La questione viene in tal senso esplicitata: “ Si chiede alla Corte Costituzionale di valutare se l’art. 131-bis comma 2 ultimo periodo c.p. risulti in contrasto con gli artt. 3 e 27, comma 3 Cost. e con l’art. 117 comma 1 Cost. in relazione all’art. 49 comma 3 CDFUE nella parte in cui dispone che <<l’offesa non può altresì essere ritenuta di particolare tenuità (…) nei casi di cui agli articoli (…) 337 e (…), quando il reato è commesso nei confronti di un pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni>>.
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Il fatto
Il Tribunale di Torino convalidava l’arresto dell’imputato in ordine al reato di cui all’art. 337 c.p., ritenendo che, nel contesto in cui si trovarono, gli operatori di polizia giudiziaria avessero fatto un uso non irragionevole dei poteri coercitivi loro assegnati dall’ordinamento.
Successivamente alla convalida dell’arresto, l’imputato chiedeva, per il tramite del suo difensore, di procedere con le forme del rito abbreviato.
Ammesso il rito ed esaurita la discussione, il pubblico ministero sollecitava la condanna dell’imputato, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche; la difesa concludeva chiedendone l’assoluzione, ritenendo che, date le circostanze in cui era maturato il fatto, l’imputato non si fosse reso conto della qualità di pubblico ufficiale dei Carabinieri.
Il Tribunale sottolineava la corretta qualificazione giuridica del fatto nella fattispecie criminosa della “resistenza ad un pubblico ufficiale”, ex art. 337 c.p., confermandone la sussistenza sia dell’elemento oggettivo che dell’elemento soggettivo.
Più nello specifico, nel configurare gli elementi costitutivi del fatto, il Tribunale affermava innanzitutto che gli agìti dell’imputato ( consistiti nel menar calci, pugni e nel dare ginocchiate e testate) dovessero essere qualificati come “atti violenti” e che tale azione violenta fosse diretta, come previsto dall’art. 337 c.p., ad impedire ai pubblici ufficiali di compiere atti del loro ufficio; in secondo luogo evidenziava altresì la sussistenza dell’elemento soggettivo, escludendo che lo stato di ubriachezza potesse escludere la capacità di intendere e volere dell’ imputato (ex artt. 92 e 85 comma 2 c.p.) e ritenendo che, in quella circostanza, egli non potesse ignorare la qualità di pubblico ufficiale rivestita dai Carabinieri ( alcuni dei quali operavano in uniforme), né le ragioni del loro intervento. In tal senso, gli agìti dell’imputato non potevano risultare come coartati da fattori esterni, ma connotati da volontarietà.
La ricostruzione dei fatti riportata nel verbale di arresto risultava inoltre dettagliata ed affidabile.
Tuttavia, prima di pronunciarsi nel merito, il Tribunale, stabiliva che, nel caso di specie, l’offesa arrecata dalle condotte dell’imputato ai beni giuridici protetti dall’art. 337 c.p. dovesse, contrariamente a quanto espressamente delineato dal comma 2, ultimo periodo della norma introdotta con il d.l. n. 53 del 2019, essere inquadrata nell’art. 131-bis c.p.
In particolare, in seguito ad una attenta disamina dei beni giuridici tutelati dall’art. 337 c.p., ed identificati nel “regolare funzionamento della pubblica amministrazione” oltre che nella “sicurezza e libertà di determinazione ed azione degli organi pubblici, mediante la protezione delle persone fisiche che singolarmente o in collegio ne esercitano le funzioni” ( SS. UU. n. 40981 del 24/09/2018), il Tribunale di Torino riteneva che le modalità della condotta tenuta dall’imputato, l’insussistenza di lesioni personali a carico degli operatori dei Carabinieri, la modesta intensità del dolo nonché la assoluta occasionalità del comportamento, dovessero essere oggetto di una valutazione tale da ricondurre la condotta dell’imputato nell’ambito della “particolare tenuità ”, determinandone la non punibilità.
Alla luce delle predette considerazioni, il Tribunale riteneva necessario sospendere il procedimento e rimettere la valutazione della suesposta questione di legittimità alla Corte Costituzionale.
La rilevanza e non manifesta infondatezza della questione.
Il Tribunale, nell’illustrare il fondamento che sorregge la rilevanza dei dubbi di legittimità costituzionale sollevati, ribadisce la ratio nonché la stessa fisionomia dell’art. 131-bis c.p., richiamando una pronuncia della Corte di Cassazione che, intervenuta a Sezioni Unite con la sentenza n. 13681 del 2016, aveva già affermato come la causa di non punibilità in questione persegua “finalità connesse ai principi di proporzione ed extrema ratio (…) . Lo scopo primario è quello di espungere dal circuito penale fatti marginali che non mostrano bisogno di pena e, dunque, neppure la necessità di impegnare i complessi meccanismi del processo”.
Lo stesso Tribunale ritiene altresì che la preclusione dell’applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 131-bis c.p. al delitto di resistenza a un pubblico ufficiale, determini un contrasto con il principio di uguaglianza, di ragionevolezza nonché di proporzionalità cui deve essere informato il trattamento sanzionatorio.
Viene richiamata, a tale proposito, la pronuncia n. 40 del 2019, della Corte Costituzionale – che rappresenta solo l’approdo più recente di un orientamento costituzionale già consolidato – in merito alla sindacabilità dell’esercizio della discrezionalità legislativa in materia di trattamento sanzionatorio, attraverso la quale si delineano i principi costituzionali cui lo stesso deve ispirarsi, ovvero i principi di eguaglianza, proporzionalità, ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., oltre che il principio di rieducazione della pena di cui all’art. 27 Cost. Il principio di proporzione riceve peraltro una esplicita copertura costituzionale anche per effetto dell’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dall’Unione Europea.
Pertanto, secondo il Tribunale, i predetti schemi concettuali elaborati dalla Consulta debbono poter essere impiegati anche per sindacare la ragionevolezza e la proporzionalità del perimetro delle cause di non punibilità.
La valutazione della particolare tenuita’ del fatto: ratio e profili di irragionevolezza dell’art. 131-bis, comma 2 ultimo periodo c.p.
Nell’esplicare i dubbi di legittimità costituzionale nonché i conseguenti profili di irragionevolezza della scelta del Legislatore del 2019 di escludere espressamente dall’ambito di applicazione dell’art. 131-bis c.p. alcune specifiche figure criminose, il Tribunale evidenzia, da un lato, la scelta di politica criminale operata dal Legislatore all’epoca della introduzione della norma ( d.lvo n. 28 del 16 marzo 2015) ed suoi riflessi sulla applicabilità dell’istituto da parte dell’autorità giudiziaria. Dall’altro lato, tenta di ricercare nei lavori parlamentari che hanno accompagnato la recente riforma del 2019, un ulteriore o quantomeno giustificabile fondamento di politica criminale.
Sotto il primo profilo, si rileva come la soglia dei cinque anni di pena detentiva individuata dal Legislatore del 2015 quale cornice edittale massima entro la quale consentire una valutazione di particolare tenuità del fatto, sia frutto di una scelta del tutto ragionevole, considerata “la natura di extrema ratio della pena, la sua funzione rieducativa ed anche la necessità di contenere il gravoso carico di contenzioso penale che grava sulla giurisdizione” ( Corte costituzionale, ordinanza n. 279 del 2017).
Si afferma altresì come il Legislatore del 2015, pur compiendo una graduazione quantitativa basata sulla natura ed entità della pena, abbia comunque ragionevolmente limitato l’applicazione discrezionale della norma da parte dell’autorità giudiziaria in tutte quelle situazioni contingenti che risultano naturalmente incompatibili con l’idea di una “particolare tenuità”: crudeltà, sevizie, approfittamento delle condizioni di minorata difesa (elementi che rientrano nella modalità della condotta); morte o lesioni gravissime ( quali gravi conseguenze del reato); motivi abietti o futili, quali sintomo di una maggior intensità della colpevolezza.
Ebbene il Legislatore del 2015, ha in tal senso guidato e limitato la discrezionalità giudiziaria sulla base della evidente connotazione di alcune categorie del fatto storico.
Non sembra tuttavia, secondo il Tribunale, che il medesimo criterio di ragionevolezza sia stato seguito nel precludere l’applicazione della causa di punibilità di cui all’art. 131-bis c.p. al delitto di resistenza a un pubblico ufficiale (ed anche ai i reati previsti dagli artt. 336 e 341-bis c.p.), trattandosi in questo caso di una preclusione che si basa solo ed esclusivamente sul titolo del reato e che fuoriesce dalla valutazione di alcuni aspetti del fatto storico.
Pur volendo, infatti, ricercare un fondamento di politica criminale nella scelta del Legislatore del 2019 di voler operare tale differenziato trattamento sanzionatorio, sarebbe difficile poterlo individuare nella necessità di apportare una tutela rafforzata ai beni giuridici protetti dalle specifiche norme richiamate, oppure nel percorso seguito all’interno dei lavori parlamentari.
Sotto il primo aspetto, si afferma infatti che se la ratio di tale intervento riformatore fosse stata quella di rafforzare la tutela di determinati beni giuridici nonché quella di evidenziare la funzione general-preventiva della causa di non punibilità delineata dall’art. 131-bis c.p., non si spiegherebbe la mancata esclusione di molte altre figure criminose che, rientrando nella cornice edittale prevista dalla norma, sono preposte alla tutela dei medesimi beni giuridici.
Sotto il secondo aspetto, poi, non sembra emergere dai lavori parlamentari, alcuna esplicitazione della ragione di politica-criminale sottesa alla novella, se non quella di tutelare l’onore ed il prestigio delle forze dell’ordine nell’ambito di una visione “sacrale” dei rapporti tra cittadino e autorità.
Ebbene, a parere del Tribunale, tale lettura non sembra poter rappresentare una adeguata ragione giustificatrice del trattamento differenziato introdotto con la modifica dell’art. 131-bis c.p
Conclusioni
L’esclusione del delitto di cui all’art. 337 c.p. ( e di conseguenza anche dei reati disciplinati dagli artt. 336 e 341-bis c.p.) dalla applicabilità della causa di non punibilità della “particolare tenuità del fatto”, potrebbe, pertanto, costituire oltre che una violazione del principio di uguaglianza, anche una violazione del criterio di ragionevolezza che il legislatore avrebbe dovuto adottare nella adozione della scelta sanzionatoria oltre che di politica criminale.
In particolare, se la valutazione che il legislatore ha astrattamente compiuto nel prevedere l’art. 131-bis c.p. è strettamente collegata alla cornice massima edittale prevista per taluni reati, l’esclusione ingiustificata del delitto di cui all’ art. 337 c.p. dalla applicabilità della norma, rappresenterebbe semplicemente il frutto di un trattamento differenziato, ponendosi inevitabilmente in contrasto con il principio di uguaglianza.
D’altro canto e, di conseguenza, l’applicazione della preclusione predetta condurrebbe alla irrogazione di condanne anche in casi che non si rivelano “bisognosi di pena”, rischiando di entrare in contrasto, oltre che con la stessa ratio iniziale dell’istituto, anche e soprattutto con il principio di proporzionalità e con la funzione rieducativa della pena, consacrata nell’art. 27 della Costituzione.
In altri termini, seguendo il percorso argomentativo seguito dal giudice di primo grado, anche in considerazione dell’ orientamento della stessa giurisprudenza costituzionale, il principio di proporzionalità della pena dovrebbe trovare una applicazione che non sia circoscritta solo al quantum della sanzione, ma che possa invece estendersi anche ad una valutazione di ragionevolezza della necessità di una sanzione penale.
Spetterà, pertanto, alla Corte Costituzionale la valutazione dei suesposti profili di contrasto.
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