In occasione del ventennale della morte di Falcone e Borsellino l’Ordine degli Avvocati di Ragusa ha organizzato un convegno dal titolo “Rendere giustizia: legalità, responsabilità e professione”, dedicato al rapporto tra legalità, professione e deontologia.
L’incontro si è tenuto nella moderna e funzionale cornice dell’Auditorium della Scuola di Sport di Ragusa, all’insegna dell’affresco del “Buon Governo” di Lorenzetti, immagine ispiratrice di alcuni dei contenuti del convegno.
Il tema è stato introdotto dall’Avv. Boncoraglio, avvocato dell’Ordine di Ragusa e promotore e moderatore del convegno, che ha parlato di cultura della legalità e di crisi attuale del concetto stesso di legalità, che oltre che un modo di pensare (e quindi un fatto culturale) deve essere anche e soprattutto un modo di agire e di vivere. In rapporto alla professionalità degli operatori del diritto (giudici e avvocati, ma non solo), il concetto di legalità si lega a quelli di deontologia e di responsabilità professionale, concetti con cui il professionista deve confrontarsi quotidianamente, calando il concetto teorico di legalità nella vita lavorativa di tutti i giorni.
Il Prof. Costabile, docente di Sociologia presso l’Università della Calabria, traendo spunto da un suo libro di prossima pubblicazione (“La legalità in crisi”) ha parlato della visione del concetto di legalità nella società e nella vita politica ed economica. La pubblicazione prende avvio da un report, un’intervista effettuata ad amministratori pubblici e locali, dirigenti di PA e grandi imprenditori di cinque regioni italiane, interrogati sui temi della legalità e sulla sua mancanza nei diversi ambiti.
Ne è emerso uno sconfortante quadro che rappresenta un ampio divario tra la legalità “parlata” e quella “vissuta”, nel senso che a parole, e quindi in teoria, la legalità si afferma come valore estremamente positivo, condivisibile e auspicabile, mentre nella realtà dei fatti non soltanto l’illegalità è presente in tutti gli ambiti e sotto varie forme, ma quel che è più grave vi è una sorte di rassegnazione e di accettazione dello stato dei fatti. Un altro atteggiamento comune è quello della deresponsabilizzazione: tutti sentono il problema in tutta la sua gravità, ma tutti danno la “colpa” del sistema a chi sta più in alto: i cittadini verso la PA, la PA verso i dirigenti, i dirigenti verso il Governo e così via, mentre nessuno si interroga sulle proprie responsabilità. Il termine legalità viene comunemente inteso in due accezioni, entrambe riduttive e quindi errate: secondo una prima accezione la legalità si riduce al rispetto della legge, secondo un’altra accezione la cultura della legalità è legata alla consapevolezza di vivere in un sistema dove la giustizia e la politica funzionano, e dove il cittadino sa che se viola la legge viene punito e se gli viene fatto un torto gli verrà data giustizia. Il vizio di tale concezione, pur con l’importanza che ha l’opinione della collettività verso dello Stato, è che per converso non avrebbe senso parlare di legalità in un contesto in cui i cittadini hanno la sensazione che la giustizia e la politica “non funzionino”. L’errore di fondo di tale legalità “deduttiva” è quello di dipendere da qualcosa di eterodeterminato, qualcosa di superiore e indeterminato, e che giustifica quell’atteggiamento di deresponsabilizzazione e di colpevolizzazione del superiore gerarchico.
La giusta ottica per inquadrare il tema della legalità deve essere un’altra, e partire da ognuno di noi. La legalità deve essere vissuta come una “credenza”, ossia come un modo di pensare radicale e condiviso dalla collettività, come avviene in alcuni paesi del Nord Europa. In tal modo è la collettività stessa che si fa carico delle eventuali illegalità, e la sanzione sociale è certa, necessaria e sufficiente a sopperire alle eventuali carenze della giustizia istituzionale, che in tali sistemi diventa una sorta di extrema ratio, persino superflua nella maggior parte dei casi.
In un paese come il nostro a fianco della cultura della legalità e del senso dello Stato, che pure sono ben presenti, vi sono altre “sovrastrutture” –la famiglia, la religione, l’appartenenza politica etc.- con regole proprie che prescindono e spesso confliggono con la legge dello Stato, e questo è uno dei motivi per cui una vera cultura della legalità fatica ad attecchire.
L’intervento della Prof.ssa Piana, docente di Scienze Politiche presso Università di Bologna, si è invece incentrato sul concetto di “responsabilità”, che di per sé richiama quello di sanzione della norma deontologica. In inglese il “responsabilità” si traduce col termine “accountability”, che letteralmente vuol dire rendere conto a qualcuno, e quindi rispondere del proprio operato. Nella loro professione gli operatori del diritto (nella doppia accezione comune di giudici e avvocati) a chi “rendono conto” del loro operato? Certamente rendono conto, come qualunque altro cittadino, alla lettera della legge, ma ciò non è sufficiente. Un sistema di responsabilità e soprattutto di responsabilizzazione deve essere presente sin dai meccanismi di reclutamento degli operatori professionali del diritto, così come la responsabilità deve essere il perno dei meccanismi disciplinari.
Se il rispetto della norma non è sufficiente deve allora aversi riguardo ad un altro concetto: quello di efficienza. Come è noto, mentre l’efficacia è il rapporto tra gli obiettivi prefissati e gli obiettivi raggiunti, l’efficienza misura il rapporto tra gli obiettivi raggiunti e le risorse (in termini di tempo, denaro e personale) impiegati. Da questo punto di vista un giudice che emetta una sentenza perfettamente motivata, giusta ed ineccepibile dal punti di vista del diritto, ma dopo cinque o magari dieci anni di processo è un giudice efficace ma inefficiente: ha rispettato la lettera della legge sotto tutti i punti di vista, ma ha di fatto deluso la richiesta di giustizia da parte del cittadino. Un sistema di responsabilità degli operatori della giustizia deve allora ricomprendere anche un meccanismo di controllo dell’efficienza dell’operato. Ma altri profili della responsabilità emergono, e altri soggetti a cui “rendere conto”; il professionista deve infatti rendere conto anche al gruppo di appartenenza, che sia il gruppo degli avvocati o quello dei giudici, per subire, eventualmente, la giusta sanzione sociale del gruppo. Infine l’operatore del diritto (soprattutto il magistrato) deve “rendere conto” anche all’opinione pubblica, perché nel funzionamento della giustizia è fondamentale anche l’opinione che il comune cittadino ha della stessa.1 Gli attuali sistemi disciplinari sanzionatori sono e resteranno inefficaci fin quando non soddisferanno tutte queste diverse istanze di responsabilità.
L’intervento del Prof. Raniolo, docente di Scienze dell’Amministrazione presso l’Università della Calabria, prende spunto dal suo libro “Qualità della democrazia in Italia”, e tratta della legalità in relazione al delicato tema del rapporto tra dirigenza amministrativa e governo politico (spoil system). Come è noto, mentre i funzionari PA divengono tali a seguito di un sistema che verifica la loro competenza (concorso pubblico) i vertici del governo giungono a tali posizioni a seguito di un meccanismo basato sul pubblico consenso (elezioni pubbliche). In un tal sistema i vertici della PA si trovano a dover collaborare e in una certa misura a obbedire con vertici politici eterodeterminati, e tale rapporto si gioca sul filo della lealtà operativa ma anche dell’affidabilità: da un lato i dirigenti devono collaborare e realizzare le istanze politiche (qualunque esse siano), dall’altro devono essere oggettivi ed efficienti. Ma di quale governo? Con l’esempio del già nominato affresco del “Buon Governo”, un governo non deve solo produrre regole e rispettarle, ma deve anche essere regolato. Vi devono essere, cioè, delle regole alle quali il governo stesso non può che sottostare, e questo è il senso delle moderne democrazie costituzionali, ossia l’imposizione di regole al potere. Ciò per evitare governi dittatoriali, che pure erano formalmente rispettosi della legge (della propria). Ma la sconfitta dello stato di diritto non c’è solo con la dittatura, ma anche in altri due casi: quando lo stato di diritto cede di fronte allo stato di fatto (quando lo stato “cede le armi”) e quando qualche amministratore utilizza il pubblico come fosse una cosa propria. Questa seconda circostanza è certamente più frequente della prima, e accade spesso e in molti modi.
Come funziona il meccanismo di responsabilità disciplinare nella PA e tra gli operatori del diritto? Nel primo caso la responsabilità è eterodeterminata funzionalmente, mentre nel caso degli operatori è autodeterminata: è l’Ordine degli Avvocati a giudicare sui propri membri, e in buona misura sono i giudici (il CSM) a giudicare altri giudici. In questo secondo caso al controllo di aderenza alla norma deontologica si aggiunge il controllo diffuso all’interno del gruppo.
L’argomento principale dell’intervento del Dott. Petralia – Procuratore della Repubblica di Ragusa- è stato il Codice Etico dei magistrati raffrontato con il codice deontologico degli avvocati. Giudici e avvocati nel sistema giustizia hanno un ruolo contrapposto, ma sono accomunati dal background formativo, oltre che dal comune scopo di contribuire alla giustizia; ciò nonostante i rispettivi codici di condotta sono molto diversi. Quello degli avvocati è un vero codice deontologico comprensivo di norme e sanzioni disciplinari, e tra le altre cose comprende articoli dedicati al rapporto tra avvocati e giudici. Il codice di condotta promulgato dall’ANM si distanzia da tale esempio anche terminologicamente, in quanto non si intitola “codice deontologico”, bensì Codice Etico, e comprende delle dichiarazioni di principio che, però, sono prive di sanzione (e quindi non sono norme, come è noto). Peraltro dal raffronto tra i due codici manca ogni relazione di reciprocità, in quanto non è previsto alcun articolo (o meglio alcun principio) dedicato ai rapporti tra i giudici e gli avvocati, con cui pure si confrontano ogni giorno.
In realtà le norme deontologiche e di comportamento cui i giudici devono ispirarsi si trovano in altra sede, e precisamente nella legge sull’ordinamento giudiziario e nella legge sulla responsabilità civile dei magistrati. La differenza con gli altri codici deontologici è evidente: da un lato si tratta di una legge statale a tutti gli effetti, con l’esecutività delle sanzioni da questa prevista, dall’altro lato tutti i comportamenti passabili di sanzione sono analiticamente tipizzati. La tipizzazione dei comportamenti vietati ha il vantaggio (così come la tipicità della norma penale) di rendere certo il magistrato di cosa del proprio operato potrebbe dar luogo a responsabilità e cosa no, così da renderlo più sereno nello svolgimento delle quotidiane funzioni giudiziarie. Analogamente la legge sulla responsabilità civile dei magistrati ha lo scopo di “responsabilizzare” il giudice soprattutto davanti alla collettività, ma la stessa legge impedisce la citazione diretta in giudizio del magistrato, che deve rispondere del proprio operato davanti allo Stato, e non davanti al singolo. Anche questo espediente è finalizzato ad evitare che un giudice conformi il proprio operato ab origine in modo da evitare qualunque responsabilità, magari limitando al minimo il proprio intervento (un po’ come è successo con la classe medica e la cd. “medicina preventiva”). L’intervento è terminato con il doveroso ricordo delle figure di Falcone e Borsellino, esempio di operatori professionali del diritto sempre ispirati dal rispetto della legalità, al quale hanno consacrato e sacrificato la loro vita.
A fine del convegno è intervenuto l’Avv. Assenza, Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Ragusa, il quale ha tirato le fila degli interventi, e ha sottolineato come una delle difficoltà sia costituita dal fatto che esistono diversi codici deontologici per le diverse professioni, alcuni dei quali anche in conflitto tra loro2. Servirebbero dei principi ispiratori unici, e magari un unico codice deontologico professionale europeo (in effetti in lavorazione). D’altro canto bisogna anche evitare l’eccessivo formalismo della legalità, ossia il mero rispetto letterale della legge, senza interrogarsi sul significato della stessa, il che comporterebbe il passaggio dallo stato etico allo stato della legge al totalitarismo.
1 Mi permetto di aggiungere, e anzi di premettere alla lista di soggetti cui rendere conto del proprio operato professionale sé stessi, in quanto ognuno di noi dovrebbe confrontare il proprio lavoro quotidiano, prima ancora che con regole autodeterminate, con la propria coscienza etica di uomo, di cittadino e di professionista.
2 si pensi al codice di condotta dei giornalisti a fronte dell’obbligo di riservatezza degli avvocati
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