Responsabilità medica in equipe sussiste soltanto nel caso di errori evidenti e non legati ad un settore specifico di competenza di uno dei medici facenti parte dell’equipe

 

 

Fatto

 

Nella sentenza oggetto di commento, la corte di appello di Milano si è trovata a decidere su di una domanda formulata nei confronti della struttura sanitaria, cui si era rivolta una paziente per un intervento chirurgico di diversione biliopancreatica, nonché nei confronti del medico che aveva eseguito detta operazione, a causa delle conseguenze dannose che ne erano derivate.

In particolare, vi erano stati degli errori da parte dell’anestesista sia prima che successivamente l’intervento chirurgico di cui sopra: infatti, l’anestesista non aveva correttamente valutato il rischio specifico nella fase preparatoria e conseguentemente non aveva valutato correttamente i parametri vitali della paziente nella fase postoperatoria, circostanza che aveva impedito di accorgersi dell’imminente arresto respiratorio della paziente che si sarebbe verificato poche ore dopo l’esecuzione dell’intervento. Inoltre l’anestesista aveva errato anche nella somministrazione del dosaggio della morfina, avendo somministrato un dosaggio abnorme e inadeguato rispetto alla situazione della paziente stessa, contribuendo in tal modo alle problematiche respiratorie che si erano verificate subito dopo.

Parte attrice aveva così ardito il tribunale di Pavia chiedendo il risarcimento dei danni connessi a detto intervento; mentre la struttura sanitaria si era costituita chiedendo il rigetto delle domande avanzate da parte attrice nonché la condanna del medico chirurgo che aveva eseguito l’operazione a manlevare la struttura sanitaria stessa, in quanto ritenuto esclusivo responsabile dell’evento dannoso. Infine, si era costituito in primo grado il chirurgo chiedendo il rigetto delle domande di manleva formulate nei suoi confronti dalla struttura sanitaria.

Il tribunale di Pavia aveva accertato la responsabilità della struttura sanitaria nella determinazione dei danni subiti dall’attrice e conseguentemente l’aveva condannata al risarcimento dei medesimi, liquidati in oltre €.370.000; mentre aveva rigettato la domanda di manleva formulata dalla struttura sanitaria nei confronti del medico chirurgo ritenuto non responsabile del sinistro.

Non soddisfatta della decisione di primo grado, la struttura sanitaria ha promosso appello avverso la suddetta sentenza, chiedendo alla corte di appello di Milano di riformarla sulla base di due motivi: in primo luogo, in quanto il giudice di prime cure si era limitato a condividere in maniera acritica la c.t.u.; in secondo luogo, in quanto lo stesso non aveva accertato la responsabilità del medico chirurgo, in via solidale con la struttura sanitaria, nella produzione dei danni subiti da parte attrice.

La decisione della Corte di Appello

I giudici di secondo grado hanno rigettato l’appello promosso dalla struttura sanitaria ritenendo che entrambi i motivi di doglianza fossero infondati.

Per quanto concerne il primo motivo fatto valere dalla struttura sanitaria e relativo alla accettazione acritica, da parte del giudice di primo grado, delle risultanze della c.t.u., il collegio di secondo grado ha rilevato come la c.t.u. si fosse svolta in primo grado in contraddittorio con i consulenti tecnici delle parti, attraverso la condivisione della bozza di relazione e le osservazioni da parte dei consulenti di parte nonché le conseguenti risposte del c.t.u. Inoltre, la stessa appellante aveva confermato come i propri consulenti di parte non avessero formulato alcuna osservazione alla bozza di c.t.u.

Ciò premesso, la corte di appello ha evidenziato come, nonostante il deposito della CTU fosse avvenuto regolarmente, nessuna delle parti, in occasione dell’udienza successiva a detto deposito, avesse formulato contestazioni in merito alle risultanze cui la stessa era divenuta.

A tal proposito, i giudici hanno ribadito come le contestazioni alla consulenza tecnica di ufficio sono inquadrate come delle vere e proprie eccezioni rispetto al contenuto della medesima relazione e pertanto sono sottoposte al termine di decadenza previsto dal codice di rito entro la prima udienza o difesa successiva al deposito della relazione. In altri termini, secondo il collegio, le parti interessate a contestare le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio debbono necessariamente, a pena di decadenza, far valere le loro contestazioni entro la prima difesa utile successiva al deposito della relazione stessa. Spirato detto termine, senza la formulazione delle contestazioni, la parte non può più sollevarle.

Inoltre, secondo il Collegio meneghino, la parte che faccia valere in appello di aver rivolto in primo grado delle critiche alla consulenza tecnica e che queste non siano state prese in considerazione dal giudice di primo grado, deve necessariamente evidenziare nell’appello il momento in cui ha sollevato dette contestazioni e deve trascriverne almeno i contenuti salienti, per consentire al giudice di appello di valutare sia la tempestività della proposizione della contestazione nonché il fatto che la stessa sia decisiva e rilevante ai fini della decisione d’appello. Ebbene, nel caso di specie, la corte di appello ha ritenuto che l’istituto di cura non avesse rispettato tali regole, avendo anche omesso di indicare all’interno del proprio appello in quale atto, durante il giudizio di primo grado, avesse proposto la contestazione alla c.t.u.

I giudici di secondo grado hanno, poi, rigettato anche il secondo motivo di impugnazione proposto dalla struttura sanitaria, confermando che nel caso di specie, non potesse essere imputata al medico chirurgo alcuna responsabilità per i danni subiti da parte attrice.

A tal proposito, il collegio ha escluso la applicabilità al caso di specie dei principi giurisprudenziali elaborati in tema di responsabilità sanitaria in equipe, ciò in considerazione del fatto che tali principi si applicano soltanto nei casi in cui il medico, nell’esecuzione dell’intervento, collabora con altri operatori sanitari i quali siano con lui coordinati. In tali casi, infatti, si può far valere il mancato controllo di un medico sull’operato degli altri medici e sugli errori da questi commessi, qualora detti errori siano evidenti e non siano relativi ad uno specifico settore di competenza del sanitario facente parte dell’equipe. Al contrario, nel caso in cui l’errore sia settoriale, cioè connesso ad uno specifico settore di competenza di uno dei medici che hanno partecipato all’intervento in equipe, non può farsi valere una responsabilità per omessa vigilanza in capo agli altri sanitari.

Ebbene, nel caso di specie, il collegio ha ritenuto che l’errore anestesiologico commesso sia del tutto settoriale e relativo alla competenza specifica dell’anestesista, rispetto al quale il chirurgo non può rispondere (soprattutto per l’errore legato alla non corretta somministrazione della morfina, che addirittura era stato commesso quando l’intervento chirurgico era concluso da tempo).

Infatti, secondo il collegio, la responsabilità dei medici facenti parte dell’equipe per i fatti posti in essere dall’anestesista, può ricorrere soltanto nel caso di errori o omissioni clamorose. Al netto di tali ipotesi particolari, ogni sanitario facente parte dell’equipe deve vigilare sulla correttezza dell’attività professionale degli altri medici, anche rimediando agli errori da questi commessi, soltanto quando detti errori non siano settoriali (quindi non siano specifici di una determinata competenza di uno dei medici) e siano evidenti, in modo che anche gli altri medici possano rilevarli e emendarli grazie alle ordinarie conoscenze scientifiche di un professionista medico medio. Qualora ciò non si configuri, dell’errore risponde soltanto il soggetto che lo ha commesso, oppure colui il quale ha la direzione dell’intervento.

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Sentenza collegata

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Avv. Muia’ Pier Paolo

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