Il regime degli acquisti compiuti durante la convivenza more uxorio

Redazione 25/07/04
di Dott.ssa Carla Florio

La famiglia di fatto, o convivenza more uxorio che dir si voglia, conquista sempre più importanza sia da un punto di vista sociale che da un punto di vista quantitativo.
Essa viene intesa come una convivenza caratterizzata da connotati di stabilità e durevolezza tra un uomo e una donna che si comportano come marito e moglie, non rilevando necessariamente la presenza o meno di figli. Quindi essa altro non è se non il luogo dove si sviluppano relazioni di affetto, convivenza, sostegno economico che si modella, appunto, come nella famiglia legittima dalla quale, però, si differenzia mancando quello che è il fondamento stesso della famiglia legittima: l’atto di matrimonio.
I problemi più rilevanti di tale formazione sociale che trova una sua tutela generale anche nella Costituzione, in realtà si formano nel momento patologico, ossia nel momento della rottura di un tale tipo di rapporto. A differenza della famiglia legittima che non può sciogliersi formalmente senza l’intervento del giudice, la famiglia di fatto può cessare di esistere semplicemente per volontà di entrambi i conviventi o di uno solo di essi, e il giudice interverrà, obbligatoriamente, solo quando si dovranno assumere decisioni nell’interesse della prole.
Le difficoltà che quindi nascono nel momento patologico della rottura sono molteplici, una di queste è, in primis, costituita dalla ricerca del regime giuridico applicabile a quei beni che siano stati acquistati durante la convivenza more uxorio.
Questa problematica è stata analizzata e discussa soprattutto dalla dottrina, mentre la giurisprudenza – pur avendola in alcune sentenze affrontata – non sembra averne dato il necessario approfondimento.
La dottrina sostanzialmente è divisa in due correnti principali: c’è una parte di essa che ritiene possibile l’estensione analogica della disciplina prevista per i coniugi , in particolare l’estensione della disciplina della comunione dei beni nel momento in cui i conviventi non hanno regolato in maniera diversa i loro rapporti patrimoniali. Questa dottrina fonda il suo convincimento sul presupposto che alla base del nostro sistema costituzionale esistono principi di uguaglianza e di tutela del più debole; il ragionamento di questi autori muove infatti dal presupposto che la differenza tra famiglia legittima e famiglia di fatto stia nella diversa rilevanza giuridica che, nella prima, assume direttamente l’atto di matrimonio, mentre nella seconda deve essere di volta in volta accertata andando a desumere i criteri previsti dall’art.143 c.c.. Questi ultimi, una volta presenti, testimoniano che anche alla base di questo nucleo di fatto esiste una funzione familiare uguale a quella della famiglia legittima.
Da ciò consegue che negare l’estensione analogica o diretta della disciplina prevista per la famiglia legittima riguardo al regime dei rapporti patrimoniali determinerebbe la violazione dell’art.3 della Costituzione. Questa disparità di trattamento – afferma ancora la suddetta dottrina – sarebbe fondata solo sulla presenza o meno del vincolo matrimoniale che altro non è se non una condizione personale che sarebbe, tuttavia, idonea a creare una disuguaglianza sostanziale del convivente più debole nella esplicazione totale della sua personalità all’interno della famiglia di fatto. Per avallare questa tesi, la presente dottrina, porta ad esempio la già citata sentenza del Tribunale di Bari del 1977 dove viene affermato il concetto di “affare familiare” riguardo all’acquisto di un’immobile effettuato da un solo convivente il quale si era riservato l’usufrutto concedendo la nuda proprietà alla sua partner.
La dottrina maggioritaria, invece, nega decisamente l’applicazione del regime di comunione legale degli acquisti effettuati dai conviventi more uxorio.
Prima di tutto afferma che la citata sentenza del Tribunale di Bari anche se in apparenza ha affrontato tale problema, in realtà ha come presupposto un petitum diverso in quanto la fattispecie dedotta in giudizio costituiva una ipotesi di simulazione, poiché l’intestazione della nuda proprietà dell’immobile alla allora convivente era soltanto fittizia, non avendo quest’ultima contribuito al pagamento del prezzo. Secondo tale dottrina, pertanto, i giudici avrebbero potuto risolvere la questione utilizzando le regole ordinarie che disciplinano la simulazione invece di usare il caso dedotto al fine di affermare che tra i conviventi vi è una comunione degli acquisti. La citata sentenza è idonea a far scaturire conseguenze interpretative quantomeno azzardate poiché teorizza la possibilità di applicare alla convivenza more uxorio le regole dettate dell’art. 177 c.c. e, quindi, anche ad una inaccettabile estensione della c.d. comunione de residuo, cioè comunione dei frutti e proventi ex art. 177 lett. b), c) non consegnati al momento della rottura.
Il riferimento al diritto di famiglia può solo essere utilizzato dal giudice per motivare il suo convincimento in caso di fittizietà o meno dell’intestazione, ma non può essere utilizzato per attribuire somme di denaro o beni al convivente più debole se quest’ultimo non è intestatario degli incrementi conseguiti nel periodo della convivenza.
L’estensione della comunione degli acquisti ai conviventi porterebbe tra l’altro a non pochi problemi di carattere pratico. Si dovrebbe innanzitutto accertare caso per caso la sussistenza del rapporto di convivenza e quindi il momento preciso dell’inizio e della fine del rapporto di fatto per poter così verificare le date di acquisto dei singoli beni. Questa situazione di incertezza porterebbe ad un vuoto di tutela nei confronti del convivente che abbia subito atti pregiudizievoli dei suoi diritti effettuati da parte del partner. In particolare la figura della comunione legale e del c.d. “acquisto automatico”, ex art.177 lett. a),b),c.c. è un sistema che funziona perché il matrimonio è caratterizzato dall’essere un fatto certo e verificabile da parte di terzi, lo stesso non può dirsi per la convivenza more uxorio che non ha le stesse garanzie di pubblicità.
La stessa dottrina favorevole all’estensione analogica dell’art.177 c.c. invece di applicare il criterio dell’art.184 c.c. in tema di atti compiuti senza il necessario consenso del partner, richiama come forma di tutela solo il comma 3 dell’art.184 c.c. che prevede un principio risarcitorio ma solo nel caso dei beni mobili non registrati, andando così ad effettuare ” un’estensione analogica di secondo grado”. Tra l’altro una applicazione solo parziale del principio della comunione non sarebbe possibile in quanto i singoli aspetti sono inscindibilmente connessi tra loro ed escluderne uno solo di essi porterebbe a snaturarne l’essenza e la sua massima capacità espansiva voluta proprio dal legislatore.
Il solo caso in cui si potrebbe ravvisare una situazione di comproprietà è quando entrambi i conviventi hanno disponibilità economiche derivanti da capitale e/o lavoro prestato a terzi: in questo caso, però, la cotitolarità opererebbe per i beni mobili, “mentre per i beni immobili eventualmente intestati ad uno solo di essi tutto dovrebbe risolversi in una maggiore facilità di configurare quelle presunzioni gravi, precise e concordanti che, in assenza di contro dichiarazione (che potrebbe non essere richiesta ex art.2724, n.2 c.c. per impossibilità morale di procurarsi il documento) finiscono per essere il veicolo privilegiato con cui giungere alla dichiarazione di intestazione fittizia della proprietà”. In questo caso però si avrebbe l’esclusione del convivente c.d. casalingo perché il lavoro da esso prestato non concorre alla formazione del patrimonio, tant’è vero che per la famiglia legittima è stata dettata un’apposita normativa per dare rilevanza al lavoro casalingo.
La giurisprudenza, come accennato, ha analizzato poco la fattispecie, innanzitutto perché si registra una scarsa richiesta di giustizia dei cittadini su tali problematiche. Nonostante le poche pronunce, si può dire che anch’essa si mantiene su una posizione negativa: ad esempio il Tribunale di Pisa, nella sentenza del 1988, afferma la rilevanza giuridica della convivenza more uxorio, rilevanza che però non giustifica un’assimilazione alla famiglia legittima né un’applicazione analogica della disciplina prevista in campo patrimoniale (e più specificatamente del regime degli acquisti ex art. 177-194 c.c.) per quest’ultima. Di conseguenza, questo Tribunale sottolinea che nel momento in cui un convivente acquista un bene immobile con propri mezzi e a nome proprio, il suo partner, al momento della rottura, non può considerarsi cotitolare pro indiviso di tale bene, a meno che non riesca a dimostrare inconfutabilmente che ci sia stata una donazione indiretta, o una interposizione di persona , o l’adempimento consapevole e spontaneo di una obbligazione naturale.
Di stesso avviso la Corte d’Appello di Firenze, chiamata a riesaminare la sentenza del Tribunale di Pisa, laddove si riafferma l’inapplicabilità, per analogia, della disciplina prevista per la famiglia legittima e si ritiene possibile tra i conviventi solo una comunione ordinaria sui singoli beni scelta in base all’autonomia privata: costoro possono, cioè, al momento della stipulazione del contratto, far risultare formalmente l’acquisto congiunto.
Ancora si può portare ad esempio una recentissima sentenza del Tribunale di Palermo dove è stato sancito, per il convivente che dia la prova dell’esclusività della proprietà dei beni mobili che corredano la casa comune, il diritto di ottenere la loro restituzione dal convivente che li detenga sine titulo, così affermando che i beni restano nella proprietà esclusiva di chi né è titolare.
Caso isolato in giurisprudenza è quello della Pretura di Torino del 1988 dove viene affermato che “in caso di convivenza more uxorio, in prospettiva di matrimonio, ciascun bene mobile apportato dai partners per lo svolgimento della vita comune debba considerarsi conferito in comunione pro indiviso”; di conseguenza una volta cessata la convivenza, i partners hanno diritto ex art.1111 c.c. alla quota, in natura, da essi prestata. Tale quota verrà valutata tenendo conto del suo valore al momento della cessazione della convivenza e non si è riconosciuto il diritto ad ottenere la somma effettivamente versata né l’importo dei relativi interessi.
Dall’analisi condotta si deve concludere che la comunione degli acquisti non è applicabile alla famiglia di fatto, questo anche perché i conviventi more uxorio, a differenza dei coniugi legittimi sarebbe soggetti ad un regime non derogabile e con l’impossibilità di far valere le proprie obbligazioni nei confronti dei terzi essendo il rapporto privo di ogni pubblicità. I beni rimarranno nella esclusiva titolarità di chi li ha acquistati. Se un convivente non intestatario abbia contribuito all’acquisto con il versamento di una somma di denaro o con il proprio apporto lavorativo, per far valere le proprie pretese avrà una sola strada da percorrere: utilizzare il rimedio dell’arricchimento senza giusta causa.
Poiché anche tra i conviventi vige una obbligazione naturale che prevede un dovere morale e sociale di contribuzione, il suddetto rimedio sarà esperibile solo nel momento in cui le prestazioni siano sbilanciate, cioè eccedano quella che è la normale contribuzione al ménage o quando, dopo aver, per esempio, sborsato una somma per l’acquisto di un bene destinato ad uso comune, si ha un’improvvisa cessazione unilaterale della convivenza effettuata dal beneficiario del bene. Solo in questi casi si può dire di esulare dal criterio dell’obbligazione naturale e quindi avere una “giusta causa” per esperire l’azione dell’arricchimento.
L’obbligazione naturale e l’arricchimento senza giusta causa sono strettamente collegate tra di loro ed è proprio questo legame che pone dei limiti all’utilizzo di quest’ultimo rimedio essendo esperibile solo dal convivente che ha adempiuto e che ha subito un inadempimento. In altre situazioni l’unica tutela che si potrà avere sarà quella derivante da regimi convenzionali che permettono di ottenere l’esecuzione, da parte del convivente, di prestazioni patrimoniali anche quando quest’ultimo non abbia effettuato alcuna ingerenza nella sfera patrimoniale del proprio partner.
Dott.ssa Carla Florio
Biblografia
Dottrina:
Prosperi, La famiglia non fondata sul matrimonio, Napoli, 1980, pp.288 e ss
F.Gazzoni, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Giuffrè, 1980, pp.122 e ss.
M.Bernardini, La convivenza fuori dal matrimonio, Cedam, 1992, pp.209 e ss.,.
L.Balestra, Gli effetti della dissoluzione della convivenza, in Riv. Dir. Priv., 2000, n.3, p.488 e ss.,
E. Liuzzo, Alcuni aspetti civilistici della convivenza more uxorio alla luce, pp. 812 e ss
G.Oberto,I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, Giuffrè, 1991, pp. 59 e ss.
Giurisprudenza:
Trib. Bari 21 gennaio 1977, in Giur. it., 1978, I, 2, 253
Trib. Pisa 20 gennaio 1988, in Dir. Fam. e Per., 1988, I, pp.1039 e ss.,
Pret. Torino 17 marzo 1988, in Dir.Fam. e Pers., 1990, II, pp.1314 e ss.
Corte d’ App. di Firenze 12 febbraio 1991, in Dir. Fam. e Per., 1992, II, pp. 633 e ss.
Trib. Palermo 3 settembre 2000, in Fam. e Dir., n.3, 2000, p.284

Redazione

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento