(Ricorso rigettato – orientamento confermato)
Il fatto
Con sentenza del 27 maggio 2013, la Corte d’Appello di Ancona aveva rigettato il gravame proposto dal ricorrente avverso la sentenza del Tribunale di Ancona, con la quale era stata solo parzialmente accolta l’opposizione a intimazione di pagamento notificata nei confronti del ricorrente.
In particolare, l’intimazione di pagamento in oggetto era stata notificata al ricorrente (tornato in bonis) da un creditore precedentemente insinuato al passivo del fallimento instaurato nei confronti di quest’ultimo, e successivamente revocato.
Ciò che viene, dunque, in rilievo nella sentenza in parola è – in estrema sintesi – la natura e gli effetti da attribuire al provvedimento di revoca della sentenza dichiarativa di fallimento, per determinarne le conseguenze ai sensi e per gli effetti dell’art. 2945 c.c.
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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Il ricorrente ha impugnato la sentenza di secondo grado parzialmente favorevole in Cassazione eccependo, ai fini che qui interessano, (i) la violazione o falsa applicazione dell’art. 21 legge fall., nel testo anteriore alle modifiche apportate dal D. Lgs. 5/2006, e (ii) la conseguente falsa applicazione dell’art. 94, co.1, legge fall., per non avere la Corte d’Appello ritenuto che la revoca della dichiarazione di fallimento caducasse ogni effetto riconnesso agli atti di parte posti in essere in occasione della procedura, determinando quindi la perdita di ogni effetto sulla prescrizione delle domande di ammissione al passivo. In buona sostanza, il ricorrente ha attribuito alla revoca del fallimento portata estintiva, ritenendo che la prescrizione – secondo il ricorrente – dovesse decorrere dalla data deposito della domanda di ammissione al passivo ai sensi dell’art. 2945, comma 3, c.c. e non dalla revoca ai sensi dell’art. 2945, comma 2, c.c.
Con la sentenza in commento, nel solco già tracciato dalla sentenza n. 19125/2006, nel rigettare il ricorso in parola, la Suprema Corte (i) ha stabilito (in maniera chiara e inequivoca) che la revoca della dichiarazione di fallimento non può ricondursi ad una pronuncia di estinzione; (ii) ha ribadito che l’istanza di insinuazione al passivo ha portata interruttiva ex art. 2493 c.c.
La giurisprudenza e la dottrina in materia
Quanto al primo punto, secondo la sopra richiamata Cass. 6 settembre 2006 n. 19125/2006, la revoca del fallimento – ancorché disposta per vizi processuali o per incompetenza del giudice – lascia salvi gli effetti prodotti dalle domande di ammissione al passivo sul decorso del termine di prescrizione dei relativi crediti.
La revoca del fallimento, cioè, non è assimilabile ad un provvedimento estintivo del giudizio, ma – ai sensi dell’art. 2495, comma 2, c.c. – ad una pronuncia che lo definisce (il giudizio).
Per mero scrupolo, giova rappresentare che la stessa pronuncia chiarisce, inoltre, che – sul punto – non rileva il disposto dell’art. 21 legge fall. – abrogato, con effetto dal 16 luglio 2006, dall’art. 18 del D. Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, pubb. in Gazz. Uff. n. 12 del 16 gennaio 2006 -, che si riferiva agli atti degli organi della procedura, e non invece a quelli compiuti nei confronti di essa.
Quanto al secondo punto, invece, preme richiamare il consolidato principio secondo cui l’istanza di insinuazione al passivo ha portata interruttiva della prescrizione, con effetti permanenti fino alla chiusura del procedimento concorsuale (da ultimo, Cass. n. 17995/2018).
In merito, giova esaminare brevemente lo scopo e la funzione dell’art 2493 c.c., nonché la giurisprudenza in materia.
Lo scopo dichiarato dell’articolo in oggetto, infatti, è quello di garantire che la prescrizione non operi qualora sopraggiunga una causa che faccia venire meno l’inerzia del titolare, venendo a mancare pertanto il presupposto stesso dell’istituto.
Secondo la dottrina e la giurisprudenza prevalenti, gli atti che possono interrompere il decorso prescrizionale sono tassativamente elencati e consistono in atti che importano l’esercizio del legittimo diritto da parte del titolare.
In particolare, tali atti non richiedono alcuna tipicità o formalità, trattandosi di atti liberi nella forma, purché nel mezzo e nel contenuto esprimano in modo inequivocabile la volontà di far valere il diritto nei confronti del debitore (Cass. n. 24656/2010).
Ebbene, se, secondo la dottrina, la domanda giudiziale idonea a produrre l’interruzione del termine prescrizionale è quella con cui inizia un giudizio di cognizione, conservativo o esecutivo, o anche la domanda proposta nel corso di un giudizio già instaurato (Auricchio, Appunti sulla prescrizione, Napoli, 1971, 95); secondo la giurisprudenza di legittimità e con specifico riferimento alla disciplina fallimentare, ai sensi dell’art. 94 legge fall., la domanda di ammissione al passivo produce gli stessi effetti della domanda giudiziale anche relativamente all’interruzione del decorso della prescrizione (per prima, Cass. lav., n. 195/1986).
La Suprema Corte ha ritenuto inammissibile il ricorso in quanto:
- con riferimento all’effetto interruttivo della domanda di insinuazione al passivo, conformemente alla precedente (e richiamata) giurisprudenza di legittimità, ha ritenuto di dover dare rilevanza alla volontà della parte di esercitare il (e di voler avvalersi del) proprio diritto attraverso il deposito della domanda di ammissione al passivo;
- quanto agli effetti della revoca della dichiarazione di fallimento, invece, ha stabilito che tale atto non può ricondursi ad una pronuncia di estinzione (ma, semmai, al rigetto di merito della pretesa esecutiva in forma concorsuale oppure alla chiusura di un procedimento che ha comunque prodotto effetti); con la conseguenza che – in questi casi – deve trovare applicazione l’art. 2495, comma 2 c.c., e non anche l’art. 2945, comma 3, c.c. e che, quindi, la prescrizione dovrà correre (per usare la terminologia codicistica) dalla data di revocazione del fallimento, e non dalla data di deposito della domanda di ammissione al passivo.
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