L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, sentenza 24 maggio 2007,n.7, ha risolto due questioni di notevole interesse: la motivazione da porre a fondamento della reiterazione e l’obbligo di prevedere, in sede di pianificazione, apposito indennizzo e i mezzi finanziari per farsi fronte.
In particolare – per dirimere i contrasti giurisprudenziali sorti a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 1999 e della decisione n. 24 del 1999 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato – la IV sezione del Consiglio di Stato ha, con ordinanza di rimessione n. 6633 del 2006, sottoposto all’Adunanza plenaria, le seguenti questioni:
– quale estensione debba avere l’accertamento della permanenza dell’interesse pubblico e la motivazione dell’atto, perché una variante reiterativa di vincoli a contenuto espropriativo decaduti possa ritenersi legittimamente adottata;
– se la variante stessa debba essere accompagnata dalla previsione dell’indennizzo e dei mezzi finanziari per portarla ad attuazione.
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Nell’affrontare la prima questione l’Adunanza plenaria perviene – attraverso un’attenta ricostruzione dei fatti e una puntuale rivisitazione dei principi espressi sul tema dalla IV sezione del Consiglio di Stato, sentenza n. 159 del 1994 e n. 6171 del 2006 – alla conclusione che, in sede di pianificazione, l’esercizio del potere, da parte dell’amministrazione comunale, di reiterazione di un vincolo a contenuto espropriativo, può ritenersi legittimamente esercitato soltanto nel caso in cui abbia preventivamente svolto una idonea istruttoria ed abbia adeguatamente motivato la propria scelta, in misura idonea ad escludere un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei relativi atti, dimostrando di perseguire un pubblico interesse.
Nell’interessante percorso argomentativo merita di essere segnalato l’impegno volto a fornire i criteri per valutare se la motivazione possa ritenersi adeguata, suggerendo di tenere conto delle seguenti circostanze:
1. se la reiterazione riguardi o meno una pluralità di aree, nell’ambito della adozione di una variante generale o comunque riguardante una consistente parte del territorio comunale.
In detta ottica, vanno distinti i casi in cui la reiterazione del vincolo riguardi un’area ben specificata (per realizzare una singola opera pubblica o per soddisfare i prescritti standard sui servizi pubblici o sul verde pubblico), da quelli in cui la reiterazione riguardi una pluralità di aree per una consistente parte del territorio comunale, a seguito della decadenza di uno strumento urbanistico generale che abbia disposto una molteplicità di vincoli preordinati all’esproprio (necessari per l’adeguamento degli standard, a seguito della realizzazione di ulteriori manufatti).
Infatti, nel caso in cui la pubblica amministrazione, in sede di adozione di una variante al piano regolatore generale, reiteri in blocco i vincoli espropriativi, riguardanti una pluralità di aree, la sussistenza di un attuale specifico interesse pubblico risulta dall’insufficienza delle aree destinate a standard; l’assenza di un intento vessatorio si evince, invece, dalla parità di trattamento che hanno tutti i destinatari dei precedenti vincoli decaduti;
2. se la reiterazione riguardi soltanto una parte delle aree già incise dai vincoli decaduti, mentre per l’altra parte non è disposta la reiterazione, perché ulteriori terreni sono individuati per il rispetto degli standard.
A tale proposito l’Adunanza plenaria evidenzia che può configurarsi l’illegittimo esercizio del potere quando, dopo la decadenza in blocco dei vincoli espropriativi previsti dallo strumento urbanistico generale, l’amministrazione comunale ne reiteri solo alcuni, individuando altre aree per soddisfare gli standard, senza una adeguata istruttoria o motivazione.
Tali scelte, infatti, devono fondarsi su una congrua motivazione da cui emergano le ragioni di interesse pubblico, dato che esse avvantaggiano chi non è più coinvolto nelle determinazioni di reperimento degli standard, a scapito del proprietario di suoli che, pur non essendo stato in passato destinatario di un precedente vincolo preordinato all’esproprio, viene coinvolto ex novo;
3. se la reiterazione sia stata disposta per la prima volta sull’area in questione.
Detta circostanza suggerisce di verificare, in sede di pianificazione, se il vincolo a contenuto espropriativo sia decaduto una o più volte, ritenendosi giustificato il richiamo alle originarie valutazioni, nel caso in cui vi sia una prima reiterazione; quando, invece, il rinnovato vincolo sia a sua volta decaduto la pubblica amministrazione deve procedere con una accurata valutazione degli interessi coinvolti, palesando le ragioni – riguardanti il rispetto degli standard, le esigenze della spesa, nonché specifici accadimenti riguardanti le precedenti fasi procedimentali – che escludano profili di eccesso di potere, affermando l’attuale interesse pubblico.
Ed ancora, nel caso di reiterazione di un vincolo preordinato all’esproprio, finalizzato alla realizzazione di uno specifico intervento, la pubblica amministrazione deve provvedere a comunicare, ai sensi dell’ art. 11,
d.p.r. 8 giugno 2001 n. 327, l’avviso di avvio del procedimento. In tal caso l’amministrazione deve provvedere con una motivazione specifica, incidendo su una posizione determinata. Quando, invece, si tratti di un’ altra tipologia di reiterazione dei vincoli preordinati all’esproprio, anche se disposti
in blocco, rilevano i principi previsti dall’art. 9, comma 4, stesso decreto, che attribuisce rilievo decisivo alle esigenze di soddisfacimento degli standard.
Quindi, se entro il quinquennio, decorrente dall’approvazione del p.r.g., non intervenga la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, il vincolo perde efficacia e la reiterazione di esso potrà avvenire solo attraverso una nuova previsione urbanistica che confermi, attraverso l’approvazione di una variante allo strumento urbanistico generale, le precedenti scelte pianificatorie.
Giunti a tal punto, in merito alla motivazione da porre a fondamento della reiterazione, può affermarsi che la reiterazione dei vincoli decaduti può ritenersi legittima se presidiata da una congrua e specifica motivazione, che può risultare anche dagli elaborati tecnici posti a sostegno dei provvedimenti, tenendo conto della risalenza del vincolo decaduto e della ripetuta reiterazione dello stesso.
In detta ottica, ove la reiterazione non fosse preceduta da una attenta valutazione degli interessi in gioco e da una congrua motivazione sarebbe illegittima e comporterebbe un’ obbligazione risarcitoria, da tenere distinta dall’obbligazione indennitaria di cui all’art. 39 del t.u., per lesione dell’interesse legittimo dovuto alle limitazioni al libero esercizio della proprietà.
In merito alla motivazione particolare rilievo è stato dato ai principi affermati dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, decisione n.24 del 22 dicembre 1999, secondo i quali è necessario l’obbligo di motivazione specifica del provvedimento di variante agli strumenti urbanistici solo nelle ipotesi in cui si configuri un affidamento qualificato del privato.
La necessità di una motivazione specifica è stata ravvisata nelle seguenti ipotesi: superamento degli standard minimi di cui al decreto ministeriale 2 aprile 1968; lesione derivante da convenzione di lottizzazione; accordi di diritto privato, aspettative create da giudicati di annullamento di dinieghi espliciti o taciti di concessioni edilizie; modificazione in zona agricola della destinazione di un’area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo (cfr., anche, Cons. Stato, 1 ottobre 2004, n. 6602 e 26 aprile 2006, n. 2301).
Di contro, nel caso del proprietario inciso dalla variante generale di reiterazione dei vincoli urbanistici a contenuto espropriativo non sarebbe ravvisabile alcun affidamento, vale a dire nessuna aspettativa qualificata ad una particolare destinazione edificatoria, con riferimento ad una precedente destinazione urbanistica, ma soltanto un’attesa generica ad una reformatio in melius, analoga a quella di ogni altro proprietario di area che aspira ad una utilizzazione più proficua dell’immobile.
In sintesi, il Consiglio di Stato, con la decisione n. 24/1999, ha dedotto che nel caso di varianti generali la reiterazione dei vincoli urbanistici, preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità, non richiedono una motivazione specifica circa la destinazione di zona delle singole aree, ma solo una motivazione circa le esigenze urbanistiche che sono a fondamento della variante di reiterazione.
Detta soluzione, tuttavia, non sembra applicabile all’ipotesi in cui la reiterazione del vincolo derivi da una variante di tipo specifico, a seguito dell’approvazione di un progetto di opera pubblica non prevista dal p.r.g., ovvero non più prevista per decadenza del precedente vincolo espropriativo.
In tale prospettiva, nel caso di varianti specifiche, l’amministrazione può, valutati gli interessi in gioco ed il fine pubblico, programmare come ritiene l’uso del territorio, fatta salva la necessità che tali scelte – quando comportino un peso particolarmente gravoso per il privato – siano adeguatamente motivate e oggetto di un’attenta comparazione degli interessi in gioco.
A distanza di circa tre anni dalla decisione n. 24/1999, il Consiglio di Stato, decisione 6 febbraio 2002, n. 664, è ritornata sull’argomento per chiarire alcuni principi precedentemente affermati, ritenendo che le scelte effettuate dall’amministrazione, all’atto dell’adozione del piano o di una variante generale, costituiscano apprezzamenti di merito sottratte al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o abnormi illogicità.
Ciò stante, le scelte discrezionali dell’amministrazione, in merito alla destinazione di singole aree, non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può dedurre dai criteri generali, di ordine tecnico discrezionale, seguiti nell’impostazione del piano stesso.
In tale ottica, è sufficiente l’espresso richiamo alla relazione di accompagnamento al progetto di modificazione al piano regolatore generale, a meno che specifiche situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di posizioni soggettive meritevoli di diversa considerazione.
Ed ancora, con la citata sentenza n. 664/2002, il Consiglio di Stato rileva che ai fini della legittimità di una variante è bastante, sotto il profilo della motivazione e dell’istruttoria, l’accertata esistenza di questioni che incidano in senso negativo sulle condizioni di vita dell’intera cittadinanza (quali, ad esempio, quelle dei parcheggi, della viabilità, del verde pubblico, etc.).
La tesi sostenuta dal Consiglio di Stato, con le citate decisioni n. 24/99 e n. 664/2002, viene superata dalla stessa giurisprudenza amministrativa che, con successive statuizioni, ha precisato che l’amministrazione deve dar conto, anche in sede di varianti di tipo generale, delle ragioni delle proprie scelte con una motivazione specifica.
Secondo il Consiglio di Stato, infatti, le indicazioni di carattere generale finalizzate ad assicurare la ragionevolezza e la non arbitrarietà dell’esercizio della discrezionalità – che sono state ritenute sufficienti in relazione all’ampia discrezionalità di cui è titolare l’ente locale nell’esercizio della funzione di pianificazione urbanistica – non sono idonee a motivare la necessità di vincolare, ancora una volta, aree che, secondo precedenti strumenti regolatori, avevano già avuto un’analoga destinazione ( Cons. Stato, sez. IV, 6 aprile 2004, n. 1836).
Il Consiglio di Stato ha ritenuto, altresì, che la reiterazione dei vincoli urbanistici decaduti, per effetto del decorso del termine contemplato nell’art. 2, l. 19 novembre 1968, n. 1187, disposta con apposita variante al piano regolatore, può ritenersi legittima solo se corredata da una congrua motivazione in ordine alla persistente attualità dei pubblici interessi che determinarono, in origine, l’imposizione del vincolo (Cons. Stato, sez. IV, 22 giugno 2004, n. 4397).
Ed ancora, il TAR Marche ha ritenuto che le motivazioni delle scelte effettuate possono essere di carattere generale e desumibili dai relativi criteri informatori solo quando si adotta un nuovo piano regolatore generale e non già quando si tratta di una sua variante avente come unica finalità la proroga di tutti i vincoli ( TAR Marche, 3 marzo 2004, n. 85).
A ben vedere, oggi, con la decisione che ci occupa, sembra di essere di fronte ad un forte ripensamento dei principi affermati negli ultimi anni, con un chiaro ritorno al passato e, segnatamente, alle idee espresse con le sentenze n. 24/1999 e n. 664/2002.
Forse ci si è resi conto di ciò che accade, nella pratica, nei vari comuni italiani, soprattutto quelli di più grandi dimensioni, in merito all’attuazione dei piani urbanistici che, per la parte in cui consentono l’edificazione privata, vengono attuati rapidamente, mentre non lo sono in relazione alla realizzazione di opere pubbliche.
E’ vero, infatti, che, una volta realizzati gli edifici privati, le uniche aree libere dall’edificazione sono proprio quelle incise da vincoli preordinati all’esproprio, poi decaduti.
E’ vero, altresì, che la necessità di prendere in considerazione l’intero territorio comunale, tenendo conto anche dei cambiamenti sociali, obbliga il piano regolatore generale a prevedere bisogni futuri; da ciò il fenomeno della costante reiterazione dei vincoli.
In detta prospettiva, è gioco forza che l’amministrazione, tenuta ad osservare gli standard e a realizzare un’opera pubblica, localizzi gli interventi sulle uniche aree rimaste libere, anche se già assoggettate a vincolo.
La limitatezza delle risorse territoriali dovute, soprattutto, a processi di urbanizzazione incontrollata, determina, infatti, l’esigenza di conservazione delle risorse disponibili, al fine di fornire alle generazioni future gli spazi vitali necessari al soddisfacimento di nuove esigenze.
Si deve, quindi, attribuire rilievo alla volontà di volere realizzare le opere o gli interventi pubblici specialmente quando essi mirano al soddisfacimento dei prescritti standard o si sia in presenza di mutamenti delle realtà sociali, verificatesi dopo la prima apposizione dei vincoli.
Certamente, la reiterazione in blocco dei vincoli preordinati all’esproprio può essere giustificata, per ragioni di complessiva tutela del territorio e per consentirne l’ordinato sviluppo, ma non si può escludere che essa risulti eccessiva quando l’esecuzione delle opere importi una ingente spesa difficilmente sostenibile in concreto e, comunque, non programmata.
Alla luce di quanto descritto, relativamente alla motivazione da porre a base della reiterazione, è possibile trarre alcuni principi guida.
Innanzitutto, dalla motivazione deve risultare che le scelte effettuate siano dirette alla cura del pubblico interesse: la reiterazione del vincolo, quindi, non deve perseguire alcun intervento vessatorio e non deve essere, comunque, ingiusta.
L’amministrazione, inoltre, deve evidenziare l’attualità dell’interesse pubblico da soddisfare, atteso che con la reiterazione si va ad incidere sul bene già soggetto ad un vincolo per il quale non è intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità.
Perché, dunque, non emergano profili di eccesso di potere, è necessario che la motivazione renda edotte le ragioni che hanno determinato l’inutile decorso del quinquennio e tenga conto del numero delle reiterazioni effettuate e dell’entità degli interventi da realizzare.
Premesso che la scelta della reiterazione non deve essere irrazionale o persecutoria, non può escludersi, però, che la mancata attivazione del procedimento espropriativo sia la conseguenza di obiettive difficoltà economiche dovute alla carenza di finanziamenti regionali o statali.
Tale evenienza può rendere scusabile la reiterazione del vincolo finalizzato alla realizzazione di un’opera di cui si ravvisi l’attuale necessità per la collettività.
Quando, poi, scada il vincolo apposto per più volte, l’amministrazione deve procedere con la massima oculatezza al contemperamento degli interessi coinvolti, evidenziando le ragioni da cui si possa evincere che l’opera pubblica debba sorgere proprio su quell’area più volte incisa.
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In merito alla seconda questione, relativa all’obbligo o meno di prevedere apposito indennizzo e i mezzi per farvi fronte, l’Adunanza plenaria ha chiarito che non può considerarsi illegittimo il provvedimento che ha disposto la reiterazione senza previsione di indennizzo al proprietario dell’immobile inciso, atteso che il principio della spettanza di un indennizzo al proprietario, nel caso di reiterazione del vincolo preordinato all’esproprio, introdotto nell’ordinamento con la sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 1999, non rileva per la verifica della legittimità del provvedimento che ha disposto la reiterazione.
Ebbene, per sostenere l’irrilevanza del principio della previsione di un indennizzo nella fase di adozione del provvedimento che dispone la reiterazione, il Massimo Consesso ne richiama un altro, stavolta di natura giuscontabile, secondo cui l’amministrazione, ai sensi dell’art. 183 del d.lgs n. 267 del 2000, non può impegnare somme di cui non è certa la spettanza in ordine all’an e al quantum, sia perché potrebbe non seguire l’approvazione regionale, sia perché la quantificazione richiede complessi accertamenti su elementi di fatto che solo il proprietario può rappresentare al termine del procedimento di pianificazione ( Cons. Stato, sez. IV, sentenza n. 7863/2006).
In tale ottica, i profili relativi al pagamento dell’indennizzo non riguardano, quindi, la legittimità del procedimento, ma questioni di carattere patrimoniale, devoluti al giudice ordinario.
Detta prospettazione – effettuata in chiave di conciliazione con l’art. 39, comma 1, del testo unico sugli espropri – sembra, tuttavia, contraddire i principi affermati dalla Corte costituzionale, con sentenza n. 179 del 1999, innovando rispetto alla giurisprudenza, fino ad oggi prevalente, che ha ritenuto necessari, in sede di reiterazione dei vincoli a contenuto espropriativo sia la previsione dell’indennizzo, che l’indicazione dei criteri per la sua corresponsione ( cfr., fra tante, TAR Veneto, sez. II, sentenza n. 1101/2007; TAR Abruzzo-Pescara, sentenza n. 445/2006;TAR Sicilia, Palermo, sez.I, sentenza n. 1159/2003;Cons. Stato, sez. IV, sentenza n. 5715/2002 e n. 664/2000).
La vicenda della indennizzabilità dei vincoli aventi contenuto espropriativo, oggetto di un dibattito quarantennale, ha trovato un punto di arrivo nella sentenza n.179 del 1999 della Corte costituzionale la cui conoscenza, comunque, risulta essere indispensabile anche per la comprensione della ratio ispiratrice dell’art. 39 del testo unico.
Con detta decisione la Corte:
– precisa che il principio dell’indennizzabilità dei vincoli è da ritenere alternativo a quello della temporaneità: quindi, se un vincolo è di durata tollerabile non spetta al proprietario alcun indennizzo;
– considera legittimo un ragionevole periodo di franchigia, durante il quale il vincolo non va indennizzato anche se preordinato all’espropriazione, così come non vanno indennizzati i vincoli conformativi del piano regolatore e quelli disposti in via generale dalla legge;
– conferma la legittimità della reiterazione del vincolo preordinato all’espropriazione, anche per soddisfare esigenze diverse da quelle originariamente previste, purché congruamente motivata;
– afferma che il pregiudizio apportato al proprietario del bene, il cui valore può risultare praticamente espropriato, deve essere indennizzato;
– avverte che l’indennizzo per la reiterazione del vincolo non può essere pari a quello derivante dall’espropriazione, in considerazione del fatto che il bene rimane nella disponibilità del proprietario, che potrebbe ricavarne un reddito.
Questo diverso sacrificio, rispetto al danno derivante da un evento espropriativo vero e proprio, si traduce, nella maggior parte dei casi, in una diminuzione del valore di scambio o di utilizzabilità dipendente da diverse variabili individuate dalla stessa Consulta: nel mancato uso normale del bene; nella riduzione di utilizzazione, nella diminuzione di prezzo di mercato (locativo o di scambio) rispetto alla situazione giuridica antecedente alla pianificazione che ha imposto il vincolo.
Infine, la Corte ha precisato che l’assenza del criterio legale di commisurazione dell’indennizzo, pur doveroso, non deve impedire di ricercare nel sistema le regole per la liquidazione di obbligazioni indennitarie, nella specie come obbligazioni di ristoro del pregiudizio subito dalla rinnovazione o dal protrarsi del vincolo.
In buona sintesi, è stato stabilito che la limitazione posta al diritto del proprietario diviene intollerabile e necessita una forma di ristoro se supera il periodo, c.d. di franchigia, di cinque anni; superato tale periodo deve essere previsto un indennizzo, la cui determinazione specifica è rimessa al legislatore.
E’ evidente, quindi, che con detta sentenza è stata introdotta nel nostro ordinamento una norma di principio sull’obbligo di indennizzare i proprietari nel caso di reiterazione di un vincolo preordinato all’esproprio o sostanzialmente espropriativo.
Essa, tuttavia, ammette, nelle more di un intervento legislativo, il potere suppletivo del giudice che, una volta accertata la natura espropriativa dei vincoli, può ricavare dall’ordinamento le regole per le liquidazioni dell’indennizzo.
A sua volta,l’art. 39 del testo unico dispone che, in attesa di un’organica sistemazione della materia, nel caso di reiterazione di un vincolo preordinato all’esproprio, è dovuta al proprietario una indennità commisurata all’entità del danno effettivamente prodotto.
Riassuntivamente, l’ente che reitera il vincolo dovrà contestualmente determinare l’indennizzo; tuttavia, se non provvede non accade nulla, fin tanto che il proprietario non formuli all’Ente una documentata richiesta di pagamento.
Appare evidente che il legislatore ha accollato al proprietario l’onere di dimostrare il danno effettivamente subito in dipendenza della reiterazione del vincolo.
I vincoli indennizzabili, fatte le dovute esclusioni suggerite dalla Corte, risultano essere solo quelli imposti, a titolo particolare, dalla pubblica amministrazione, su aree edificabili, dopo la naturale scadenza e reiterati in vista della realizzazione di un’opera pubblica, atteso che comportano come effetto pratico uno svuotamento della proprietà stessa, mediante imposizione, immediatamente operativa, di vincoli a titolo particolare su beni determinati comportanti inedificabilità assoluta.
Secondo il comma 1 dell’articolo 39, l’amministrazione espropriante dovrebbe determinare l’indennizzo dovuto per l’atto reiterativo del vincolo nel momento in cui lo ripropone; resta da vedere in che modo, in questo momento, possa determinarsene l’ammontare, atteso che la disposizione in questione parla di danno effettivamente prodotto.
Qualora, tuttavia, l’indennizzo non sia stato liquidato d’ufficio, nell’atto di reiterazione, il comma 2, stesso articolo, subordina l’obbligo di liquidazione al verificarsi di due presupposti: la richiesta del danneggiato e la dimostrazione del danno subito.
In detta ottica, è facile dedurre dalla norma due principi:
– l’indennità è eventuale, perchè subordinata a un pregiudizio derivante dalla reiterazione. In tal senso è conducente la considerazione che nel caso il proprietario continua ad utilizzare il proprio bene e potrebbe trarre da tale utilizzo (agricolo o comunque non edificatorio) una utilità pari o superiore a quella ricavabile dall’impiego edificatorio dell’area.
– il privato è tenuto a dimostrare l’entità del danno subito; la richiesta del danneggiato, quindi, deve dare concreta dimostrazione in merito al danno patrimoniale patito ed al nesso eziologico con il provvedimento di reiterazione.
La Corte costituzionale, peraltro, con la sentenza n. 179/1999 ha puntualizzato che l’indennizzo per il protrarsi del vincolo è un ristoro (non necessariamente integrale o equivalente al sacrificio, ma neppure simbolico) per una serie di pregiudizi, che si possono verificare a danno del titolare del bene immobile colpito, e deve essere commisurato o al mancato uso normale del bene ovvero alla riduzione di utilizzazione ovvero alla diminuzione del prezzo di mercato (locativo o di scambio) rispetto alla situazione giuridica antecedente alla pianificazione che ha imposto il vincolo.
Il proprietario, quindi, deve dimostrare che vi sono state concrete possibilità di utilizzazione economica del bene ( ad esempio, concrete trattative di vendita o di locazione ecc.) svanite per l’apposizione del vincolo successivamente reiterato.
Il citato comma 1, pur indicando i principi applicabili per effetto della pronuncia del Giudice delle leggi, non chiarisce, tuttavia, se in caso di dimostrazione del danno il proprietario debba essere risarcito integralmente.
E’ da escludersi, innanzitutto, che il danno possa essere valutato in misura corrispondente all’indennità di espropriazione, atteso che, in tal modo, il proprietario diverrebbe destinatario di un arricchimento ingiusto, aggiungendo alla riscossione dell’indennità la proprietà del bene; la lettera della norma non consente, quindi, di parificare l’indennizzo all’indennità di esproprio dato che lo commisura all’entità del danno prodotto.
Sia il dato testuale, che l’ingiustificato arricchimento rendono, quindi, preferibile la soluzione negativa.
Ciò stante, non sembra corretto utilizzare il parametro previsto dall’art.50 del t.u. (percentuale annua dell’indennità di esproprio) per l’indennità di occupazione, ipotizzato da alcuni redattori del citato testo unico, in quanto così procedendo si indennizzerebbe il differimento della percezione dell’indennità di esproprio, contraddicendo la norma in questione che intende, invece, indennizzare un’espropriazione di valore già avvenuta.
Per meglio dire, l’art. 50 non è utilizzabile sia perché il proprietario continua ad utilizzare il bene, sia perché la norma in questione configura una espropriazione di valore.
Dovrebbe, invece, ai fini della determinazione della indennità commisurata all’entità del danno prodotto, tenersi conto della prevedibile durata del vincolo reiterato; dell’uso che il proprietario abbia fatto in passato dell’area vincolata e di quello che, presumibilmente, ne farà in futuro.
A questo proposito, non si può che esprimere l’auspicio che il legislatore si occupi seriamente dell’argomento, fissando chiari criteri di liquidazione che tengano conto del contemperamento degli opposti interessi; ciò eviterà la devoluzione di gran parte delle questioni alla discrezionalità del giudice, inevitabilmente guidata dall’equità come parametro principale.
Giova, a questo punto, esaminare congiuntamente gli interventi giurisprudenziali e legislativi in materia di indennizzi, prendendo l’avvio dalla sentenza della Corte costituzionale n. 179 del 1999.
Sulla base di detta disamina sarà possibile dedurre i principi che disciplinano la materia.
Con la citata sentenza la Consulta ha precisato che la reiterazione in via amministrativa dei vincoli decaduti, preordinati all’esproprio o con carattere sostanzialmente espropriativo, assume carattere patologico quando il limite temporale sia indeterminato e non sia contenuto in termini di ragionevolezza: una volta superato il periodo di durata fissato dalla legge, quindi, sorge l’obbligo di indennizzo.
Successivamente, la stessa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 52, primo comma, del d.p.r. 6 marzo 1978, n. 218 (testo unico delle leggi sugli interventi nel mezzogiorno), nella parte in cui consente all’amministrazione di reiterare vincoli scaduti preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità, senza la previsione di indennizzo, precisando che, in tutti i casi di reiterazione (o di proroga) dei vincoli espropriativi, deve essere dichiarata la illegittimità costituzionale non dell’intero complesso normativo, che consente la reiterazione dei vincoli stessi, ma esclusivamente della mancata previsione di indennizzo ( Corte cost.,18 dicembre 2001, n. 411).
Ed ancora, ha chiarito che l’amministrazione è in ogni caso tenuta ad applicare tale principio, indipendentemente dall’esistenza o dall’entrata in vigore di specifici interventi legislativi sulla quantificazione e sulle modalità di liquidazione (ordinanza 25 luglio 2002, n.327).
La Corte costituzionale ha, altresì, dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune norme di una legge regionale, nella parte in cui si riferiscono a vincoli scaduti, preordinati all’espropriazione o sostanzialmente espropriativi, senza previsione di durata e di indennizzo, atteso che l’iter interpretativo della garanzia costituzionale in materia di espropriazione ha portato a riconoscere il principio secondo cui per i vincoli urbanistici espropriativi, la reiterazione (o la proroga) comporta, oltre la temporaneità, necessariamente un indennizzo, diretto al ristoro del pregiudizio causato dal protrarsi della durata (Corte cost., 9 maggio 2003, n. 148).
La giurisprudenza amministrativa, a sua volta, adeguandosi alle citate pronunce, ha specificato che l’amministrazione, nel reiterare i vincoli urbanistici preordinati all’espropriazione, deve prevedere il relativo indennizzo.
Segnatamente, il Consiglio di Stato, ha ritenuto illegittima, dopo la scadenza delle originarie previsioni di piano regolatore, la reiterazione di vincoli diretti all’esproprio senza previsione di indennizzo (Cons. Stato, sez. IV, 14 maggio 2000, n. 2934).
Lo stesso ha, però, precisato che il provvedimento con il quale il Comune dispone la reiterazione dei vincoli preordinati all’espropriazione, decaduti per il superamento del quinquennio, ai sensi dell’art. 2 della legge 19 novembre 1968 n. 1187, necessita della previsione solo giuridica di indennizzo e non anche della specifica quantificazione delle spese occorrenti per l’espropriazione e dei possibili mezzi di copertura ( Cons. Stato, Ad. plen.,22 dicembre 1999 n. 24).
Il Consiglio di Stato ha, anche, chiarito che la previsione di un indennizzo non è da considerarsi semplice atto ricognitivo di un diritto attribuito all’interessato dalla legislazione vigente, ma, piuttosto, l’attestazione di un’adeguata ponderazione da parte dell’amministrazione degli oneri conseguenti alla reiterazione di detti vincoli e postula una valutazione in termini più concreti del costo della scelta pianificatoria, nei limiti in cui ciò sia compatibile con la natura propria degli atti amministrativi di pianificazione generale, che, a differenza dei decreti di espropriazione, sono destinati ad introdurre disposizioni caratterizzate da un elevato livello di generalità ed astrattezza (Cons. Stato, sez. IV, 18 ottobre 2002, n. 5715).
Pertanto, l’amministrazione, pur non essendo obbligata ad indicare direttamente negli atti di pianificazione generale il quantum dell’indennizzo previsto per ciascun proprietario, non deve limitarsi a prevedere genericamente la corresponsione di un indennizzo, dovendo precisare – quale requisito di legittimità del provvedimento – anche i criteri generali in base ai quali procederà alla liquidazione degli importi dovuti.
Detto indennizzo non è, nella quasi totalità dei casi, rapportabile alla perdita di proprietà, né, peraltro, può essere utilizzato un criterio di liquidazione ragguagliato esclusivamente al valore dell’immobile, atteso che il sacrificio subito consiste, generalmente, in una serie di pregiudizi che si possono verificare a danno del titolare del bene immobile colpito e deve essere commisurato o al mancato uso normale del bene, o a una riduzione d’utilizzo, ovvero alla diminuzione di prezzo di mercato (locativo o di scambio), rispetto alla situazione giuridica antecedente alla pianificazione che ha imposto il vincolo.
In ogni caso, secondo il Consiglio di Stato, il criterio o i criteri indicati dall’amministrazione devono essere sufficientemente precisi e tali da consentire la sollecita liquidazione degli importi dovuti, salva la possibilità, se l’Amministrazione l’abbia precisato con una clausola espressa, di subordinare l’indennizzo corrisposto in base ai criteri dalla stessa determinati a conguaglio o a parziale ripetizione dell’indebito nell’ipotesi di intervento del legislatore con norme aventi efficacia retroattiva, prevedendo differenti criteri di liquidazione dell’indennizzo ( Cons. Stato, n. 5715/2002, cit.).
Giunti a tal punto si possono riassumere i principi affermati, in materia di indennizzi, dalla giurisprudenza:
– l’amministrazione, nel reiterare i vincoli di inedificabilità, deve prevedere l’apposito indennizzo;
– il principio della indennizzabilità dei vincoli scaduti e di quelli reiterati deve essere applicato indipendentemente da specifici interventi legislativi sulla quantificazione e sulle modalità di applicazione;
– la previsione dell’indennizzo non deve contenere la specifica quantificazione delle spese occorrenti e di possibili mezzi di copertura;
– sono illegittime le disposizioni del piano regolatore generale di reiterazione dei vincoli se omettono di prevedere il relativo indennizzo;
– l’amministrazione deve precisare i criteri generali in base ai quali procederà alla liquidazione degli indennizzi.
Il comma 2 dell’art.39, invece, evita che la mancata previsione dell’indennizzo renda illegittimo il provvedimento che reiteri il vincolo preordinato all’esproprio, di cui dunque disciplina le conseguenze (cfr. parere n. 4/2001 dell’Adunanza generale sul progetto di t.u., n. 28.3).
Con la sentenza n.7 del 2007, l’Adunanza plenaria, innovando, rispetto a quanto statuito con le precedenti decisioni, ha chiarito che non può essere considerata illegittima una deliberazione con la quale il comune, in sede di adozione di una variante generale al piano regolatore, reitera i precedenti vincoli preordinati all’esproprio, senza la previsione di un indennizzo in favore dei proprietari incisi, affermando che nel quadro normativo vigente, continua a sussistere il principio secondo cui gli atti dei procedimenti amministrativi di adozione e di approvazione di uno strumento urbanistico, contenente un vincolo preordinato all’esproprio e/o a contenuto espropriativi, non possono essere ritenuti illegittimi per il solo fatto di non contemplare, all’origine, la previsione di un indennizzo da corrispondere in favore del proprietario dell’area interessata dal vincolo medesimo.
Secondo l’Adunanza plenaria, quindi, non solo l’amministrazione comunale, negli atti di pianificazione urbanistica, non è tenuta ad indicare l’ammontare dell’indennizzo da corrispondere, ma non è nemmeno obbligata ad impegnare una spesa per far fronte alla liquidazione delle somme dovute ai proprietari, essendo detto impegno in contrasto con il principio giuscontabile di cui all’art. 183 del d. lgs n. 267/2000.
L’amministrazione, dunque, non può impegnare somme di cui non è certa la spettanza in ordine all’an e al quantum; conseguentemente, i profili relativi al pagamento dell’indennizzo riguardano questioni di carattere patrimoniale, che presuppongono la conclusione del procedimento di pianificazione, devolute alla cognizione della giurisdizione civile.
Tale principio, a ben vedere, è quello affermato dall’art.39, comma 1, su cui ci si è soffermati, il quale ha previsto che il proprietario, a seguito della reiterazione, possa attivare un procedimento amministrativo nel corso del quale ha l’onere di provare quale presupposto processuale per potere adire la Corte di Appello, l’entità del danno effettivamente prodotto.
Pertanto, l’indennizzo, se danno vi sia, è dovuto ope legis e va liquidato entro il termine di due mesi dalla data in cui abbia ricevuto la documentata domanda di pagamento e a corrisponderlo entro i successivi trenta giorni, decorsi i quali sono dovuti anche gli interessi legali.
La scelta della salvezza del provvedimento, non corredato dalla previsione dell’indennizzo, conforme al principio di conservazione, è sostenuta dalla considerazione, proveniente dalla dottrina, secondo cui la questione della legittimità della proroga dovrebbe seguire strade di soluzione del tutto indifferenti alla previsione formale dell’indennizzo atteso che il diritto soggettivo al pagamento di esso è comunque garantito dalla legge (F. Cintioli).
ANGELA BRUNO
Avvocato – Dirigente – Ufficio di Staff Avvocatura del Comune di Vittoria – RG.
Specialista in Scienze delle Pubbliche Amministrazioni
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