Resistenza a un pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) -scheda di diritto

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     Indice

  1. Inquadramento generale della fattispecie delittuosa
  2. Resistenza a un pubblico ufficiale (art. 337 c.p.)

1. Inquadramento generale della fattispecie delittuosa

La fattispecie delittuosa della violenza o minaccia a un pubblico ufficiale – art. 337 c.p. – è disciplinata dal libro secondo del codice penale – dei delitti in particolare – titolo II – dei delitti contro la pubblica amministrazione – capo II – dei delitti dei privati contro la pubblica amministrazione.

Si tratta di un delitto procedibile d’ufficio – art. 50 c.p.p. – e di competenza del tribunale monocratico – art. 33 ter c.p.p. – . L’arresto è facoltativo in flagranza – art. 381 c.p.p. – mentre non è consentito il fermo di indiziato di delitto. È consentita l’applicazione di misure cautelari personali – artt. 280 e 287 c.p.p. -.

La norma è posta a presidio del corretto funzionamento e del buon andamento della Pubblica Amministrazione. Invero, sono censurati quei comportamenti finalizzati a turbare la libertà di autodeterminazione, anche fisica, dei pubblici ufficiali.

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2. Resistenza a un pubblico ufficiale (art. 337 c.p.)

Dispone, testualmente, l’art. 337 c.p. che: “Chiunque usa violenza o minaccia per opporsi a un pubblico ufficiale (357) o ad un incaricato di un pubblico servizio (358), mentre compie un atto di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni (339)”.

Per completezza dell’esposizione, in premessa, giova ricordare che a norma dell’art. 393 bis c.p. – causa di non punibilità – introdotto dall’art. 1, comma 9, della legge 15 luglio 2009, n. 94 – Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, come modificato dall’art. 4 della legge 3 luglio 2017 n. 105 – Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e al testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570, a tutela dei Corpi politici, amministrativi o giudiziari e dei loro singoli componenti – “Non si applicano le disposizioni degli articoli 336, 337, 338, 339, 339 bis, 341 bis, 342 e 343 quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni.” Tale disposizione ha la funzione di scriminare i comportamenti perpetrati dai privati nei confronti della Pubblica Amministrazione, qualora il funzionario pubblico abbia agito oltrepassando il perimetro dei propri poteri conferiti in virtù della mansione svolta.

È arbitrario qualsiasi comportamento posto in essere nel compimento di funzioni pubbliche, consentite di per sé ma, che travalicano le finalità che portano all’attribuzione della stessa mansione violata. Sul punto si segnala la seguente statuizione della Corte di Cassazione: “È configurabile l’esimente della reazione ad atti arbitrari del pubblico ufficiale qualora il privato opponga resistenza al pubblico ufficiale che pretenda di sottoporlo a perquisizione personale finalizzata alla ricerca di armi e munizioni in assenza di elementi obiettivi idonei a giustificare l’atto, e dopo averlo accompagnato coattivamente in caserma in ragione del precedente rifiuto non già di declinare le generalità, ma di esibire i documenti di identità”. (Cass. Pen., 12 maggio 2011 n. 18841).


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L’espressione violenza o minaccia rappresenta la caratteristica essenziale della disposizione de qua poiché rappresentano mezzi volti a ledere la libera capacità di autodeterminarsi del soggetto passivo. Nella fattispecie delittuosa in scrutinio la violenza o la minaccia segue la commissione dell’atto esperito dal pubblico funzionario (pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio), quindi non lo precede, discostandosi dal delitto di cui all’art. 336 c.p. – violenza o minaccia a un pubblico ufficiale -. La violenza o la minaccia deve essere tale da non consentire effettivamente al funzionario pubblico la commissione dell’atto, ciò determina l’impossibilità di addebitare il delitto in scrutinio nelle ipotesi della cd. “resistenza passiva”, non potendo far rientrare nei concetti di violenza o minaccia ad esempio la fuga o al raggiro. Sul punto così dispone il recente arresto giurisprudenziale: In tema di resistenza a pubblico ufficiale, non è necessario, ai fini dell’integrazione del delitto, che sia concretamente impedita la libertà di azione del pubblico ufficiale, essendo sufficiente che si usi violenza o minaccia per opporsi al compimento di un atto dell’ufficio o del servizio, indipendentemente dall’esito, positivo o negativo, di tale azione e dall’effettivo verificarsi di un ostacolo al compimento degli atti indicati”. (Cass. Pen., 08 gennaio 2020, n. 5459).

La dottrina, pacificamente, configura la fattispecie delittuosa in commento come un delitto plurioffensivo, in quanto è volto a ledere il corretto funzionamento dell’Amministrazione Pubblica, sia la libertà di autodeterminazione della persona offesa (ovvero il funzionario pubblico). Giova ricordare che la norma in esame viene estesa anche al cittadino privato (quindi non pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio) che provveda all’arresto in flagranza come disposto dall’art. 383 c.p.p. – facoltà di arresto da parte dei privati -.

In relazione alla minaccia essa deve intendersi come la prospettazione di un male considerevole ed ingiusto, tale da coartare la volontà della parte passiva. La violenza, invece, deve essere ripartita in propria ed impropria.

La violenza propria è caratterizzata dall’uso di energia fisica su persone o cose, esperita in via diretta o in via mediata attraverso un oggetto volto ad offendere. La violenza impropria è da ricondurre all’uso di un qualsivoglia oggetto volto a carpire la volontà del funzionario pubblico, rendendo nulla la capacità di determinarsi liberamente.

Una recente statuizione della Corte di Cassazione affronta una delle tematiche più frequenti riguardanti il delitto de quo. La Corte nel presente arresto giudiziale risolve il rapporto tra resistenza a un pubblico ufficiale e rifiuto di sottoporsi ad alcolimetro nel seguente modo: Il reato di cui all’art. 186 comma 7 del d.lg. n. 285/1992 è reato a condotta istantanea che, nella specie, si è consumato con il comportamento di fuga posta in essere dall’imputato, mentre i militari che lo avevano fermato in evidente stato di ebbrezza stavano provvedendo ad organizzare le prove alcolimetriche; e non può considerarsi assorbito bensì concorre con quello di resistenza a pubblico ufficiale di cui all’art. 337 c.p., che si è realizzato attraverso condotte distinte e materialmente susseguenti consistite in spintoni e minacce per opporsi ai militari operanti che nel frattempo lo avevano raggiunto e cercavano di bloccarlo”. (Cass. Pen. 06 giugno 2018, n. 27530).

2.1. La questione di legittimità costituzionale

La norma in scrutinio è stata sottoposta al giudizio della Corte Costituzionale.

Il Giudice delle Leggi ha statuito nel seguente modo: E’ manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 337 c.p., sollevata, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 97 , primo comma, Cost., nella parte in cui prevede il limite minimo edittale di sei mesi di reclusione. (…) nel reato di resistenza non viene in considerazione il diritto del pubblico ufficiale al rispetto della propria dignità e libertà privata, bensì il diritto – dovere della Pubblica Amministrazione di non subire intralci nell’assolvimento dei suoi compiti. Il livello della pena minima edittale per questo reato è pertanto congruamente correlato all’esigenza di punire adeguatamente l’offesa arrecata alla P.A. da un tentativo diretto a impedire con violenza o minaccia l’attuazione della sua volontà”. (Corte Costituzionale, sentenza, 27 dicembre 1996, n. 425).

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