa che:
* Non è necessario che la stabile organizzazione abbia carattere “produttivo”, cioè debba contribuire agli utili dell’impresa in modo diretto per essere considerata tale.
* Il termine “sede di affari” comprende tutti i luoghi, attrezzature o installazioni utilizzati dall’impresa per la propria attività, ancorché in modo non esclusivo. I luoghi possono anche non essere locali veri e propri ma possono essere semplici spazi a disposizione dell’impresa. E’ irrilevante il titolo in base al quale i mezzi di cui sopra sono a disposizione dell’impresa.
* Una stabile organizzazione può essere considerata tale solo se la sede di affari ha un certo grado di permanenza, se non è di natura puramente temporanea. La sede di affari istituita per scopo non temporaneo, costituisce S.O. anche se, di fatto, è esistita solo per un brevissimo lasso di tempo. Per contro una sede d’affari istituita per scopo temporaneo diviene, fin dall’inizio, S.O. se a posteriori viene mantenuta per un periodo di tempo tale da non potersi più considerare temporanea.
* L’attività della stabile organizzazione non necessariamente deve essere ininterrotta, ma deve essere svolta regolarmente.
* Nel caso in cui un’impresa mantenga una sede fissa per la concessione a terzi di beni materiali, immateriali o capitali, questa sede fissa costituisce stabile organizzazione. In mancanza di sede fissa, i beni concessi in uso non costituiscono S.O. se il contratto è di mero affitto, anche se il concedente fornisce personale per far funzionare i beni, purché la sua responsabilità sia limitata solo al funzionamento o alla manutenzione, sotto direzione, responsabilità e controllo del concessionario.
* La presenza di personale addetto alla sede fissa non è indispensabile, così come sono irrilevanti i poteri del personale rispetto ai terzi. Anche un macchinario automatico può costituire stabile organizzazione, se l’imprese ne cura il funzionamento e la manutenzione in proprio o li affida ad un agente dipendente.
* La stabile organizzazione comincia ad esistere non appena comincia a svolgere la sua attività, mentre non dovrebbe essere considerato il periodo di allestimento.
* La stabile organizzazione cessa di esistere con l’alienazione o l’affitto della sede di affari, o con la cessazione di qualsiasi attività al suo interno.
* L’elencazione dei tipici casi di stabile organizzazione contenuta nel par. 2 ha carattere esemplificativo.
I casi di cui al par. 2 devono essere interpretati nel senso che costituiscono stabile organizzazione solo se sono soddisfatti i requisiti di cui al par. 1. (Nelle riserve ufficiali, l’Italia non ha aderito a tale interpretazione, ritenendo che la fattispecie di cui al par. 2 costituiscano “a priori” casi di stabile organizzazione).
* I cantieri di montaggio o di costruzione che abbiano al loro interno strutture di cui al par. 2 sono comunque sottoposti al c.d. test dei 12 mesi di durata.
* Il test dei 12 mesi si applica separatamente per ciascun cantiere. Si considera unico il cantiere frazionato in più contratti, se forma un tutto coerente, commercialmente e geograficamente.
* Le interruzioni stagionali o temporanee sono comprese nella durata del cantiere.
* In caso di subappalto, il tempo impiegato dai subappaltatori si somma in capo all’appaltatore. Il subappaltatore è considerato avere stabile organizzazione se la propria attività supera i 12 mesi.
* La caratteristica comune alle attività c.d. escluse di cui al par. 4 è quella di essere preparatorie o ausiliarie.
* I casi considerati dal par. 4 costituiscono eccezioni alla definizione di stabile organizzazione data al par. 1, giustificati dal fatto che tali attività, pur potendo contribuire alla produttività dell’impresa, sono così lontane dall’effettiva realizzazione di utili che è difficile attribuire loro un reddito.
* La sede fissa che svolga attività analoga a quella dell’impresa costituisce S.O. anche se tale attività è prevista dal par. 4.
* Una sede di direzione non può essere considerata svolgere attività preparatoria o ausiliaria, in quanto, anche se copre solo una determinata area dell’attività, costituisce una parte essenziale dell’impresa.
* Le organizzazioni di assistenza post vendita e fornitura di pezzi di ricambio esplicano attività essenziali e non ausiliarie.
* Non hanno carattere ausiliario le attività che, pur rientrando nelle funzioni di cui al paragrafo 4, fossero esercitate anche per conto di altre imprese.
* Nel caso di utilizzo di una sede fissa sia per attività considerate quali eccezioni ai sensi del par. 4 che per altre attività, si considera esista un’unica S.O., tassabile per entrambe le attività.
* La stabile organizzazione “personale” implica l’utilizzo di persone (o società), che non siano agenti indipendenti e che siano dotate del potere di concludere contratti in nome dell’impresa. Il concetto di stabile organizzazione presuppone, comunque, che tali poteri siano usati ripetutamente e non solo in casi isolati.
* Solo persone che hanno il potere di concludere contratti possono portare a una stabile organizzazione per l’impresa cui fanno capo.
* Il potere di concludere contratti deve riguardare contratti relativi all’attività propria dell’impresa e non alla sua organizzazione interna (ad esempio assumere personale).
* Una persona le cui attività siano limitate agli scopi di cui al par. 4 non costituisce stabile organizzazione.
* Il par. 5 prevede semplicemente un criterio alternativo a quello del par. 1. Quando esiste una sede fissa, è irrilevante che al suo interno vi siano o meno persone che ricadano nelle previsioni del par. 5.
* Una persona rientra nell’ambito del par. 6 e pertanto non costituirà stabile organizzazione di un’impresa straniera, solo se è indipendente dall’impresa sia legalmente che economicamente e opera nell’ambito della sua ordinaria attività mentre agisce per conto dell’impresa.
* L’indipendenza dipende dall’estensione degli obblighi che l’agente ha verso l’impresa. Quando le attività commerciali dell’agente sono soggette a istruzioni dettagliate o a esteso controllo da parte dell’impresa, tale persona non può essere considerata indipendente.
* Un altro importante criterio per valutare l’indipendenza sarà se l’attribuzione del rischio imprenditoriale all’impresa o alla persona che la persona rappresenta.
* Una consociata non può essere considerata dipendente dalla società madre solamente per la proprietà del capitale sociale.
* La società consociata costituirà stabile organizzazione alle condizioni determinate dal par. 5.
Nei sistemi nazionali è comune l’esistenza di una nozione di stabile organizzazione autonoma e distinta rispetto a quella convenzionale.
La determinazione del reddito della stabile organizzazione
Il reddito della stabile organizzazione può essere determinato secondo due metodi:
1) il c.d. metodo diretto, per cui la stabile organizzazione viene trattata come un’entità indipendente dalla casa madre, assimilata ad una società fglia, determina autonomamente il proprio reddito ed applica il principio del dealing at arm’s lenght nei rapporti con la casa madre.
2) il c.d. metodo indiretto, secondo il quale la stabile organizzazione viene considerata una parte integrante e dipendente dell’attività economica dell’impresa, con la conseguenza che:
– non sono configurabili transazioni tra stabile organizzazione e casa madre e di conseguenza esse non possono essere valorizzate col principio del dealing at arm’s lenght,
– va definito il reddito globale dell’impresa, che va ripartito tra le sue componenti, con la conseguenza che se l’impresa nel suo complesso non ha redditi o perdite a sua volta la stabile organizzazione non può avere redditi o perdite.
Il metodo indiretto, da un punto di vista concettuale, appare più corretto, considerati i più vistosi inconvenienti del metodo diretto:
a) Nel caso in cui l’impresa produca beni che vengono commercializzati tramite una stabile organizzazione estera, se i risultati economici globali sono negativi, secondo il metodo diretto va applicato il principio del dealing at arm’s lenght per cui la casa madre potrebbe essere ritenuta realizzare un profitto, mentre la stabile organizzazione realizzerebbe una perdita superiore a quella subita dall’impresa nel complesso, o viceversa.
b) Le rimanenze presso la stabile organizzazione, secondo il metodo diretto, dovrebbero essere valutate dalla casa madre, anziché al costo di produzione, al prezzo di vendita diminuito del margine commerciale, con la tassazione di un reddito che l’impresa non ha conseguito..
c) Nel caso in cui i beni trasferiti alla stabile organizzazione periscano prima di essere venduti o divengano invendibili dopo la consegna alla stabile organizzazione, il metodo diretto porterebbe all’imputazione di un profitto alla casa madre.
La prassi amministrativa e la giurisprudenza prevalenti nei Paesi industrializzati danno preferenza la c.d. metodo diretto, salvo applicare dei correttivi alle sue più evidenti incongruenze.
Ad esempio in Germania l’orientamento giurisprudenziale sugli utili realizzati mediante trasferimenti di beni alla stabile organizzazione per la vendita è che essi si considerinoi conseguiti solo al momento della vendita a terzi da parte della stabile organizzazione.
Tra gli Stati che prevedono il c.d. metodo indiretto, si segnala il Lussemburgo, che consente alle stabili organizzazioni. di soggetti non residenti di determinare il loro reddito imponibile in base ad una ripartizione pro-rata del reddito complessivo dell’impresa e di non tenere una contabilità distinta per le loro attività in Lussemburgo. Il riporto delle perdite, tuttavia, non è ammesso per ripartizione, ma richiede che le perdite risultino prodotte in Lussemburgo in base ad una contabilità tenuta secondo le norme locali.
Il metodo diretto è assunto a base dei criteri di determinazione degli utili delle imprese previsti dall’art. 7 del MODELLO OCSE:
“Gli utili di un’impresa di uno Stato contraente sono imponibili soltanto in detto Stato, a meno che l’impresa non svolga la sua attività nell’altro Stato Contraente per mezzo di una stabile organizzazione ivi situata. Se l’impresa svolge attività come avanti detto, gli utili dell’impresa sono imponibili in detto altro Stato, ma soltanto nella misura in cui detti utili sono attribuibili alla stabile organizzazione.
In conformità alle disposizioni del par. 3, quando un’impresa di uno Stato Contraente svolge attività nell’altro Stato Contraente per mezzo di una stabile organizzazione ivi situata, in ciascuno Stato Contraente vanno attribuiti a detta stabile organizzazione gli utili che si ritiene sarebbero stati da essa conseguiti se si fosse trattato di un’impresa distinta e separata svolgente attività identiche o analoghe in condizioni identiche o analoghe in piena indipendenza dall’impresa di cui essa costituisce stabile organizzazione.
Nella determinazione degli utili della stabile organizzazione, sono ammesse in deduzione le spese sostenute per gli scopi perseguiti dalla stabile organizzazione – comprese le spese di direzione e le spese generali di amministrazione – sia nello Stato in cui è situata la stabile organizzazione, sia altrove.
Qualora uno degli Stati Contraenti segua la prassi di determinare gli utili da attribuire ad una stabile organizzazione in base al riparto dell’entrata lorda dell’impresa fra le diverse parti di essa, la disposizione del par. 2 non impedisce a detto Stato Contraente di determinare gli utili imponibili secondo la ripartizione in uso; tuttavia il metodo di riparto adottato dovrà essere tale che il risultato sia conforme ai principi contenuti nel presente articolo.
Nessun utile può essere attribuito ad una stabile organizzazione a motivo del semplice acquisto da detta stabile organizzazione di beni o merci per l’impresa.
Ai fini dei precedenti paragrafi, i profitti da attribuire alla stabile organizzazione vengono determinati secondo lo stesso metodo anno per anno, a meno che non vi sia un valido e sufficiente motivo di fare diversamente.
Quando gli utili comprendono elementi di reddito considerati separatamente in altri articoli della presente Convenzione, le disposizioni di tali articoli non vengono modificate dalle disposizioni del presente articolo.”
Il Commentario OCSE precisa che:
* Il principio stabilito al paragrafo 2 è soggetto alle disposizioni contenute nel paragrafo 3, in particolare per ciò che riguarda il trattamento di pagamenti a titolo di royalties, interessi ecc., pertanto possono essere addebitati costi per tali voci qualora e solo nel caso in cui l’impresa abbia sostenuto costi per tali servizi.
* Possono sorgere difficoltà per la determinazione del prezzo di trasferimento nel caso di merci prodotte interamente in proprio dall’impresa, le quali siano nella loro totalità vendute tramite la stabile organizzazione; in questo caso, se non vi è un prezzo di mercato comparabile, può essere necessario calcolare gli utili della stabile organizzazione con altri metodi, per esempio applicando un rapporto medio degli utili lordi al giro d’affari della stabile organizzazione e poi deducendo dalla cifra così ottenuta l’appropriato importo delle spese sostenute.
* Alcuni Stati considerano realizzati utili anche nel caso di trasferimento da e verso la stabile organizzazione di attività diverse da prodotto commerciale. L’art. 7 consente di tassare tale trasferimento.
* La ripartizione delle spese generali va effettuata con criteri proporzionali, indipendentemente dall’effettivo rimborso di tal spese da parte della stabile organizzazione.
* Non sono deducibili pagamenti per interessi e royalties relativi a fondi ricevuti o diritti brevettuali concessi dalla casa madre alla stabile organizzazione, salvo eccezione a tale principio nel caso in cui si tratti di operazioni strettamente correlate con l’attività ordinaria dell’impresa (ad esempio nel caso di trasferimenti di denaro tra diverse succursali di una banca).
* Gli interessi vanno imputati alla stabile organizzazione con il metodo proporzionale.
* Nel caso della prestazione di servizi ausiliari dalla S.O. alla casa madre, non possono essere addebitate commissioni, vale a dire ricarichi di profitto.
* Non può tenersi conto di alcuna cifra figurativa per “utili di direzione”.
La disciplina italiana prescrive all’art. 14, c. 5, del DPR 600/73 che le imprese, enti e società che esercitano attività commerciali all’estero mediante stabile organizzazione e quelli non residenti che tramite stabile organizzazione esercitano attività commerciali in Italia, debbano rilevare nella contabilità distintamente i fatti di gestione che interessano le stabili organizzazioni, determinando separatamente i risultati dell’esercizio relativi a ciascuna di esse.
L’art. 113, c. 1, TUIR, precisa che le società e gli enti non residenti determinano il reddito complessivo secondo le disposizioni del capo II, sulla base di un apposito conto dei profitti e delle perdite, relativo alla gestione delle stabili organizzazioni e alle altre attività produttive di redditi imponibili in Italia.
E’ regola indiscussa che la determinazione del reddito prodotto all’estero tramite stabile organizzazione di soggetti residenti e da escludere dalla tassazione territoriale, così come quella del reddito prodotto in Italia dalla stabile organizzazione di un soggetto non residente, soggetto alla tassazione personale, deve avvenire secondo le norme nazionali, con soggezione agli obblighi contabili, sia per l’impresa residente che per l’impresa non residente, che di norma vengono adempiuti mediante una contabilità sezionale.
La norma interna non contiene alcun esplicito riferimento al metodo applicabile per la determinazione del reddito della stabile organizzazione.
Secondo l’amministrazione finanziaria, i rapporti tra casa madre e stabile organizzazione sarebbero regolate dalle c.d. norme sul transfer pricing, in base ad un’interpretazione sostanzialista dell’art art. 76, c.5, del TUIR, che attribuisce rilevanza decisiva all’autonomia fiscale della stabile organizzazione rispetto alla casa madre
L’amministrazione finanziaria, tuttavia, in diverse occasioni si è pronunziata sull’opportunità di temperare la fictio juris dell’indipendenza della stabile organizzazione.
In linea generale per le c.d. transazioni invisibili, ossia quelle che hanno per oggetto prestazioni di servizi o rapporti di finanziamento, la posizione espressa dall’amministrazione finanziaria è stata nel senso di non ammettere un margine di utile per i servizi resi dalla capogruppo nella sua qualità di azionista, salvo che si tratti di servizi oggetto di un’attività economica rivolta anche ai terzi
L’amministrazione finanziaria italiana ha riconosciuto la validità del principio convenzionale per cui non possono essere imputati utili alla stabile organizzazione per il semplice acquisto di beni
La rilevanza, infine, delle differenze di cambio nei rapporti finanziari tra casa madre e stabile organizzazione è espressamente esclusa dell’art. 76, comma 2, del TUIR.
In conclusione si può ritenere che la finzione dell’indipendenza della stabile organizzazione e pertanto l’applicabilità del principio del dealing at arm’s lenght sia limitata alle transazioni commerciali tipiche e normali dell’impresa.
Al di fuori di questi casi l’identità soggettiva tra l’impresa e la stabile organizzazione dovrebbe escludere la possibilità di valorizzare ipotetici rapporti di scambio.
Ad esempio, qualora un’immobile venga utilizzato come sede della stabile organizzazione, l’applicazione rigida del principio del dealing at arm’s lenght dovrebbe portare all’addebito di un corrispettivo per la locazione. Al contrario, poiché non è possibile ipotizzare alcun rapporto di locazione tra la casa madre e la stabile organizzazione, quest’ultima dovrà imputare direttamente al proprio bilancio l’ammortamento e le spese di gestione dell’immobile.
Si segnala che anche per transazioni commerciali in senso stretto, l’amministrazione finanziaria ha ammesso la possibilità che tra imprese collegate siano effettuate ripartizioni degli utili globali sulla base di percentuali fisse attribuibili ai due diverso stadi di produzione o commercializzazione .
Nello stesso alveo si pone il problema dell’applicazione del principio del dealing at arm’s lenght ai trasferimenti di beni strumentali tra casa madre e stabile organizzazione e viceversa.
In Germania, il primo orientamento dell’amministrazione finanziaria, contenuto nelle EStR del 1984 era nel senso di considerare tassabili le differenze tra il valore contabile e il valore corrente degli assets trasferiti ad una stabile organizzazione estera, conformemente ad alcune decisioni dei giudici tributari, pur in assenza di un’espressa previsione normativa.
Successivamente, con le EStR del 1990, è stata ammessa la possibilità di considerare la differenza di valore come costo ammortizzabile per la stabile organizzazione e di imputare corrispondentemente all’ammortamento la plusvalenza alla casa madre, ma solo nel caso di stabile organizzazione situata in paesi con trattato.
Nell’ordinamento italiano, la tassazione del trasferimento degli assets da e verso una stabile organizzazione all’estero potrebbe trovare fondamento normativo solo qualora si ritenesse che tale operazione configurasse una destinazione dei beni a finalità estranee a quelle dell’impresa ai sensi dell’art. 54, comma 1, lett, d).
In considerazione della identità soggettiva tra impresa e stabile organizzazione estera, della piena imponibilità in Italia dei redditi da questa prodotti e dell’assenza di norme che consentano di considerare, per le stabile organizzazione, quale valore fiscalmente riconosciuto dei beni un valore diverso dal costo di acquisto, si propende per l’irrilevanza reddituale di tali operazioni.
L’estensione della nozione di reddito d’impresa
Secondo l’impostazione del Modello OCSE, il diritto all’imposizione da parte dello Stato in cui si trova la stabile organizzazione non si estende agli utili che l’impresa possa ricavare nello stesso Stato da fonti diverse dalla stabile organizzazione. Il test della stabile organizzazione, pertanto, non viene applicato all’impresa nel suo complesso, ma alle fonti dei suoi utili..
Per utili dell’impresa si intendono i redditi industriali e commerciali, che non appartengono a categorie speciali trattate da altri articoli del Modello, quali i dividendi, gli interessi, le royalties.
Tali redditi vengono tassati come profitti industriali o commerciali solo qualora la loro fonte si colleghi effettivamente alla stabile organizzazione.
Riguardo alla natura di royalties o di componenti di reddito d’impresa dei compensi pagati per l’utilizzo di software, si è recentemente pronunciata l’amministrazione finanziaria, che ha recepito le indicazioni del Commentario al modello OCSE secondo le quali che se l’acquisto del software è finalizzato al puro utilizzo personale e commerciale, prescindendo da qualsiasi forma di riproduzione e di commercializzazione del software stesso, il corrispettivo pagato sarà configurabile come reddito di impresa o di lavoro autonomo – a seconda della natura del percipiente – e non come royalty
LA TASSAZIONE DEI REDDITI PRODOTTI ALL’ESTERO DA SOCIETA’ FIGLIE
Qualora l’attività produttiva o commerciale all’estero venga svolta attraverso una società figlia, il riferimento del sistema impositivo cessa di essere quello della produzione all’estero di reddito d’impresa per divenire quello della percezione di dividendi di fonte estera.
Ne consegue che il reddito della società figlia è reddito estero a tutti gli effetti, viene determinato con le regolo del Paese della fonte, è assoggettato esclusivamente agli obblighi contabili di tale Paese e rileva nell’ordinamento italiano solo in quanto sia distribuito sotto forma di dividendo.
La percezione in Italia di dividendi di fonte estera comporta un problema di doppia imposizione economica, dovuto al concorrere del prelievo sull’utile d’impresa della società figlia, operato dal Paese della fonte e del prelievo sul dividendo percepito dalla madre, sul quale il Paese della fonte di norma applica una ritenuta e che il Paese della residenza assoggetta invece all’imposta sul reddito.
La doppia imposizione economica viene attenuata dalle misure interne che prevedono, nel Paese della residenza, l’esclusione parziale o totale dalla base imponibile della madre dei dividendi di fonte estera, ovvero dalle norme pattizie che regolano il riconoscimento di un credito d’imposta per i dividendi di fonte estera.
Esempi del primo caso sono l’art. 96 e 96 bis del Tuir:
Art. 96 – Dividendi esteri
[1] Gli utili distribuiti da società collegate ai sensi dell’articolo 2359 del Codice civile non residenti nel territorio dello Stato concorrono a formare il reddito per il 40 per cento del loro ammontare. Tuttavia, la parte di detti utili che non concorre a formare il reddito rileva agli effetti della determinazione dell’ammontare delle imposte di cui al comma 4 dell’articolo 105, secondo i criteri previsti per i proventi di cui al numero 1 di tale comma. Le minusvalenze e gli altri componenti negativi di reddito derivanti dalle partecipazioni nelle società indicate nel periodo precedente sono deducibili limitatamente, per ciascun periodo di imposta, all’ammontare che eccede quello dei relativi utili non concorrenti a formare il reddito ai sensi del presente comma.
[1-bis] La disposizione di cui al comma 1 non si applica agli utili distribuiti da società collegate residenti in Paesi non appartenenti alla Comunità economica europea aventi un regime fiscale privilegiato individuati con i decreti del Ministro delle finanze, di cui al comma 7-bis dell’articolo 76.
[1-ter] Nel caso in cui abbia trovato applicazione l’articolo 76, comma 7-bis, gli utili distribuiti non concorrono a formare il reddito per l’ammontare corrispondente alle spese e agli altri componenti negativi non ammessi in deduzione.
Art. 96-bis – Dividendi distribuiti da società non residenti
[1] Gli utili distribuiti, in occasione diversa dalla liquidazione, da società non residenti aventi i requisiti di cui al comma successivo, se la partecipazione diretta nel loro capitale è non inferiore al 25 per cento ed è detenuta ininterrottamente per almeno un anno, non concorrono alla formazione del reddito della società o dell’ente ricevente per il 95 per cento del loro ammontare e, tuttavia, detto importo rileva agli effetti della determinazione dell’ammontare delle imposte di cui al comma 4 dell’articolo 105, secondo i criteri previsti per i proventi di cui al numero 1 di tale comma.
[2] La disposizione di cui al comma 1 si applica se la società non residente:
a) riveste una delle forme previste nell’allegato alla direttiva n. 435/90/CEE del Consiglio del 23-7-1990;
b) risiede, ai fini fiscali, in uno Stato membro della Comunità europea;
c) è soggetta nello Stato di residenza senza possibilità di fruire di regimi di opzione o di esonero che non siano territorialmente o temporalmente limitati ad una delle seguenti imposte:
impt des sociè tè s/vennootschapsbelasting in Belgio;
selskabsskat in Danimarca;
Korperschaftsteuer in Germania;
(omissis) in Grecia;
impuesto sobre socidades in Spagna;
impt sur les sociè tè s in Francia;
corporation tax in Irlanda;
impt sur le revenu des collectivitè s nel Lussemburgo;
vennootschapsbelasting nei Paesi Bassi;
imposto sobre o rendimento das pessoas colectivas in Portogallo;
corporation tax nel Regno Unito,
o a qualsiasi altra imposta che venga a sostituire una delle imposte sopraindicate.
[2-bis] A seguito dell’ingresso di nuovi Stati nella Comunità europea, con decreto del Ministro delle finanze è integrato l’elenco delle imposte di cui alla lett. c) del coma 2.
[2-ter] Le disposizioni del comma 1 possono essere applicate anche per le partecipazioni in società, residenti in Stati non appartenenti all’Unione europea, soggette ad un regime di tassazione non privilegiato in ragione dell’esistenza di un livello di tassazione analogo a quello applicato in Italia nonché di un adeguato scambio di informazioni, da individuare con decreti del Ministro delle finanze da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale. Con i medesimi decreti possono essere individuate modalità e condizioni per l’applicazione del presente comma.
[3] (Comma abrogato).
[4] (Comma abrogato).
[5] Ai fini degli articoli 61 e 66, le minusvalenze non sono deducibili per la quota eventualmente determinatasi per effetto della distribuzione degli utili che non concorrono a formare il reddito ai sensi del presente articolo.
[6] Ai fini dell’applicazione del comma 1 dell’art. 113 le disposizioni di cui ai commi precedenti sono applicabili solo alle stabili organizzazioni nel territorio dello Stato di società ed enti commerciali aventi i requisiti indicati nel comma 2.
[7] (Comma abrogato).
La tassazione limitata dei dividendi provenienti da società controllate o collegate attenua la doppia imposizione economica su tali redditi Tale effetto è però attenuato nel caso prelievo mediante ritenuta sul dividendo nel Paese della fonte, considerato l’orientamento dell’amministrazione finanziaria di ritenere scomputabile il credito per tale imposta assolta all’estero limitatamente alla quota secondo la quale è imponibile il dividendo estero
L’effetto sulla doppia imposizione, inoltre, non si produce nel caso di dividendi percepiti da soggetti diversi da quelli a cui si applicano gli articoli 96 e 96-bis.
Quasi tutti i Paesi riconoscono ai propri residenti un credito d’imposta sui dividendi di fonte domestica, volto a correggere il fenomeno della doppia imposizione economica.
In Italia tale credito è previsto dall’art. 14 del Tuir:
[1] Se alla formazione del reddito complessivo concorrono utili distribuiti in qualsiasi forma e sotto qualsiasi denominazione dalle società o dagli enti indicati alle lettere a) e b) del comma 1 dell’articolo 87, al contribuente e’ attribuito un credito d’imposta pari al 56,25 per cento, per le distribuzioni deliberate a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 1° gennaio 2001 e al 53,85 per cento, per le distribuzioni deliberate a decorrere dal periodo d’imposta successivo a quello in corso al 1° gennaio 2003, dell’ammontare degli utili stessi nei limiti in cui esso trova copertura nell’ammontare delle imposte di cui alle lettere a) e b) del comma 1 dell’articolo 105.
[1-bis] (omissis)
[2] Nel caso di distribuzione di utili in natura il credito d’imposta e’ determinato in relazione al valore normale degli stessi alla data in cui gli utili sono stati posti in pagamento.
[3] Relativamente agli utili percepiti dalle società, associazioni e imprese indicate nell’art. 5, il credito d’imposta spetta ai singoli soci, associati o partecipanti nella proporzione ivi stabilita.
[4] Ai soli fini della applicazione dell’imposta, l’ammontare del credito di imposta e’ computato in aumento del reddito complessivo.
[5] La detrazione del credito d’imposta deve essere richiesta, a pena di decadenza, nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta in cui gli utili sono stati percepiti e non spetta in caso di omessa presentazione della dichiarazione o di omessa indicazione degli utili nella dichiarazione presentata. Se nella dichiarazione e’ stato omesso soltanto il computo del credito di imposta in aumento del reddito complessivo, l’Ufficio delle imposte può procedere alla correzione anche in sede di liquidazione dell’imposta dovuta in base alla dichiarazione dei redditi.
[6] Il credito d’imposta spetta anche quando gli utili percepiti sono tassati separatamente ai sensi dell’ art. 16; in questo caso il suo ammontare e’ computato in aumento degli utili e si detrae dalla relativa imposta determinata a norma dell’art. 18.
[6-bis] Il credito d’imposta di cui ai commi precedenti non spetta, limitatamente agli utili, la cui distribuzione e’ stata deliberata anteriormente alla data di acquisto, ai soggetti che acquistano dai fondi comuni di investimento di cui alla legge 23-3-1983, n. 77, e successive modificazioni, o dalla società di investimento a capitale variabile (SICAV), di cui al decreto legislativo 25-1-1992, n. 84<6>, azioni o quote di partecipazione nelle società o enti indicati alle lettere a) e b) del comma 1 dell’articolo 87 del presente testo unico.
[7] Le disposizioni del presente articolo non si applicano per le partecipazioni agli utili spettanti ai promotori, ai soci fondatori, agli amministratori e ai dipendenti della società dell’ente e per quelle spettanti in base ai contratti di associazione in partecipazione e ai contratti indicati nel primo comma dell’art. 2554 del Codice civile, ne’ per i compensi per prestazioni di lavoro corrisposti sotto forma di partecipazione agli utili; per gli utili di cui alla lettera g) del comma primo dell’art. 41.
[7-bis] Le disposizioni del presente articolo non si applicano per gli utili percepiti dall’usufruttuario allorché la costituzione o la cessione del diritto di usufrutto sono state poste in essere da soggetti non residenti, privi nel territorio dello Stato di una stabile organizzazione.
Il credito d’imposta sui dividendi compete ai soggetti residenti e ai soggetti non residenti con stabile organizzazione in Italia
In assenza di stabile organizzazione in Italia, ai soggetti non residenti non compete l’attribuzione del credito d’imposta, salvo che non sia prevista dalla convenzione contro la doppia imposizione.
E’ il caso della convenzione Italia-Regno Unito, che all’art. 24 prevede che nell’imposta estera per la quale compete il credito al soggetto residente nel Regno Unito, che controlla direttamente o indirettamente almeno il 10 per cento del potere di voto nella societa’ italiana che paga i dividendi è compresa, in aggiunta a qualsiasi imposta italiana applicata sul dividendo, l’imposta italiana dovuta dalla società controllata sugli utili con i quali sono stati pagati i dividendi stessi
IL CREDITO D’IMPOSTA PER I REDDITI PRODOTTI ALL’ESTERO
La doppia imposizione economica che colpisce i dividendi non si verifica per i redditi delle stabili organizzazioni all’estero, per i quali funziona il meccanismo del credito d’imposta previsto dalle convenzioni contro la doppia imposizione (cfr art. 23B Modello OCSE) e dalla normativa interna (art. 15 Tuir):
[1] Se alla formazione del reddito complessivo concorrono redditi prodotti all’estero, le imposte ivi pagate a titolo definitivo su tali redditi sono ammesse in detrazione dall’imposta netta fino alla concorrenza della quota d’imposta italiana corrispondente al rapporto tra i redditi prodotti all’estero e il reddito complessivo al lordo delle perdite di precedenti periodi di imposta ammesse in diminuzione.
[2] Se concorrono redditi prodotti in più Stati esteri la detrazione si applica separatamente per ciascuno Stato.
[3] La detrazione deve essere richiesta, a pena di decadenza, nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta in cui le imposte estere sono state pagate a titolo definitivo. Se l’imposta dovuta in Italia per il periodo d’imposta nel quale il reddito estero ha concorso a formare la base imponibile e’ stata già liquidata si procede a nuova liquidazione tenendo conto anche dell’eventuale maggior reddito estero e la detrazione si opera dall’imposta dovuta per il periodo d’imposta cui si riferisce la dichiarazione nella quale e’ stata chiesta. Se e’ già decorso il termine per l’accertamento la detrazione e’ limitata alla quota dell’imposta estera proporzionale all’ammontare del reddito prodotto all’estero acquisito a tassazione in Italia.
[4] La detrazione non spetta in caso di omessa presentazione della dichiarazione o di omessa indicazione dei redditi prodotti all’estero nella dichiarazione presentata.
[5] Per le imposte pagate all’estero dalle società, associazioni e imprese indicate nell’ art. 5, la detrazione spetta ai singoli soci, associati o partecipanti nella proporzione ivi stabilita.
Numerosi Paesi applicano al trasferimento dei profitti delle stabili organizzazioni di soggetti non residenti ritenute alla fonte analoghe a quelle imposte sui dividendi pagati dalle società figlie (cd branch profit tax). L’Italia non applica alcuna ritenuta sui profitti trasferiti dalle stabili organizzazioni.
Il credito d’imposta figurativo
La tassazione nel Paese della residenza del reddito prodotto all’estero con credito d’imposta per le imposte ivi assolte, di fatto preclude al Paese della fonte l’attuazione di una politica fiscale agevolativa per gli investitori esteri, che subiscono comunque la tassazione piena ne Paese della residenza, dove il beneficio fiscale concesso dal Paese della fonte viene acquisito come maggiorazione delle imposte domestiche.
Per evitare tale fenomeno, alcune convenzioni, in particolare tra Paesi industrializzati e Paesi in Via di sviluppo riconoscono nel Paese della residenza un credito d’imposta figurativo per i redditi prodotti nell’altro Stato, indipendentemente dall’effettivo prelievo nel Paese della fonte
LA NORMATIVA CFC
L’art. 1 comma 1 lettera a) della legge 21 novembre 2000, n. 342 (collegato alla legge finanziaria 2000), concernente le disposizioni in materia di redditi di imprese estere partecipate e di applicazione dell’imposta ai non residenti finalizzate al contrasto dell’evasione e dell’elusione, ha introdotto nell’ambito del testo unico un nuovo articolo 127-bis, secondo il quale sono tassati in Italia <<per trasparenza>> i redditi prodotti dal soggetto estero partecipato che sia localizzato in Paese a regime fiscale privilegiato.
Il regime CFC si applica nei casi di controllo diretto o indiretto di un soggetto estero appartenente a Paesi o territori a regime fiscale privilegiato.
I soggetti richiamati dalla norma in commento sono, come espresso dal comma 2, sia le persone fisiche sia i soggetti indicati agli artt. 5 e 87, comma 1, lett. a), b) e c) del TUIR e quindi, le società di persone, le società di capitali, gli enti pubblici o privati, commerciali e non commerciali. Sono pertanto esclusi dal novero di tali soggetti le società e gli enti non residenti.
Secondo il comma 3 dell’art. 127-bis, i criteri da impiegare per stabilire l’esistenza del controllo sono quelli fissati dall’articolo 2359 del codice civile, <<a nulla valendo eventuali altri criteri di determinazione del controllo eventualmente presenti nella legislazione della Stato dove è localizzata la controllata estera>> .
Nel comma 4 vengono individuati i seguenti criteri per identificare gli Stati e i territori con regime fiscale privilegiato:
1) livello di tassazione sensibilmente inferiore a quello applicato in Italia;
2) assenza di un adeguato scambio di informazioni;
3) altri criteri equivalenti.
In base ai chiarimenti ministeriali la “tassazione sensibilmente inferiore” è riscontrabile con riferimento a diverse ipotesi:
– per l’esistenza di basse aliquote d’imposta;
– per caratteristiche strutturali dei tributi che portino ad una sensibile risuzione della base imponibile.
Il comma 5 dell’art. 127-bis prevede due casi che consentono la disapplicazione della normativa CFC.
Iluello soggetto partecipato <<esercita effettivamente un’attività industriale o commerciale>> nello Stato ove ha sede.
Il soggetto residente dimostra che dalla partecipazione non consegue l’effetto di localizzare i redditi in Stati o territori al fine di usufruire dei trattamenti fiscali privilegiati individuati con i criteri di cui al comma 4. Come indica la circolare 207/E, ciò può accadere quando il soggetto estero partecipato riceva utili da una stabile organizzazione o da altro soggetto i cui redditi non sono stati sottoposti ad alcun regime fiscale privilegiato.
Per applicare una delle due “esimenti” il contribuente deve esercitare il c.d. interpello, seguendo la procedura prevista dall’articolo 11 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente).
I commi 6 e 7 dell’art, 127-bis sono rivolti all’eliminazione della doppia imposizione:
Gli utili distribuiti, in qualsiasi forma, dai soggetti non residenti di cui al comma 1 non concorrono alla formazione del reddito dei soggetti residenti fino all’ammontare del reddito assoggettato a tassazione, secondo le disposizioni del comma 1, anche negli esercizi precedenti.
Al momento della tassazione degli utili distribuiti dai soggetti esteri ed attribuiti al soggetto italiano, sono ammesse in detrazione le imposte pagate all’estero, in via definitiva, sugli stessi redditi dal soggetto estero controllato, secondo quanto previsto dall’articolo 15 del TUIR.
I redditi del soggetto non residente, imputati ai sensi del comma 1, sono assoggettati a tassazione separata con l’aliquota media applicata sul reddito complessivo del soggetto residente e, comunque, non inferiore al 27 per cento.
IL TRANSFER PRICING
Rispetto alle componenti del reddito d’impresa che derivano da rapporti internazionali, la disciplina di maggior rilevo è quella del c,d, transfer pricing dettata dall’art. 76, comma 5, del Tuir, secondo il quale:
“I componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato che, direttamente o indirettamente, controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti, dei servizi prestati o dei beni e servizi ricevuti, determinato a norma del secondo comma se ne deriva aumento del reddito; la stessa disposizione si applica anche se ne deriva una diminuzione del reddito, ma soltanto in esecuzione degli accordi conclusi con le Autorità competenti degli Stati esteri a seguito delle speciali <<procedure amichevoli>> previste dalle Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni sui redditi. La disposizione si applica anche per i beni ceduti e i servizi prestati da società non residenti nel territorio dello Stato per conto delle quali l’impresa esplica attività di vendita e collocamento di materie prime o merci o di fabbricazione o lavorazione di prodotti.”
Il transfer pricing è un procedimento dovuto all’esigenza di intervenire sulla determinazione dei prezzi di trasferimento all’interno dei gruppi, in quanto diverse imprese appartenenti al medesimo gruppo e residenti in Paesi differenti possono trasferire reddito imponibile da un paese all’altro influendo sui corrispettivi delle cessioni di beni o delle prestazioni di servizi.
La normativa sul transfer pricing ha per oggetto la rettifica delle transazioni operate tra soggetti residenti in Paesi diversi, tra i quali esistano rapporti definibili come di controllo. La rettifica avviene mediante l’applicazione del valore normale in luogo del corrispettivo praticato.
L’elemento oggettivo della normativa riguardante il transfer pricing è rappresentato dalla divergenza tra il prezzo praticato e il c.d. valore normale della transazione, inteso come prezzo che sarebbe stato praticato nel caso in cui la transazione fosse intercorsa tra soggetti indipendenti.
La circolare 32/1980 definisce il concetto di valore normale in base alla legislazione interna (art. 9 del TUIR), identificando i criteri che possono essere utilizzati per determinare il “prezzo di libera concorrenza” e che sono, in sintesi:
Il criterio del confronto del prezzo di transazioni comparabili.
Il metodo del prezzo di rivendita, dal quale detrarre un margine normale di profitto.
Il metodo del costo maggiorato.
I metodi alternativi (la ripartizione dei profitti globali, la comparazione dei profitti, la redditività del capitale investito, i margini lordi del settore economico).
La prassi ministeriale illustra quindi l’applicazione di tali tipi di criteri ai diversi tipi di transazione effettuabili all’interno del gruppo (cessioni di beni Materiali, cessioni di beni immateriali, interessi, servizi, accordi per la ripartizione di costi).
Il valore normale.
Nell’ordinamento fiscale italiano il concetto di valore normale è definito, ai fini dell’imposizione diretta dall’art. 9 comma 3 del TUIR: secondo il quale “Per valore normale si intende il prezzo o corrispettivo mediamente praticato per beni e servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i beni o servizi sono stati acquisiti o prestati e in mancanza nel tempo e nel luogo più prossimi. Per la determinazione del valore normale si fa riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi e, in mancanza, alle mercuriali e ai listini delle Camere di commercio e alle tariffe professionali, tenendo conto degli sconti d’uso. Per i beni e i servizi soggetti a disciplina dei prezzi si fa riferimento ai provvedimenti in vigore.”
Il concetto di valore normale così definito richiama la nozione di “prezzo di libera concorrenza” consigliato dall’OCSE per la determinazione del prezzo di trasferimento, ossia del prezzo che sarebbe stato pattuito per transazioni similari da imprese indipendenti.
Il prezzo di libera concorrenza – L’applicazione di tale principio, secondo le istruzioni ministeriali, comporta l’adozione, in via preferenziale, del metodo del confronto di prezzo: “il prezzo del costo o del ricavo della transazione oggetto di verifica deve essere pari a quello praticato in una vendita comparabile, quanto a condizioni e a beni oggetto del trasferimento, effettuata:
i) tra imprese tra loro indipendenti (confronto esterno) oppure
ii) tra un impresa del gruppo e un terzo indipendente (confronto interno).”
Qualora non sia possibile una comparazione si farà ricorso al c.d. metodo del prezzo di rivendita, dal quale detrarre un margine normale di profitto.
La circolare ministeriale illustra al riguardo alcuni esempi:
“una società estera X vende alcuni beni alla sua affiliata italiana Y.
Y non trasforma i beni acquistati e li rivende a terzi al prezzo di 100.
Il valore normale della cessione dei beni venduti da X a Y sarà calcolato deducendo da tale prezzo di rivendita (100) le spese di distribuzione sostenute (es.: = 10) e una percentuale adeguata a titolo di margine profitto (es.: = 5).”
In caso di inapplicabilità del metodo del prezzo di rivendita sarà invece applicato quello del costo maggiorato (cost-plus): al costo di produzione si aggiunge un margine normale di profitto.
“Esempio: una società estera X vende alcuni beni alla sua affiliata italiana Y.
Y trasforma in parte i beni acquistati e li rivende a terzi.
Il valore normale della cessione dei beni venduti da X a Y sarà calcolato considerando il costo di produzione del bene per il venditore inclusivo dei costi diretti e indiretti e delle spese (es.: = 80) e aggiungendovi una percentuale adeguata a titolo di margine di utile (es.: = 5).”
Il valore in dogana – Secondo il ministero “Il problema della determinazione del prezzo di trasferimento relativo alle cessioni di beni e alle prestazioni di servizi tra imprese legate da vincoli di dipendenza ai fini della determinazione del reddito, è , per taluni aspetti, molto simile a quello che si pone alla Amministrazione doganale nell’ambito di applicazione della definizione del valore in dogana di cui al regolamento del consiglio CEE 28-5-1980, n. 1224.
Sebbene anche per la determinazione del valore in dogana sia applicabile il principio della libera concorrenza, l’Amministrazione doganale e quella delle imposte dirette pervengono, però , sovente, a conclusioni diverse relativamente al valore dello stesso bene.
Ciò , prevalentemente, in dipendenza del differente momento impositivo, in quanto l’Amministrazione delle dogane valuta le merci all’atto della loro importazione mentre la Amministrazione delle imposte dirette considera il valore del bene all’atto del suo trasferimento in proprietà .
Quanto precede non esclude, ovviamente, che la Amministrazione delle imposte dirette, pur non essendovi vincolata, tenga conto del valore definito agli effetti doganali per valutare il prezzo di trasferimento”.
Nell’applicazione della disciplina sul transfer pricing, il procedimento indicato dall’amministrazione finanziaria prevede che debbano esaminarsi:
a) le modalità di applicazione del metodo del confronto di prezzo;
b) i casi e le condizioni in cui l’Amministrazione e/o il contribuente possono discostarsi dal metodo del confronto di prezzo per applicare metodi alternativi;
c) le modalità di applicazione dei metodi del prezzo di rivendita e il cost-plus;
d) quale dei due metodi alternativi deve essere prescelto, e a quali condizioni e in quali circostanze;
quali eventuali ulteriori metodi alternativi possono essere applicati.
.
Profilo soggettivo del transfer pricing.
La norma sul transfer pricing si applica alle transazioni di cui sia parte da un lato ad una “società estera”, (che secondo le indicazioni della circolare 32/1980 è nozione che comprende le stabili organizzazioni), dall’altro lato un’impresa residente.
Tra i due soggetti deve esistere un rapporto definito come di “controllo”, che non si riferisce esclusivamente al concetto civilistico (art. 2359 c.c), ma va interpretato in senso economico.
Rientrano infine nell’ambito di applicazione della norma le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate da società non residenti nel territorio dello Stato a un’impresa residente che esplica attività di vendita e collocamento di materie prime o merci o di fabbricazione o lavorazione di prodotti per conto della cedente.
Il principio della rettifica dei prezzi di trasferimento intragruppo è contenuto anche nella prassi delle convenzioni contro la doppia imposizione, per le quali il modello OCSE prevede, all’art. 9, che “allorché due imprese (associate) nelle loro relazioni commerciali o finanziarie sono vincolate da condizioni accettate o imposte diverse da quelle che sarebbero state convenute da imprese indipendenti, gli utili che in mancanza di tali condizioni sarebbero stati realizzati da una delle imprese, ma che a causa di dette condizioni non lo sono stati, possono essere inclusi negli utili di questa impresa e tassati di conseguenza”.
L’attuale normativa italiana sul transfer pricing è il risultato dell’affinamento di regole che derivano dalle previsioni del DPR 597/73.
L’art. 53, comma 5 lett. b), del DPR 597/73 prevedeva che costituisse ricavo la differenza tra il valore normale dei beni o servizi e i corrispettivi delle cessioni o prestazioni effettuate a società non residenti nel territorio dello Stato che controllassero direttamente o indirettamente l’impresa o che fossero controllate dalla stessa società che controllava l’impresa.
Per i costi, l’art. 56, comma 2, del DPR 597/73 prevedeva che i costi delle cessioni di beni o prestazioni di servizi ricevute da società non residenti nel territorio dello Stato che controllassero direttamente o indirettamente l’impresa o che fossero controllate dalla stessa società che controllava l’impresa rilevassero solo per la parte che non eccedeva il c.d. valore normale.
Le ipotesi considerate riguardavano il caso di società italiane “figlie” o “sorelle” di società residenti all’estero. Restava invece esclusa dalla disciplina del transfer pricing l’ipotesi della società italiana controllante una società estera. Ciò causava dubbi sia sull’efficacia della disposizione, sia sulla sua legittimità costituzionale.
Con il DPR 987/80 le regole sulla rettifica dei ricavi e dei costi furono unificate nel nuovo art. 75 del DPR 597/73, che dispose che i componenti del reddito d’impresa derivanti da operazioni con soggetti residenti dovevano essere valutate al valore normale in tutti i casi in cui esistesse un’influenza dominante tra le parti della transazione.
Con il TUIR il concetto di influenza dominante venne abbandonato per essere sostituito da quello di “controllo”.
Per la definizione del presupposto soggettivo, secondo l’interpretazione ministeriale, il concetto di “società“ al quale fa riferimento il legislatore nell’indicare il soggetto estero controllante deve essere interpretato estensivamente comprendendo “ogni sorta di organismi societari giuridicamente riconosciuti nello Stato estero anche se difettano del requisito della plurisoggettività , quali i c.d. Gruppi di interesse economico, i “trust” e i vari tipi di “fondazioni (“Stiftung”, “Anstalten”, ecc.).
Tra i soggetti esteri, secondo l’amministrazione finanziaria, debbono comprendersi anche le stabili organizzazioni, non localizzate in Italia, di società estere, considerato che la stabile organizzazione non localizzata in Italia di una Società estera è sprovvista di autonomia giuridica distinta dalla casa-madre.
Anche il concetto di impresa residente viene interpretato estensivamente, comprendendo, oltre che i vari tipi di società di capitali e di persone, anche le imprese individuali e le stabili organizzazioni di società estere operanti in Italia e ciò indipendentemente dal fatto che il requisito del “controllo” possa indurre a far riferimento ai soggetti di cui all’art. 2359 c.c., in quanto la nozione di “controllo” viene interpretata in termini economici più che strettamente giuridici.
Secondo il pensiero ministeriale, “Una impostazione civilistica del concetto di controllo, oltre che sottrarre alla disciplina del prezzo di trasferimento transazioni spesso praticate nel commercio internazionale, risentirebbe, inoltre, negativamente, della stessa disciplina deficitaria dell’art. 2359 Codice civile: l’ipotesi di controllo prevista al n. 1 dello stesso articolo (possesso di azioni sufficienti a disporre della maggioranza), ad esempio, è estremamente mutevole potendo variare da assemblea ad assemblea il numero delle azioni necessarie per conseguire la maggioranza.”
“In relazione ai fini perseguiti dal legislatore fiscale – che ben divergono da quelli del legislatore civilistico – il controllo di cui trattasi deve essere contrassegnato da esigenze di elasticità e trovare collocazione in un contesto economico-dinamico, tenendo presente, cioè , che le variazioni di prezzo nelle transazioni commerciali trovano spesso il loro presupposto fondamentale nel potere di una parte di incidere sull’altrui volontà non in base al meccanismo del mercato ma in dipendenza degli interessi di una sola delle parti contraenti o di un gruppo. E le risultanze emergenti dalla pratica comprovano sufficientemente come il criterio di collegamento che determina l’alterazione dei prezzi di trasferimento è costituito, spesso, dalla influenza di un’impresa sulle decisioni imprenditoriali dell’altra che va ben oltre i vincoli contrattuali od azionari sconfinando in considerazioni di fatto di carattere meramente economico.”
Secondo l’amministrazione, pertanto, “il concetto di <<controllo>> deve essere esteso ad ogni ipotesi di influenza economica potenziale o attuale desumibile dalle singole circostanze, quali, in particolare:
a) vendita esclusiva di prodotti fabbricati dall’altra impresa;
b) impossibilità di funzionamento dell’impresa senza il capitale, i prodotti e la cooperazione tecnica della altra impresa (fattispecie comprensiva delle joint ventures);
c) diritto di nomina dei membri del consiglio di amministrazione o degli organi direttivi della società ;
d) membri comuni del consiglio di amministrazione;
e) relazioni di famiglia tra le parti;
f) concessione di ingenti crediti o prevalente dipendenza finanziaria;
g) partecipazione da parte delle imprese a centrali di approvvigionamento o vendita;
h) partecipazione delle imprese a cartelli o consorzi, in particolare se finalizzati alla fissazione di prezzi;
i) controllo di approvvigionamento o di sbocchi;
l) serie di contratti che modellino una situazione monopolistica;
m) in generale tutte le ipotesi in cui venga esercitata potenzialmente o attualmente un’influenza sulle decisioni imprenditoriali.”
Secondo il pensiero ministeriale potrà aversi controllo:
“nel caso di una società italiana legata a contratto con una società straniera che fissa il prezzo di acquisto e di rivendita praticato dalla prima e che, oltre a rendere conto delle sue operazioni commerciali, è tenuta a versare considerevoli diritti di licenza alla società straniera titolare del marchio;
nell’ipotesi di due società , una italiana e una estera con identica ragione sociale, aventi per oggetto la fabbricazione di prodotti della medesima natura, che utilizzano i medesimi agenti e che si dividono gli ordini raccolti dai rappresentanti.”
“In ogni caso la posizione dell’impresa controllante deve essere caratterizzata da elementi di stabilità che rendano il vincolo abbastanza forte da escludere un controllo fortuito o molto limitato nel tempo.”
La giurisprudenza tributaria ha invece dato una lettura più restrittive dei requisiti soggettivi per ‘applicazione delle norme sul transfer pricing
Transfer pricing e procedure amichevoli.
Il comma 5 dell’art. 76 è stato integrato dall’art. 1 del DPR 42/1988 secondo il quale la rettifica dei prezzi di trasferimento si applica anche quando ne deriva una diminuzione del reddito causata dall’esecuzione di accordi stipulati con Stati esteri in relazione alle c.d. procedure amichevoli previste dalla convenzioni contro la doppia imposizione.
Va inoltre ricordato che con la L. 99/1993 è stata ratificata la convenzione di Bruxelles del 23/7/1990 sulla eliminazione delle doppie imposizioni in caso di rettifica degli utili delle impresa associate, che
prevede tanto una procedura di collaborazione tra gli Stati per definire la corretta determinazione dei prezzi di trasferimento, quanto l’obbligo di riconoscere a fronte di una rettifica dei prezzi di trasferimento che determina per una delle parti un aumento del reddito imponibile la corrispondnete riduzione del reddito imponibile dell’altra parte.
OPERAZIONI CON SOGGETTI RESIDENTI IN “PARADISI FISCALI”
L’art. 76 comma 7- bis del Tuir, nella formulazione in vigore, prevede l’indeducibilità delle le spese e degli altri componenti negativi derivanti da operazioni intercorse tra imprese residenti e società domiciliate fiscalmente in Stati o territori non appartenenti alla Comunità economica europea aventi un regime fiscale privilegiato, le quali direttamente o indirettamente controllano l’impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l’impresa ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile
Questa disposizione non può essere ricondotta alla categoria del transfer pricing poiché non riguardano la rettifica del “quantum” della transazione, bensì la sua rilevanza reddituale.
Le componenti negative oggetto della norma devono derivare da “operazioni” intercorse con imprese o società residenti in c.d. paradisi fiscali, che di norma saranno riferite a:
sfruttamento di opere dell’ingegno, brevetti o altri diritti,
finanziamenti,
prestazioni di servizi.
Dovrebbe restare invece esclusa l’ipotesi della svalutazione di partecipazioni in società aventi sede in c.d. paradisi fiscali, per la quale trova applicazione la condizione di cui all’art. 61, comma 3-bis del TUIR.
La disposizione in esame deve essere peraltro interpretata considerando il principio basilare dell’”inerenza”, che regola in via generale la deducibilità di costi e spese, a norma dell’art. 75, comma 5, del TUIR.
Il comma 7-ter dell’art. 76 stabilisce i casi nei quali non opera la preclusione di cui al comma 7-bis, che sono quelli per i quali è fornita la prova che:
il soggetto estero svolge un’attività commerciale effettiva, ovvero che
le operazioni considerate rispondono a un effettivo interesse economico e hanno avuto concreta esecuzione.
Il requisito dell’effettivo interesse economico” sembra richiedere un contenuto più stringente di quello del concetto di “inerenza”,, che potrebbe legittimare l’amministrazione a sindacare sulle valutazioni commerciali dell’impresa.
I Paesi e le società cui si applicano le disposizioni in argomento sono quelli inclusi nella c.d. black list, che ha carattere tassativo
L’art. 1 comma 1 lettera b) della legge 21 novembre 2000, n. 342 ha introdotto rilevanti modifiche, che entreranno in vigore nel periodo d’imposta successivo a quello di pubblicazione della nuova “black list”, alla disciplina sopra ricordata, novellando i commi 7-bis e 7-ter dell’art. 76 del TUIR e introducendo nello stesso articolo un comma 7-quater.
La nuova formulazione del comma 7-bis prevede l’indeducibilità delle spese a tutti i rapporti commerciali posti in essere con imprese situate in Paesi e territori non appartenenti all’Unione europea aventi regimi fiscali privilegiati, a prescindere dall’esistenza di qualsiasi legame di controllo tra i soggetti in questione.
Il nuovo comma 7-ter dell’art. 76 del TUIR fornisce le regole che consentono la disapplicazione del precedente comma 7-bis, limitata ai casi in cui si fornisca la prova che le imprese estere <<svolgono principalmente un’attività industriale o commerciale effettiva nel mercato del Paese nel quale hanno sede>>.
La deduzione delle spese e degli altri componenti negativi di cui al comma 7-bis è comunque subordinata alla separata indicazione nella dichiarazione dei redditi dei relativi ammontari dedotti.
Il nuovo comma 7-quater stabilisce, infine, che il particolare regime di imposizione del reddito delle CFC previsto dall’articolo 127-bis è alternativo all’applicazione delle disposizioni contenute nei commi 7-bis e 7-ter.
Le c.d. misure anti paradisi fiscali comprendono anche la presunzione di residenza di soggetti ivi domiciliati
introdotta con il comma 2-bis dell’articolo 2 del Tuir, che per i soggetti che sono emigrati in uno degli Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato, come individuati nel precitato decreto del Ministro delle Finanze 4 maggio 1999, inverte l’onere della prova del permanere della residenza fiscale in Italia
REGIMI SPECIALI PER LE ATTIVITA’ FINANZIARIE
Lo svolgimento all’estero di attività di finanziamento e partecipazione consente di applicare ai redditi di tali attività, in particolare ai dividendi e ai capital gain su partecipazioni sociali, la disciplina tributaria del Paese della residenza, che in taluni casi presenta i vantaggi della c.d. partecipation exemption.
Il Paese della residenza può inoltre consentire di beneficiare di favorevoli trattati contro la doppia imposizione, pur con l’avvertenza che numerose convenzioni, per evitare abusi (il c.d. treaty shopping), contengono clausole che richiedono che il soggetto cui si applica il trattato sia, sia l’effettivo beneficiario dei redditi per i quali viene limitata la tassazione nel Paese della fonte (cfr. Artt. 10, 11, 12 e 21 Modello OCSE). Particolarmente attento al “treaty shopping” è il sistema fiscale statunitense che per l’applicazione delle convenzioni alle società commerciali prevede particolari “test” definiti come:
Ownership test: verifica che la società sia posseduta da persone cui si applica il trattato,
Publicly traded test: in alternativa verifica che la società è quotata in una Borsa riconosciuta,
Active business test: verifica che la società svolga un’attività effettiva nello Stato di residenza,
La disciplina olandese
La legislazione olandese consente la non imponibilità dei dividendi infragruppo e delle plusvalenze derivanti dall’alienazione di partecipazioni sociali.
Possono usufruire di tale regime di “partecipation exemption” le società residenti nei Paesi Bassi e i soggetti non residenti con stabile organizzazione in quello Stato.
I requisiti per l’applicazione della “partecipation exemption” sono:
la società holding deve possedere almeno il 5% del capitale della partecipata;
la partecipazione non deve essere detenuta con esclusiva finalità di investimento. Per escludere che la detenzione non sia ad esclusiva finalità di investimento è idoneo lo svolgimento di attività finanziaria e di coordinamento nei confronti delle controllate;
la partecipata deve avere personalità giuridica e capitale suddiviso in azioni;
la società partecipata deve essere soggetto d’imposta nel Paese di residenza, indipendentemente dall’aliquota applicata e dal fatto che il suo reddito sia effettivamente assoggettato a tassazione;
le azioni della partecipata non devono essere oggetto di commercializzazione.
Conseguentemente alla “partecipation exemption” non sono deducibili le spese di gestione e gli oneri finanziari inerenti partecipazioni in societò non residenti, né le eventuali minusvalenze da cessioni di partecipazioni in società estere.
I soggetti residenti nei Paesi Bassi beneficiano inoltre del credito d’imposta sui redditi prodotti da stabili organizzazioni all’estero, alle seguenti condizioni:
il Paese in cui si trova la stabile organizzazione assoggetti a tassazione i redditi ivi prodotti, anche se non vi è tassazione per ragioni di esenzione, di aliquota zero, di compensazione con perdite precedenti o con crediti d’imposta;
l’imposta cui è soggetta la stabile organizzazione sia un’imposta sul reddito, anche se calcolata su basi diverse dal reddito, come il fatturato;
l’imposta deve essere prelevata nel Paese nel quale è prodotto il reddito.
E’ previsto inoltre che i redditi delle attività finanziarie svolte nei confronti di società del gruppo siano detassati nella misura dell’80 per cento, mediante accantonamento in una riserva in sospensione d’imposta, che è tassabile in caso di utilizzo.
Per l’applicazione di tale regime è necessario che:
le società del gruppo siano residenti in almeno quattro Paesi o due continenti,
la partecipazione non sia inferiore al 33,33 per cento del capitale,
il reddito da attività finanziarie deve provenire per almeno il 5 per cento da ogni Paese o il 10 per cento da ogni continente,
Sono attività finanziarie cui è applicabile il regime di esenzione parziale:
la concessione di finanziamenti,
la concessione di beni in leasing,
la concessione di licenze su beni immateriali,
la prestazione di servizi amministrativi e finanziari,
la percezione di dividendi e capital gains cui non si applichi la partecipation exemption.
Le società Holding in Lussemburgo
Le società holding c.d. 1929 non sono soggette ad imposta sul reddito né a ritenute alla fonte sui dividendi distribuiti, ma ad una “tassa di abbonamento” annuale, pari allo 0,2 per cento del capitale sociale. Nel caso in cui siano distribuiti dividendi che superano il 10 per cento del capitale sociale, la tassa di abbonamento è calcolata su una base pari a 10 volte i dividendi distribuiti.
La Holding 1929 può svolgere eclusivamente attività finanziaria consistente nell’acquisizione e gestione di partecipazioni sociali, nella concessione di finanziamenti a società nelle quali detiene una partecipazione rilevante (almeno del 25per cento), nella gestione della liquidità e nel possesso di brevetti.
La Holding 1929 non può possedere diritti su beni immateriali, su immobili che non vengano utilizzati direttamente dalla società, non può svolgere attività di gestione patrimoniale per conto di terzi.
In qualità di soggetto esente la Holding 1929 non beneficia dei trattati contro la doppia imposizione. I trattati conclusi dal Lussemburgo, come quello stipulato con l’Italia il 3-6-1981 contengono infatti la c.d. clausola del domicilio fiscale) secondo la quale, ai fini della convenzione l’espressione “residente di uno Stato contraente” designa ogni persona, che, in virtù della legislazione di detto Stato, e’ assoggettata ad imposta nello stesso Stato a motivo del suo domicilio, della sua residenza, della sede della sua direzione o di ogni altro criterio di natura analoga (cfr art. 4 Modello OCSE).
Per tale motivo anche una società di diritto ordinario nella quale una Holding del 1929 detenga una partecipazione di maggioranza è considerata non beneficiare del trattato contro la doppia imposizione con gli Stati Uniti.
Le società di partecipazione finanziaria (Soparfi) sono società di diritto ordinario, normalmente tassabili, che applicano le ritenute interne o convenzionali sulla distribuzione di dividendi, che applicano il regime generale di non imponibilità dei dividendi e dei capital gain provenienti da società nelle quali è detenuta una partecipazione almeno del 25 per cento e che pertanto possono applicare le convenzioni contro la doppia imposizione.
Da segnalare che le convenzioni contro la doppia imposizione prevedono di norma che i c.d. altri redditi (tra i quali rientrano anche i capital gain su partecipazioni sociali) siano tassabili esclusivamente nel Paese della residenza (cfr art. 21 Modello OCSE).
Le ritenute sui dividendi distribuiti scontano un’aliquota domestica del 25 per cento, che può essere ridotta per effetto di trattati o non essere applicata per effetto del c.d. regime madre-figlia comunitario.
FUSIONI, SCISSIONI E SCAMBI DI ATTIVO COMUNITARI
La direttiva CEE 90/434, attuata in Italia con il Dlgs 544/92, ha dettato le regole per l’armonizzazione del regime fiscale applicabile alle operazioni di fusione, scissione, scambio di azioni e quote e conferimento di aziende, di cui siano parte soggetti residenti in diversi Paesi dell’Unione Europea, con l’obiettivo di evitare l’imposizione di tali operazioni e di mantenere la c.d. continuità dei valori fiscalmente riconosciuti.
Il Dlgs 544/92 consente di compiere operazioni di fusione e scissione di conferimento d’attivo o di scambio di azioni tra società di diversi Paesi dell’Unione europea, senza emersione di plusvalenze tassabili.
Si pone tuttavia il problema dell’applicazione a tali operazioni della norma antielusiva dell’art. 37-bis DPR 600/73, che disconosce i vantaggi tributari conseguiti mediante atti, fatti o negozi privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti e ad ottenere riduzioni o rimborsi altrimenti indebiti, in particolare nel caso in cui per effetto dell’operazione di riorganizzazione per la quale si applicasse il principio della neutralità fiscale i redditi delle attività finanziarie o di partecipazione fossero attribuiti a soggetti domiciliati in Paesi che concedono un trattamento fiscale più favorevole dell’Italia.
Il c.d. scambio di partecipazioni in particolare si rivela un importante strumento di pianificazione fiscale in quanto permetta di riorganizzare un gruppo di società, collocando la funzione di holding presso società residenti in Paesi dell’Unione Europea che godono di regimi fiscali agevolati, esenzione da tassazione dei redditi da partecipazione o delle plusvalenze azionarie, ovvero che beneficiano di trattati bilaterali favorevoli riguardo al prelievo alla fonte su redditi da partecipazione.
La Corte di giustizia Cee si è pronunziata sull’applicazione della disciplina antielusiva alle operazioni di riorganizzazioni comunitarie con la sentenza riportata al § 31.
Sempre sul regime fiscale del c.d. scambio di partecipazioni, si è pronunziata la R.M. 190/E del 13/12/2000, che affronta quesiti sulla correttezza dell’iscrizione in bilancio del valore corrente di partecipazioni ottenute per effetto di un conferimento di partecipazioni di controllo e della “ripresa” in diminuzione del plusvalore così emerso rispetto al costo fiscalmente riconosciuto delle partecipazioni conferite.
Il ministero si è pronunziato nel senso che l’art. 2, comma 5, del Dlgs 544/92 prevede la neutralità fiscale del conferimento di partecipazioni, ma non consente per tali operazioni un “doppio binario” tra valori civilistici e fiscali, come per le operazioni di fusione e scissione e di conferimento di azienda, poiché la partecipazione conferita fuoriesce dal bilancio della società italiana nonché dalla potestà impositiva dello Stato e pertanto la salvaguardia dell’interesse erariale può essere garantita solo dalla corrispondenza tra valori civilistici e fiscali. La mancata previsione di prospetti di riconciliazione o di fondi i sospensione d’imposta conferma, secondo il ministero, tale conclusione.
Le disposizioni dell’art. 5 del Dlgs 358/97 che escludono il “doppio binario” per gli scambi domestici di partecipazioni, confermano secondo il ministero in via sistematica che tale meccanismo non può essere applicato ai conferimenti intracomunitari.
La previsione della neutralità fiscale degli “scambi di azioni” solo nei casi in cui le permute o i conferimenti di azioni o quote di uno dei soggetti indicati nella lettera a) dell’art. 1 del Dlgs 544/92 siano effettuate da un soggetto di cui alla stessa lettera, ossia da una società di capitali sembra contrastare con la disciplina comunitaria, dove l’art. 8 della Direttiva prevede che l’assegnazione, in occasione di una fusione, scissione o scambio di azioni, di titoli rappresentativi del capitale sociale della società beneficiaria o acquirente ad un socio della società conferente o acquistata, in cambio di titoli rappresentativi del capitale sociale di quest’ultima società, “non deve di per se stessa comportare alcuna imposizione sul reddito, gli utili o le plusvalenze di questo socio”, a condizione che il socio non assegni ai titoli ricevuti in cambio un valore fiscale superiore a quello che i titoli scambiati avevano immediatamente prima della fusione, della scissione o dello scambio di azioni.
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