Il regolamento deve essere approvato dall’assemblea con la maggioranza stabilita dal secondo comma dell’articolo 1136 Cc, vale a dire con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio, nonché allegato al registro dei verbali delle assemblee.
Le norme del regolamento non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni, e in nessun caso possono derogare alle disposizioni degli articoli 1118, secondo comma 1119, 1120, 1129, 1131, 1132, 1136 e 1137 Cc (art. 1138 Cc).
Il regolamento può essere di origine contrattuale, vale a dire predisposto dal costruttore dell’immobile ovvero dall’originario unico proprietario – solitamente è richiamato in tutti gli atti di acquisto dell’immobile – ovvero di natura assemblare, adottato dall’assemblea con le maggioranze di cui all’art. 1136 Cc, comma II, sopra dette.
Ciò posto, quando nel regolamento di condominio viene inserita una clausola limitativa della proprietà privata, come ad esempio, il divieto di adibire gli appartamenti ad uso diverso da quello di civile abitazione o di studi o uffici professionali privati, la stessa deve essere interpretata nel senso di permettere l’utilizzo solo a fini residenziali privati, con esclusione, conseguentemente, di tutti quei usi abitativi collettivi e di carattere duraturo.
In tale divieto, pertanto, ricadono tutti gli utilizzi relativi a residenze assistenziali rivolte agli anziani, in forma di case di riposo, case famiglia o anche comunità alloggio e, in generale, tutti quelli che offrono servizi alberghieri, tra cui affittacamere, pensioni, ostelli, locande, bad & breakfast, eccetera.
Fermo restando che, l’interpretazione delle clausole regolamentari è compito demandato al giudice di merito, pertanto, insindacabile in sede di legittimità, se non per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale ovvero per l’omesso esame di fatto storico.
Questi i principi di diritti espressi nell’ordinanza n. 11609, pubblicata in data 14 Maggio 2018, dalla Corte di Cassazione, VI sezione civile, relatore dott. Antonio Scarpa.
Fatto
Un condominio citava in giudizio una cooperativa che, all’interno di un appartamento posto nello stabile condominiale, gestiva una comunità alloggio per anziani.
Lo stesso chiedeva la cessazione di tale utilizzo dell’immobile, siccome in contrasto con la clausola regolamentare (art. 32) che vietava l’utilizzo degli appartamenti ad uso diverso da quello abitativo.
La domanda veniva accolta in primo grado dal Tribunale di Catania – Sezione Distaccata di Giarre, e confermata in sede di gravame dalla Corte d’Appello di Catania.
Propone allora ricorso per cassazione il legale rappresentante della cooperativa soccombente, deducendo l’errore in cui sarebbe incorsa la corte territoriale nell’interpretare analogicamente ovvero estensivamente, l’art. 32 del regolamento condominiale, così vietando l’attività di comunità alloggio per anziani espressamente disciplinata dalla normativa regionale siciliana.
Il ricorso, su proposto del relatore, viene definito con ordinanza resa in camera di consiglio, per manifesta infondatezza dello stesso, ex art. 380-bis Cpc, in relazione all’art. 375, comma 1, n. 5) Cpc.
Decisione della Corte Suprema
La Suprema Corte, preliminarmente, ribadisce che <<l’interpretazione delle clausole di un regolamento condominiale contrattuale, contenenti il divieto di destinare gli immobili a determinati usi, è sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, ovvero per l’omesso esame di fatto storico ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Cass. Sez. 2, 30/06/2011, n. 14460; Cass. Sez. 2, 31/07/2009, n. 17893; Cass. Sez. 2, 23/01/2007, n. 1406; Cass. Sez. 2, 14/07/2000, n. 9355; Cass. Sez. 2, 02/06/1999, n. 5393).>>, pertanto, risulta <<comunque sottratta al sindacato di legittimità l’intepretazione degli atti di autonomia privata quando il ricorrente si limiti a lamentare che quella prescelta nella sentenza impugnata non sia l’unica possibile, né la migliore in astratto.>>.
In ogni caso, evidenzia come <<l’interpretazione di una clausola del regolamento di condominio, contenente la prescrizione di adibire gli appartamenti ad uso di civile abitazione o di studi o uffici professionali privati, nonché il divieto di destinare gli stessi a stanze ammobiliate d’affitto, pensioni e locande, come intesa a consentire le sole abitazioni private, e non anche l’uso ad abitazioni collettive di carattere stabile, ivi comprese le residenze assistenziali rivolte agli anziani, in forma di case di riposo, case famiglia o anche comunità alloggio, non risulta né contrastante con il significato lessicale delle espressioni adoperate nel testo negoziale, né confliggente con l’intenzione comune dei condomini ricostruita dai giudici del merito, né contraria a logica o incongrua, rimanendo comunque sottratta al sindacato di legittimità l’interpretazione degli atti di autonomia privata quando il ricorrente si limiti a lamentare che quella prescelta nella sentenza impugnata non sia l’unica possibile, né la migliore in astratto.>>.
A nulla valendo neppure la circostanza per la quale l’attività di comunità alloggio per anziani risulti espressamente disciplinata dalla normativa regionale siciliana, atteso che la condizione richiamata dalla predetta normativa, amente della quale le comunità alloggio per anziani debbano possedere i requisiti edilizi previsti proprio per gli alloggi destinati a civile abitazione, non appare contrastare con il fatto che dette comunità alloggio si caratterizzano quali strutture a ciclo residenziale con prestazione di servizi socioassistenziali ed erogano, pertanto, prestazioni di carattere alberghiero.
Il ricorso, quindi, deve essere rigettato con condanna al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.
Ribadito come le clausole limitative della proprietà privata possono essere imposte esclusivamente dal regolamento di origine contrattuale (quello imposto dal costruttore o dall’originario unico proprietario) ovvero dal regolamento adottato dall’assemblea condominiale all’unanimità dei partecipanti al condominio, si ricorda come tali clausole, per essere validamente opponibili ai terzi acquirenti, debbono essere trascritte.
Tanto è vero che, la clausola del regolamento di condominio che comporta limiti all’utilizzo della proprietà privata, tanto da condizionare il diritto di ciascun condomino nell’utilizzo del locale di proprietà, rientra nella tipologia delle servitù atipiche e, in quanto tale, per essere opponibile ai terzi acquirenti, deve risultare in una apposita nota distinta da quella dell’atto di acquisto.
Tali clausole limitative, infatti, ai sensi del combinato disposto dagli artt. 2659 e 2665 Cc, devono essere specificatamente indicate, non risultando sufficiente il richiamo al regolamento condominiale inserito nell’atto di acquisto.
In altri termini, l’opponibilità delle clausole limitative della proprietà privata – come nel caso di specie quella relativa al divieto di destinare gli appartamenti ad uso diverso da quello abitativo – deriverà non tanto dalla trascrizione del regolamento condominiale, bensì dall’inserimento delle clausole costitutive della servitù all’interno dello stesso.
Ciò posto, qualora tali clausole siano inserite nel regolamento predisposto dal costruttore ovvero dall’originario unico proprietario, la nota di trascrizione del primo atto di acquisto contenente il suddetto vincolo, risulterà opponibile a tutti i successivi acquirenti.
In difetto di trascrizione, viceversa, tali clausole limitative opererebbero esclusivamente nei confronti del terzo acquirente informato specificamente della loro esistenza nel contratto d’acquisto.
Infine si ricorda come, l’eccezione di inopponibilità di tale clausole limitative quand’anche contenute nel regolamento ma, tuttavia, non inserite nell’apposita nota di trascrizione, risulta eccezione rilevabile d’ufficio, pertanto, sollevabile in ogni stato e grado del processo (Cass. n. 6769/2018).
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