Come è stato osservato in dottrina, rispetto al dovere di correttezza precontrattuale di cui all’art. 1337 cod. civ., la reazione negativa del legislatore nei confronti della attività prenegoziale di una delle parti trovava, dunque, la sua principale ragion d’essere nel fatto che quest’ultima, interrompendo la trattativa, impediva la nascita di quei valori meritevoli di tutela che il contratto (sfumato o invalidamente concluso) avrebbe perseguito.
Va richiamata, in questa prospettiva, anche l’originaria (e ormai anch’essa abbandonata) concezione della causa del contratto come funzione socio-economica, che postulava l’idea che l’autonomia negoziale dovesse necessariamente perseguire una funzione (non solo individualmente, ma) anche socialmente utile. Idea ulteriormente ribadita dall’art. 1322, secondo comma, cod. civ., che, nel riconoscere all’autonomia negoziale la possibilità di concludere contratti anche diversi dai tipi normativi, subordina(va), tuttavia, tale riconoscimento alla condizione, ulteriore rispetto alla mera liceità, che il contratto fosse comunque diretto a perseguire “interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”.
L’originario significato di tale previsione è ben esplicitato, ancora un volta, dalla Relazione al Re in cui si legge (par. n. 603): “l’ordine giuridico, infatti, non può apprestare protezione al mero capriccio individuale, ma a funzioni utili, che abbiano una rilevanza sociale e, come tali, meritino di essere tutelate dal diritto”. Nel contesto così descritto, i valori della dignità umana e della libertà, sia pur presenti, restavano, di fatto, assorbiti dal prius dell’interesse economico nazionale e dell’utilità sociale.
Queste considerazioni consentono di individuare la ratio “storica” degli articoli 1337 e 1338 cod. civ. L’ordinamento (codicistico), non essendosi attuato uno scambio economico meritevole di protezione, interveniva per ripristinare la situazione patrimoniale lesa. È manifesto, in tale impostazione, l’afflato economicistico e produttivistico: si apprestano strumenti risarcitori di fronte all’inutilizzazione (mancata conclusione del contratto) od allo sperpero (contratto invalido) di valori patrimoniali.
In questa ricostruzione storica, la “positivizzazione” che gli articoli 1337 e 1338 cod. civ hanno dato alla c.d. responsabilità precontrattuale aveva rappresentato una novità rispetto al codice previgente, nel vigore del quale, la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, influenzate dal “dogma volontaristico”, avevano per molto tempo ritenuto che il recesso dalle trattative fosse un diritto che non potesse essere sindacato e tanto meno dare vita all’obbligo di risarcire i danni all’altro contraente.
La specifica attenzione che il codice civile del 1942 volle, invece, dedicare al dovere di correttezza precontrattuale, e alla conseguente responsabilità derivante dalla sua trasgressione, si spiegava, quindi, proprio alla luce dello stretto rapporto esistente tra i dovere di correttezza precontrattuale e i valori della c.d. solidarietà corporativa.
Il superamento dell’ordinamento corporativo (e con esso del regime e della cornice ideologica nell’ambito del quale è maturato il codice civile del 1942), e il successivo avvento della Costituzione repubblicana abbiano determinato l’avvio di un processo (cui hanno contribuito tanto la dottrina quanto la giurisprudenza civilistica) di rilettura e rivisitazione, in un’ottica costituzionalmente orientata, di numerose disposizioni codicistiche, specie di quelle che, come l’art. 1337 cod. civ., utilizzano “clausole generali” (la buona fede appunto), destinate, per loro stessa natura, ad adeguarsi ai mutamenti che interessano l’ordinamento giuridico e la società civile.
Nel mutato quadro costituzionale, è affermazione largamente condivisa quella secondo cui il dovere di comportarsi secondo correttezza e buona fede rappresenta una manifestazione del più generale dovere di solidarietà sociale che trova il suo principale fondamento nell’articolo 2 della Costituzione (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. I, 12 luglio 2016, n. 14188).
Il generale dovere di solidarietà che grava reciprocamente su tutti i membri della collettività, si intensifica e si rafforza, trasformandosi in dovere di correttezza e di protezione, quando tra i consociati si instaurano “momenti relazionali” socialmente o giuridicamente qualificati, tali da generare, unilateralmente o, talvolta, anche reciprocamente, ragionevoli affidamenti sull’altrui condotta corretta e protettiva.
La teoria del “contatto sociale qualificato” ha avuto il merito di avere messo bene in luce il legame esistente tra l’ambito e il contenuto dei doveri di protezione e correttezza, da un lato, e il grado di intensità del momento relazionale e del conseguente affidamento da questo ingenerato, dall’altro.
Un ricorrente elemento che contribuisce a qualificare il contatto sociale come fonte di doveri puntuali di correttezza a tutela dell’altrui affidamento è certamente rappresentato dal particolare status – professionale e, talvolta, pubblicistico – rivestito dai protagonisti della vicenda “relazionale”.
Da chi esercita, ad esempio, un’attività professionale “protetta” (ancor di più se essa costituisce anche un servizio pubblico o un servizio di pubblica necessità) e, a maggior ragione, da chi esercita una funzione amministrativa, costituzionalmente sottoposta ai principi di imparzialità e di buon andamento (art. 97 Cost.), il cittadino si aspetta uno sforzo maggiore, in termini di correttezza, lealtà, protezione e tutela dell’affidamento, rispetto a quello che si attenderebbe dal quisque de populo.
Nella moderna lettura costituzionalmente orientata, il dovere di correttezza ha così conquistato una funzione (ed un conseguente ambito applicativo) certamente più ampia rispetto a quella concepita dal codice civile del 1942. La “funzione” del dovere di correttezza non è più tanto (o solo) quella di favorire la conclusione di un contratto (valido) e socialmente utile. Nel disegno costituzionale, che pone al centro l’individuo (art. 2 Cost.), l’attenzione si sposta dal perseguimento dell’utilità sociale alla tutela della persona e delle sue libertà.
In particolare, come la giurisprudenza civile ha in più occasioni avuto modo di evidenziare, il dovere di correttezza (nella sue proteiformi manifestazioni concrete) è, nella maggior parte dei casi, strumentale alla tutela della libertà di autodeterminazione negoziale, cioè di quel diritto (espressione a sua volta del principio costituzionale che tutela la libertà di iniziativa economica) di autodeterminarsi liberamente nelle proprie scelte negoziali, senza subire interferenza illecite derivante da condotte di terzi connotate da slealtà e scorrettezza.
Il nuovo legame che così si instaura tra dovere di correttezza e libertà di autodeterminazione negoziale (che va a sostituire l’impostazione precedente che legava alla correttezza la tutela dell’interesse nazionale) impedisce allora di restringerne lo spazio applicativo alle sole situazioni in cui sia stato avviato un vero e proprio procedimento di formazione del contratto o, comunque, esista una trattativa che abbia raggiunto già una fase molto avanzata, tanto da far sorgere il ragionevole affidamento circa la conclusione del contratto.
Al contrario, la valenza costituzionale del dovere di correttezza impone di ritenerlo operante in un più vasto ambito di casi, in cui, pur eventualmente mancando una trattativa in senso tecnico-giuridico, venga, comunque, in rilievo una situazione “relazionale” qualificata, capace di generare ragionevoli affidamenti e fondate aspettative.
L’attuale portata del dovere di correttezza è oggi tale da prescindere dall’esistenza di una formale “trattativa” e, a maggior ragione, dall’ulteriore requisito che tale trattativa abbia raggiunto un livello così avanzato da generare una fondata aspettativa in ordine alla conclusione del contratto.
Ciò che il dovere di correttezza mira a tutelare non è, infatti, la conclusione del contratto, ma la libertà di autodeterminazione negoziale: tant’è che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, il relativo danno risarcibile non è mai commisurato alle utilità che sarebbero derivate dal contratto sfumato, ma al c.d. interesse negativo (l’interesse appunto a non subire indebite interferenze nell’esercizio della libertà negoziale) o, eventualmente, in casi particolari, al c.d. interesse positivo virtuale (la differenza tra l’utilità economica ricavabile dal contratto effettivamente concluso e il diverso più e più vantaggioso contratto che sarebbe stato concluso in assenza dell’altrui scorrettezza).
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