PARAGRAFI
o Il nesso di causalità nella responsabilità contrattuale e nella responsabilità medica
o Nesso di causalità: la regola del “più probabile che non” e le differenze con l’ambito penale
o La regola probatoria della “preponderanza dell’evidenza”
o Considerazioni conclusive
Nell’evoluzione dei principi e dei criteri posti a presidio e limite della responsabilità medica, un ruolo sicuramente rilevante va riconosciuto all’approdo giurisprudenziale, con riguardo al tema del nesso di causalità, raggiunto negli ultimi anni dalle pronunce della Corte di Cassazione e da ultimo con le sentenze di San Martino (n. 28991 e 28992 del __2019).
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Viene finalmente ricostruito un sistema probatorio e causale senza differenze tra tipi di responsabilità: nella misura in cui si riconduce la causalità contrattuale nel più generale alveo del nesso causale tout court, è evidente che trattasi di un fatto costitutivo del diritto, la cui prova incombe sul paziente.
Il “problema”, secondo i giudici di legittimità si sposta, infatti, sul riparto degli oneri probatori, sull’operatività della regola del “più probabile che non”, ovvero del criterio della “probabilità prevalente”.
Nei giudizi risarcitori da responsabilità medica, la Corte, conferma la “teoria del ciclo causale inverso”, applicando il nesso di causalità materiale al rapporto fra condotta inadempiente ed evento lesivo della salute.
Il principio a cui si perviene è quello per cui il creditore-danneggiato deve provare il nesso di causalità fra l’insorgenza o l’aggravamento della patologia o la morte e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto), mentre spetta al debitore-danneggiante dover provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto).
Solo dopo che il creditore-danneggiato abbia dimostrato che l’aggravamento della patologia o la morte sia eziologicamente riconducibile alla condotta del danneggiante il debitore (ospedale o medico), è tenuto a provare che l’inadempimento è derivato da causa a lui non imputabile.
Il nesso di causalità nella responsabilità contrattuale e nella responsabilità medica
Il principio appena enunciato, tiene conto della peculiarità della responsabilità medica, rispetto alla “generale” responsabilità contrattuale, in cui l’interesse primario è quello della guarigione e l’oggetto dell’obbligazione è il diligente svolgimento della prestazione ex art. 1172 co. 2 c.c.
Nella responsabilità contrattuale, invece, la soddisfazione dell’interesse è affidata alla prestazione che forma oggetto dell’obbligazione; ciò vuol dire che la lesione dell’interesse, in cui si concretizza il danno evento, è cagionata dall’inadempimento stesso.
Infatti, l’inadempimento consta nel mancato compimento della prestazione dovuta dal debitore, il quale ha determinato la lesione dell’interesse del creditore ad ottenere la prestazione convenuta.
Così, ad esempio, se il venditore non adempie all’obbligo di consegnare la cosa al compratore, con la sua inadempienza egli avrà leso l’interesse del compratore ad ottenere il la cosa pattuita.
Ne deriva che, in tali casi, la causalità materiale, pur teoricamente distinguibile dall’inadempimento per la differenza fra eziologia ed imputazione, non è praticamente separabile dall’inadempimento medesimo.
Per tali ragioni, il creditore, non deve dare prova nel nesso di causalità materiale, ma sarà sufficiente la mera allegazione del nesso causale, rectius dell’inadempimento.
Il creditore, al limite, sarà tenuto a fornire la prova della causalità giuridica, ossia a dare prova che oltre alla lesione del suo interesse alla prestazione è altresì scaturito un danno conseguenza, come nell’esempio del venditore, un danno al patrimonio per mancata consegna della cosa pattuita ex art. 1223 c.c.
In questi termini, l’assorbimento pratico della causalità materiale nell’inadempimento fa sì che il tema di prova del creditore resti solo quello della causalità giuridica (dalla condotta del debitore è altresì scaturito un danno conseguenza.
Tuttavia, siffatto iter logico-giuridico concernente le obbligazioni comuni, non implica che per le obbligazioni professionali, quali ad esempio in ambito di responsabilità medica, l’inadempimento del sanitario fondi necessariamente la sua responsabilità.
In effetti, nell’ambito medico, “l’interesse corrispondente alla prestazione è solo strumentale all’interesse primario del creditore” (che, nel caso del “facere” professionale del sanitario, è quello alla guarigione).
Al riguardo va rilevato che, se anche la guarigione dalla malattia non sia dedotta in obbligazione, costituisce pur sempre un motivo soggettivo che non resta estrinseco rispetto al contratto d’opera professionale e dove saremo tutti d’accordo nel ritenere che non c’è obbligazione di diligenza professionale del medico se non in vista, per entrambe le parti, del risultato della guarigione dalla malattia.
Conseguentemente sia pure oggetto della prestazione sanitaria è solo “il perseguimento delle “leges artis” nella cura dell’interesse del creditore” (o, altrimenti detto, il diligente svolgimento della prestazione professionale), resta il fatto che la lesione che il paziente ha materialmente subito a causa della condotta negligente del medico è un’altra, ossia la lesione al diritto alla salute.
Pertanto, se il mancato compimento dell’attività diligente non coincide con il danno evento patito dal paziente, poiché l’inadempimento è sempre il mancato soddisfacimento dell’interesse del creditore ad ottenere la prestazione indicata nel contratto (svolgimento di un’attività medica diligente) la causalità materiale, verrà a coincidere con l’interesse primario del paziente alla salvaguardia del diritto alla salute.
Il “danno evento”, in termini di aggravamento della situazione patologica o di insorgenza di nuove patologie, è dunque, non l’interesse affidato all’adempimento della prestazione professionale, ma quello presupposto corrispondente al diritto alla salute.
In ultima analisi, l’inadempimento del medico non fonda immediatamente la sua responsabilità, fino a quando non si colleghi eziologicamente alla lesione del diritto alla salute, la cui prova è a carico del paziente attore.
Dalle considerazioni svolte si può, quindi, concludere che, nei giudizi di responsabilità medica, il paziente non può limitarsi ad affermare in giudizio di aver subito un danno alla salute a causa della negligenza del medico, ma sarà necessario che egli dia dimostrazione che, a causa della condotta del medico, si è verificata l’insorgenza di nuove patologie o l’aggravamento della situazione patologica in atto.
Nesso di causalità: la regola del “più probabile che non” e le differenze con l’ambito penale.
Se la causalità materiale rappresenta, dunque, il collegamento tra la condotta del danneggiante e l’evento lesivo lamentato, il cuore della questione consiste nell’individuare i criteri secondo i quali il giudice, in presenza di elementi di prova che riguardano l’enunciato relativo all’esistenza di un nesso causale, stabilisce se tale enunciato ha o non ha ricevuto una adeguata conferma probatoria.
In tema di nesso di causalità, discutere della causalità materiale significa, allora, interrogarsi su di una regola probatoria, che muta sul piano civile rispetto a quello penale.
Di teorie causali ve ne sono molte (per esempio, quella condizionalistica, la causalità umana, la causalità adeguata, la signoria dell’uomo sul fatto, lo scopo della norma violata, il rischio tipico), ma una regola vera e propria a ben vedere non c’è.
Una regola causale non esiste e non può esistere, perché la causalità non è regolabile, essendo una relazione tra fatti, come tale non regolabile normativamente.
Il nesso di causalità è una costruzione logica dove l’affermazione dell’esistenza di quel nesso tra una condotta illecita ed un danno costituisce oggetto di un ragionamento logico-deduttivo, non di un accertamento fattuale.
Nella ricostruzione del nesso causale, sul piano probatorio, ciò che muta sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è che nel primo vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio” (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002, n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”.
Tale differenziazione ha trovato la propria giustificazione nella circostanza che nel processo civile vi è pressoché equivalenza dei valori in gioco tra le due parti contendenti (attore e convenuto), mentre nel processo penale non vi è la stessa equivalenza.
Da tener presente, inoltre, la differente morfologia e funzione dei due sistemi, poiché da un lato l’illecito penale ruota intorno al reo, dall’altro, l’illecito civile si concentra sul danneggiato.
Del resto, il sistema penale si fonda sul principio di personalità della pena (art. 27 c. 1 c.p.), mentre quello civile, sulla patrimonialità del risarcimento.
La regola probatoria della preponderanza dell’evidenza
Chiarite, pertanto, le ragioni dell’operatività della regola probatoria del “più probabile che non”, nel processo civile occorre illustrarne le modalità di applicazione, specie con riferimento ai giudizi di responsabilità medica.
Detta regola, anche denominata, come “preponderanza dell’evidenza”, costituisce, in realtà la combinazione di due regole: la regola del “più probabile che non” e la regola della “prevalenza relativa” della probabilità.
“La regola del “più probabile che non”, in particolare – per riprendere tale impostazione dommatica – “implica che rispetto ad ogni enunciato si consideri l’eventualità che esso possa essere vero o falso, ossia che sul medesimo fatto vi siano un’ipotesi positiva ed una complementare ipotesi negativa”, sicchè, tra queste due ipotesi alternative, il giudice deve scegliere quella che, in base alle prove disponibili, ha un grado di conferma logica superiore all’altra” [1]
La regola della “prevalenza relativa” si applica quando sullo stesso fatto vi siano diverse ipotesi che lo raccontano in modo diverso (la cosiddetta multifattorialità nella produzione dell’evento di danno tra cui condotta del medico, patologie pregresse del paziente, o sue peculiari condizioni di salute), e alcune tra le molteplici ipotesi abbiano avuto conferma dalle prove allegate
Il giudice sceglierà, quindi, come “vero” l’enunciato che ha ricevuto il grado relativamente maggiore di conferma sulla base delle prove disponibili.
Il corollario di quanto procede è che la ragionevole probabilità che quella causa abbia provocato quel danno va intesa non in senso statistico, ma logico: cioè non in base a regole astratte, ma in base alle circostanze del caso concreto;
Pertanto, “in presenza di più possibili e diverse concause di un medesimo fatto, nessuna delle quali appaia né del tutto inverosimile, né risulti con evidenza avere avuto efficacia esclusiva rispetto all’evento, è compito del giudice valutare quale di esse appaia “più probabile che non” rispetto alle altre nella determinazione dell’evento, e non già negare l’esistenza della prova del nesso causale, per il solo fatto che il danno sia teoricamente ascrivibile a varie alternative ipotesi”.[2]
Viene così a delinearsi un modello di “certezza probabilistica”, in tema di nesso di causalità, nel quale “il procedimento logico-giuridico da seguire ai fini della ricostruzione del nesso causale implica che l’ipotesi formulata vada verificata riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma presenti nel caso concreto e, nel contempo, escludendo le altre possibili alternative.
Detto in altre parole, il giudice, avvalendosi dei contenuti della consulenza tecnica, deve pervenire alla riferibilità causale dell’evento all’ipotetico responsabile solo se esso sia “più probabile che non” per la presenza di fattori che con criteri di probabilità lo riconducano ad esso e per l’assenza di fattori che lo colleghino invece ad altra causa.
Va da sé che il giudice quando non si tratti di una causalità del tutto evidente, specie nei giudizi di responsabilità medica, dovrà necessariamente avvalersi dell’ausiliario (in questo caso la c.t.u. diventa un mezzo necessario per provare questo elemento): solo il perito potrà stabilire se c’è o non c’è questa probabilità di derivazione del danno dal fatto colposo del medico.
Considerazioni conclusive
Dalle riflessioni sin qui svolte, si traggono alcune indicazioni operative importanti, per ciò che attiene i profili del nesso di causalità nella responsabilità medica, che possiamo riassumere come segue.
Il nesso causale deve essere sempre provato dal paziente che assuma di essere stato danneggiato.
Tuttavia, dal momento che il nesso causale, in quanto relazione tra fatti, è tipicamente un giudizio, sarebbe improprio parlare di accertamento fattuale.
Il nesso di causa è una costruzione logica dove la relazione tra due fatti costituisce oggetto di un ragionamento logico-deduttivo, non di un accertamento fattuale.
Pertanto, ciò che deve essere debitamente provato sono i fatti materiali sui quali il suddetto ragionamento si fonda e la prova di tali fatti può essere data con ogni mezzo, ivi comprese le presunzioni semplici.
Il procedimento logico-giuridico da seguire ai fini della ricostruzione del nesso causale implica che l’ipotesi formulata vada verificata nell’ambito degli elementi probatori disponibili in relazione al caso concreto.
La ragionevole probabilità, infatti, è da intendersi non in base a regole astratte bensì in relazione alle evidenze del caso concreto; ciò comporta che, quant’anche statisticamente improbabile, può ravvisarsi la genesi del danno, anche laddove le altre possibili cause fossero ancor più improbabili, e non siano concepibili altre possibili cause.
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Note
[1] Così Cass. Civ. Sez. 3, Ordinanza 6 luglio 2020, n. 13872
[2] così Cass. Civ. Sez. 3, Sentenza n. 23933 del 22/10/2013
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