Revoca della sospensione condizionale della pena legittima in esecuzione

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È legittima la revoca in sede esecutiva della sospensione condizionale della pena disposta in violazione dell’art. 164, comma 4, cod. pen., anche se la causa ostativa era ignota al giudice di primo grado e non impugnata dal pubblico ministero? Per un valido supporto per professionisti consigliamo: Codice penale e di procedura penale e norme complementari -Edizione 2024. Aggiornato alla Riforma Nordio e al decreto Svuota Carceri

Corte di Cassazione -SS. UU. pen.- sentenza n. 36460 del 30-05-2024

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Indice

1. Il fatto


La Corte di Appello di Reggio Calabria, nell’esercizio delle funzioni di giudice dell’esecuzione, disponeva, su richiesta del pubblico ministero, la revoca della sospensione condizionale della pena applicata con una sentenza di condanna emessa dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale della medesima città, e poi riformata della Corte di Appello in sede.
In particolare, secondo la Corte territoriale, preso atto che la sospensione condizionale era stata applicata in primo grado in assenza di un certificato del casellario giudiziale aggiornato e la mancanza delle necessarie informazioni aveva impedito al giudice di primo grado di avvedersi che la sospensione condizionale non avrebbe potuto essere concessa in ragione del fatto che il condannato aveva in precedenza riportato ben cinque sentenze di condanna a pena detentiva per delitto, ottenendo peraltro la sospensione condizionale in due occasioni, si notava però come il certificato del casellario giudiziale aggiornato fosse invece agli atti del fascicolo del giudizio di appello, sicché la Corte di Appello avrebbe dovuto rilevare l’esistenza di condizioni ostative al mantenimento della sospensione condizionale applicata in primo grado.
Pur tuttavia, il giudice dell’esecuzione aveva però osservato come nel giudizio di appello non si fosse fatta questione in ordine alla illegittimità della statuizione in punto di sospensione condizionale, così come nessun motivo dell’atto di appello aveva avuto ad oggetto il punto relativo alla sospensione condizionale già concessa, e il pubblico ministero non aveva sollecitato il provvedimento di revoca. Nessun ostacolo si era pertanto frapposto all’esercizio del potere di revoca che l’art. 674, comma 1-bis, cod. proc. pen. attribuisce al giudice dell’esecuzione anche per l’ipotesi in cui la sospensione condizionale sia stata concessa illegittimamente in presenza di condizioni ostative non rilevate.
Ciò posto, avverso questa decisione proponeva ricorso per Cassazione il difensore, il quale deduceva vizio di violazione di legge.
In particolare, secondo il ricorrente, il Giudice dell’esecuzione aveva male interpretato ed erroneamente applicato gli artt. 163 e 168 cod. pen. visto che il giudice di appello ha il potere di revocare la statuizione di sospensione condizionale della pena, adottata dal giudice di primo grado, quando, sulla base degli elementi emergenti dagli atti, ritenga che il beneficio sia stato concesso in violazione di legge mentre non occorre, affinché il potere di revoca possa legittimamente essere esercitato, che sia stata proposta impugnazione sul punto o che l’esercizio del potere di revoca sia stato sollecitato; e ciò perché il giudice di appello ha il dovere di verificare la correttezza del provvedimento concessorio del giudice di primo grado.
Orbene, nel caso in esame, avendo la Corte territoriale in atti il certificato del casellario giudiziale aggiornato, sicché la causa ostativa era documentalmente nota al giudice della cognizione, per la difesa, doveva allora trovare applicazione il principio di diritto stabilito da Sez. U., n. 37435 del 23 aprile 2015, in forza del quale al giudice dell’esecuzione non è consentita la revoca della sospensione condizionale della pena quando le cause ostative alla concessione erano documentalmente note al giudice della cognizione, dal momento che il principio de quo opera pur quando il dato, della presenza di cause ostative, sia stato oggetto di una “valutazione implicita” in sede di cognizione, che si verifica le volte in cui la causa ostativa sia documentata e risulti in tal modo oggettivamente compresa nel perimetro del giudizio. Per un valido supporto per professionisti consigliamo: Codice penale e di procedura penale e norme complementari -Edizione 2024. Aggiornato alla Riforma Nordio e al decreto Svuota Carceri

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2. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione: la legittimità della revoca


Esistenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla legittimità della revoca in esecuzione della sospensione condizionale della pena applicata in violazione dell’art. 164, comma quarto, cod. pen. per l’esistenza di una causa ostativa ignota al giudice di primo grado e nota però a quello di appello, il quale ultimo non abbia esercitato ex officio il potere di revoca o non sia stato investito dell’impugnazione del pubblico ministero o, ancora, non sia stato da quest’ultimo sollecitato alla revoca.
La Sezione penale prima, assegnataria del suddetto ricorso, rilevava l’esistenza di un contrasto in ordine alla legittimità della revoca in esecuzione della sospensione condizionale della pena applicata in violazione dell’art. 164, comma quarto, cod. pen. per l’esistenza di una causa ostativa ignota al giudice di primo grado e nota però a quello di appello, il quale ultimo non abbia esercitato ex officio il potere di revoca o non sia stato investito dell’impugnazione del pubblico ministero o, ancora, non sia stato da quest’ultimo sollecitato alla revoca.
In particolare, secondo un primo orientamento – che dichiara di non contravvenire al principio di diritto dettato da Sez. U, n. 37345 del 23/04/2015, con la premessa che detto principio fa riferimento soltanto al giudice della cognizione che ha concesso il beneficio – il giudice di appello, pur in assenza di impugnazione o di sollecitazione del pubblico ministero, può revocare la sospensione condizionale concessa in violazione dell’art. 164, comma quarto, cod. pen., in attuazione di un potere che presenta connotati di facoltativi e opera in funzione surrogatoria rispetto a quello del giudice dell’esecuzione (v. Sez. 1, n. 16243 del 07/04/2010), fermo restando che il suo intervento è meramente eventuale, sicché l’omissione, non censurabile per mezzo dell’impugnazione, è rimediata in forza della autonoma competenza del giudice dell’esecuzione senza che possa apprezzarsi alcuna preclusione da giudicato.
In altri termini, quel che importa, ai fini del legittimo esercizio del potere di revoca in sede esecutiva, è che l’elemento idoneo a giustificare la revoca non sia stato oggetto neppure di “valutazione implicita” siccome compreso nell’ambito dello scrutinio del giudice della cognizione.
In assenza di impugnazione del pubblico ministero, proseguono dunque le decisioni che formano questo orientamento, non si prefigura alcuna forma di acquiescenza che impedisca di far valere in esecuzione quanto avrebbe dovuto essere dedotto con l’impugnazione, essendosi espresse nel modo appena riassunto numerose sentenze, tra cui Sez. 1, n. 39190 del 09/07/2021, n. 24103 del 08/04/2021, per le quali il potere di revoca officioso riconosciuto al giudice di appello ha carattere esclusivamente anticipatorio rispetto a quello del giudice dell’esecuzione, e dal suo eventuale mancato esercizio non può desumersi l’esistenza di una valutazione di tenore “implicito” idonea a determinare un effetto preclusivo all’esercizio del potere di revoca spettante al giudice dell’esecuzione (in senso conforme Sez. 1, n. 30709 del 12/07/2019, e Sez. 1, n. 30710 del 10/05/2019).
Ebbene, per il giudice rimettente, nell’ambito di questa ricostruzione interpretativa, alla revoca del beneficio è attribuita natura dichiarativa, dal momento che gli effetti di diritto sostanziale sono connessi direttamente al verificarsi della condizione.
Il provvedimento in questione ha pertanto mera efficacia ricognitiva di una caducazione dal beneficio prodotta ope legis, con la conseguenza che il giudice di appello che lo emetta, assente l’impugnazione del pubblico ministero, non viola il divieto della reformatio in peius dato che il giudice di appello esercita in tal modo un potere equivalente a quello attribuito al giudice dell’esecuzione, senza incontrare i limiti della devoluzione (cfr., in particolare, Sez. 3, n. 56279 del 24710/2017; Sez. 3, n. 7199 del 23/01/2007, e Sez. 5, n. 40466 del 27/09/2002).
Per  un altro e opposto orientamento, minoritario, invece, il giudice dell’esecuzione non può procedere alla revoca della sospensione condizionale, accordata in contrasto con l’art. 164, quarto comma, cod. pen., ove il giudice di appello abbia avuto in atti attestazione documentale della illegittimità della concessione del beneficio, a prescindere dal fatto che sia stato o meno investito di impugnazione sul punto del pubblico ministero.
Orbene, fermo restando che anche questo secondo indirizzo interpretativo prende le mosse da Sez. U, n. 37345 del 23/04/2015, la Sezione prima osservava che in detta sentenza si è chiarito che la preclusione all’intervento di revoca del giudice dell’esecuzione si realizza pur quando il dato della illegittimità della concessione sia stato implicitamente valutato in sede di cognizione, come accade quando la causa ostativa risulti apprezzabile per tabulas agli atti del procedimento pendente in grado di appello, citandosi all’uopo Sez. 5, n. 23133 del 09/07/2020, la quale ha affermato che la sussistenza in capo al giudice di appello del potere di revoca realizza il presupposto della inclusione della questione della revocabilità nell’ambito valutativo che gli compete, anche tenuto conto della doverosità della verifica giudiziale sul punto, con la conseguenza che, ove agli atti vi sia prova documentale della illegittimità della concessione, il mancato esercizio del potere di revoca dà luogo ad una preclusione per la fase esecutiva (cfr. anche Sez. 1, n. 19457 del 16/01/2018), nonché Sez. 5, n. 2144 del 20/12/2023, e Sez. 5, n. 22134 del 07/03/2022, le quali ribadivano quanto appena riassunto, ossia che l’opposto orientamento leggeva in modo erroneo la sentenza, n. 37345 del 23/04/2015 delle Sezioni Unite con la quale afferma invece di porsi in continuità; sopravvaluta, infatti, i poteri del giudice dell’esecuzione e riduce a meramente facoltative le attribuzioni del giudice della cognizione.
In buona sostanza, non si confronta adeguatamente con il significato della nozione di “valutazione implicita” che la sentenza n. 37345 del 23/04/2015 impiega per limitare la rilevanza dei nova che legittimano l’intervento del giudice dell’esecuzione posto che il silenzio serbato in sede di cognizione, sia dal pubblico ministero non impugnante che dal giudice di appello che ha omesso – pur potendolo fare in ragione della presenza in atti del documento attestante l’illegittimità del provvedimento di concessione – di revocare la sospensione condizionale, realizza una condizione di acquiescenza che giustifica la preclusione nei confronti del giudice dell’esecuzione.
Soltanto una siffatta interpretazione, ha osservato Sez. 5, n. 2144 del 20/12/2023, cit., preserva dal pericolo di statuizioni in malam partem che sarebbero confliggenti con i principi costituzionali del giusto processo, nonché della parità delle parti nel giudizio e, infine, della funzione rieducativa della pena.

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3. La soluzione adottata dalle Sezioni unite


Le Sezioni unite osservavano in via preliminare come la questione, sottoposta al suo vaglio giudiziale, fosse riassumibile nel seguente modo: “se sia legittima la revoca, in sede esecutiva, della sospensione condizionale della pena disposta in violazione dell’art. 164, quarto comma, cod. pen. in presenza di una causa ostativa ignota al giudice di primo grado e nota a quello d’appello, che non sia stato investito sul punto dell’impugnazione del pubblico ministero né, comunque, di formale sollecitazione di questi in ordine all’illegittimità del beneficio”.
Premesso ciò, dopo avere illustrato i contrapposti indirizzi interpretativi formatisi in subiecta materia, per la Suprema Corte, il profilo dirimente la questione era costituito dall’esistenza o meno di un potere di cognizione in capo al giudice di appello in assenza di una devoluzione sul punto della sospensione condizionale.
Ebbene, per i giudici di piazza Cavour, se entrambi gli orientamenti in contrasto ritengono, incorrendo nel medesimo errore, che non operino in materia i limiti della devoluzione e si differenziano perché l’uno, quello maggioritario, risolve il potere di decisione in termini di mera facoltà e l’altro, quello minoritario, lo traduce in termini di obbligo, non andava comunque trascurato quel che le decisioni delle Sezioni semplici mettono da canto, ossia che il giudice di appello si pronuncia ordinariamente nell’ambito della materia devoluta con l’atto di impugnazione e conosce fuori dei punti della decisione a cui si riferiscono i motivi proposti a condizione che la legge estenda specificamente il suo ambito cognitivo oltre i confini segnati dalla parte impugnante.
Pertanto, una volontà legislativa di attribuire in questa materia una cognizione extra devolutum non è desumibile dalle peculiarità degli aspetti che possono essere a tal fine valorizzati, ossia la pretesa natura meramente dichiarativa del provvedimento che rilevi l’esistenza di cause ostative alla concessione, e revochi pertanto il beneficio, e la concorrente competenza provvedimentale del giudice dell’esecuzione.
Pur tuttavia, ad avviso della Suprema Corte, la natura dichiarativa del provvedimento di revoca non è carattere così significativo, perché molti sono i casi in cui la violazione di legge rileva sulla base di una mera constatazione dell’assenza dei presupposti di legge o della presenza di condizioni impeditive, senza che si debbano operare valutazioni di particolare complessità.
Per restare al tema della sospensione condizionale, sempre per la Suprema Corte, un regime particolare delle impugnazioni dovrebbe essere riservato, seguendo l’impostazione che qui si critica, anche alle statuizioni di sentenza che applicano la sospensione condizionale in violazione dei limiti di pena irrogata, secondo le previsioni dell’art. 163 cod. pen.; e lo stesso regime in deroga dovrebbe estendersi, come detto, ai più vari provvedimenti soggetti alla ricorrenza di presupposti e condizioni passibili di immediata apprensione.
Ad ogni modo, il fatto poi che l’errore da violazione di legge sia rimediabile in sede esecutiva non implica il superamento dei limiti della devoluzione in appello.
Difatti, alla tesi che fa leva sui confini cognitivi del giudice dell’impugnazione, per la Corte di legittimità, si oppone che, una volta attribuito al giudice dell’esecuzione il potere di rimediare all’errore, sarebbe irragionevole, per evidente diseconomia, negare quello stesso potere al giudice di appello per il solo fatto che il punto non sia stato a lui devoluto.
Del resto, se sarebbe fortemente incoerente – questa la critica – restare ancorati all’assunto che si debba attendere la fase esecutiva per correggere un errore rilevabile agevolmente dal giudice di appello, a poco o nulla importando che il pubblico ministero non abbia proposto impugnazione sul punto, ad una riflessione appena un po’ più approfondita, l’argomento però si rivela un paralogismo, nella misura in cui ribalta ingiustificatamente i termini del corretto ragionamento.
Anzitutto, trascura l’eventualità che, proprio movendo dalla premessa della devoluzione parziale- con la conseguente possibilità che la parte interessata resti inerte e non interpelli il giudice del controllo -, il legislatore abbia avvertito la necessità di apprestare un rimedio in sede esecutiva, capace di recuperare eventuali carenze del giudizio di cognizione.
Quindi, si tende ad assegnare all’art. 168, terzo comma, cod. pen. una natura anche processuale, in funzione dell’affrancamento del giudice delle impugnazioni dai limiti della devoluzione, e non si avvede, da un lato, che nessuna disposizione di legge giustifica una tale manipolazione interpretativa e che, dall’altro, l’ampiezza della disposizione dell’art. 674, comma 1-bis, cod. proc. pen. in tema di intervento del giudice dell’esecuzione orienta decisamente per l’insostenibilità di una restrizione del suo ambito applicativo in conseguenza di una rimodulazione dei poteri in cognizione, tenuto conto altresì del fatto che per l’attribuzione al giudice dell’impugnazione di un potere svincolato dalla devoluzione la legge processuale fa sempre riferimento espresso alla rilevabilità d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento o del processo, della relativa questione (v., in tal senso, artt. 20, comma 1, 21, comma 1, 129,191, comma 2, 179, comma 1, 591, comma 2, 597, comma 5, 609, comma 2, cod. proc. pen.), e che di simili incisi non vi è traccia nelle disposizioni qui di interesse.
Per i giudici di piazza Cavour, non resta allora che concludere nel senso che, ove avesse inteso tradurre la doverosità dell’intervento di revoca in un potere officioso extra devolutum, il legislatore della novella del 2001 non si sarebbe limitato a interpolare l’art. 674 del codice di rito in tema di attribuzioni del giudice dell’esecuzione e avrebbe esteso la predisposizione dei raccordi della nuova disposizione di natura sostanziale alla disciplina dei poteri del giudice delle impugnazioni, tanto più se si considera che, se la sovrapposizione di attribuzioni tra giudice della cognizione e giudice dell’esecuzione fosse così rilevante per scardinare gli ordinari limiti della devoluzione in appello, si dovrebbe concludere, nel caso inverso di potere di riconoscimento di istituti di favore come continuazione e concorso formale, che il giudice di appello potrebbe o dovrebbe conoscere e decidere, a seconda della impostazione in termini di facoltà o in termini di obbligo, al di fuori del devoluto e quindi con assoluta indifferenza per il diritto dell’imputato di scegliere se interpellare sul tema il giudice dell’esecuzione, ma questo diritto invece è stato da tempo riconosciuto dalla giurisprudenza (Sez. U, n. 1 del 19/01/2000) come di esclusiva spettanza dell’imputato al quale è rimessa la scelta, non altrimenti comprimibile, sul se “invocare il riconoscimento della continuazione nel processo di cognizione ancora in corso ovvero se, dopo la conclusione di questo, attivare un procedimento di esecuzione diretto all’applicazione della disciplina del reato continuato”.
Ebbene, per la Cassazione, questa scelta viene esercitata formulando uno specifico motivo di impugnazione per lamentare la mancata applicazione della continuazione ad opera del giudice di primo grado: in tal modo si obbliga il giudice di appello a pronunciarsi “sul tema di indagine devolutogli, per l’evidente ragione che al principio devolutivo, espresso dal brocardo tantum devolutum quantum appellatum, è coessenziale il potere-dovere del giudice del gravame di esaminare e decidere sulle richieste dell’impugnante”, ed è proprio dalla correlazione tra motivi di impugnazione ed ambito della cognizione e della decisione che si trae la conclusione della impossibilità che il giudice di appello possa omettere di pronunciarsi confidando nell’intervento postumo del giudice dell’esecuzione, e così mettere in non cale la domanda impugnatoria.
Il vero è, ha proseguito Sez. U, n. 1 del 19/01/2000, che il giudice dell’esecuzione ha rispetto al giudice della cognizione – il cui potere di cognizione è modulato dall’effetto devolutivo dell’impugnazione e il cui esercizio non può disattendere per l’obbligo, una volta interpellato, di dare risposta – “una mera funzione sussidiaria e suppletiva, subordinata all’inesistenza di un preesistente giudicato negativo…”.
D’altronde, se in materia di benefici, sospensione condizionale e non menzione e di attenuanti, il giudice di appello ha un potere di concessione al di là del devoluto, per espressa previsione di legge contenuta nell’art. 597, comma 5, cod. proc. pen., la disposizione, però, è di stretta interpretazione nella misura in cui comporta una eccezione alla regola generale dell’effetto devolutivo e, come tale, non può essere applicata oltre i casi in essa considerati, come compiutamente argomentato da ultimo da Sez. U, n. 12872 del 19/01/2017.
Per la Corte, non può dunque farsi leva su questa disposizione per argomentare che, come il giudice di appello può concedere la sospensione, pur quando la cognizione sul punto non gli sia stata devoluta, così può revocarla oltre il devoluto, quando sia stata illegittimamente applicata.
Pertanto, secondo quanto sin qui esposto, ad avviso del Supremo Consesso, deve anzitutto correggersi l’affermazione, propria dell’orientamento maggioritario, del potere del giudice della cognizione di revoca della sospensione illegittimamente concessa in termini di mera facoltà, di potere meramente surrogatorio rispetto alle attribuzioni del giudice dell’esecuzione, essendo piuttosto il potere di quest’ultimo, come sottolineato da Sez. U, n. 1 del 19/01/2000, a dover essere qualificato in termini di complementarità in riferimento alle attribuzioni del giudice della cognizione, che si esercitano, fuori dei casi in cui la legge conferisca un’attribuzione sganciata dai confini della domanda impugnatoria, nel rispetto del principio della devoluzione parziale.
Impostata la questione in questi termini, per gli Ermellini, a nulla rileva il nodo della possibile interferenza con il divieto della reformatio in peius, perché esso è limite al potere decisorio del giudice di appello che presuppone logicamente l’attribuzione del potere di cognizione per mezzo della devoluzione.
Invero, se il punto della sospensione condizionale è devoluto al giudice di appello, a fronte di una illegittimità della concessione operata con la sentenza di primo grado, non può che esser conseguenza di una impugnazione del pubblico ministero, non potendosi ravvisare un interesse all’impugnazione dell’imputato che abbia beneficiato, al di fuori delle condizioni di legge, della sospensione condizionale dato che in tale ipotesi non v’è naturalmente spazio per l’operatività del divieto, appunto perché impugnante è il pubblico ministero.
Tra l’altro, ove mai si volesse ipotizzare una devoluzione per iniziativa dell’imputato condannato in primo grado, magari interessato a non avere la sospensione condizionale della pena pecuniaria- come ritenuto ammissibile da un orientamento della giurisprudenza di legittimità (v., tra le altre, Sez. 1, n. 35315 del 25/03/2022; Sez. 3, n. 17384 del 28/01/2021) -, la domanda di revoca dell’imputato porrebbe all’evidenza nel nulla il divieto della reformatio in peius.
Le Sezioni unite, pertanto, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, formulavano il seguente principio di diritto: “è legittima la revoca, in sede esecutiva, della sospensione condizionale della pena disposta in violazione dell’articolo 164, quarto comma, cod. pen. in presenza di una causa ostativa ignota al giudice di primo grado e nota a quello d’appello, a cui il punto non sia stato devoluto con l’impugnazione”.

4. Conclusioni

Note

  1. [1]

    Ai sensi del quale: “La sospensione condizionale della pena non può essere concessa più di una volta. Tuttavia il giudice, nell’infliggere una nuova condanna, può disporre la sospensione condizionale qualora la pena da infliggere, cumulata con quella irrogata con la precedente condanna anche per delitto, non superi i limiti stabiliti dall’articolo 163” cod. pen..

Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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