Il riconoscimento della cittadinanza per naturalizzazione e la valutazione in concreto dell’elemento ostativo
In tema di riconoscimento della cittadinanza per naturalizzazione ai sensi dell’art. 9, comma 1, lett. f), della l. n. 92 del 1991, non può ritenersi ex se ostativo – a maggior ragione se il provvedimento di diniego non ne contiene menzione – l’astratto riferimento all’allarme sociale indotto a una pregressa condanna, peraltro risalente, a guida in stato di ebbrezza, rispetto alla quale è anche intervenuta, da parte del Tribunale, una pronuncia di riabilitazione. Ne discende che la semplice constatazione in modo meccanicistico, a fronte del fatto storico di reato e nonostante la intervenuta riabilitazione, della mancata coincidenza tra l’interesse pubblico e quello del richiedente alla concessione della cittadinanza italiana non può fondare la legittimità dl rigetto .
E infatti, la fattispecie dell’art. 187, comma 1, del d. lgs. n. 285 del 1992 – c.d. codice della strada – non rientra in alcune delle ipotesi ostative di cui all’art. 6, comma 1, della l. n. 92 del 1991 ed è pertanto necessaria una valutazione in concreto del fatto di reato. Conseguentemente, secondo l’orientamento del Consiglio di Stato (v. già, nello stesso senso, Cons. St., sez. VI, 18 febbraio 2011, n. 1037), la guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze psicotrope, pur atteggiandosi alla stregua di condotta illecita sanzionata in termini contravvenzionali dagli artt. 186 e 187 del codice della strada, non può ritenersi in sé ostativa al riconoscimento della cittadinanza, soprattutto ove sia intervenuta riabilitazione, se la condotta, per le concrete modalità della stessa e per tutte le circostanze del caso, non sia sintomatica di un dispregio delle più elementari regole di civiltà giuridica, ma rappresenti un episodio isolato episodio, non ascrivibile a deliberato, pervicace, atteggiamento antisociale o ad una ostinata, ostentata, ribellione alle regole dell’ordinamento.
La Suprema Corte e la misura di tutela del bene della vita come metro del disvalore
La Corte di Cassazione in relazione alla fattispecie dell’art. 186 del d. lgs. n. 285 del 1992 (seguendo una impostazione suscettibile di estensione applicativa alla nuova fattispecie contravvenzionale dell’art. 187), ha affermato che la condotta della guida in stato di ebbrezza – o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti – è configurata sul piano della categoria «nel senso che il legislatore individua i comportamenti contrassegnati – alla stregua di informazioni scientifiche o di comune esperienza – dall’attitudine ad aggredire il bene giuridico che si trova sullo sfondo, da individuare nella vita e nell’integrità personale» (Cass. pen., sez. IV, 3 dicembre 2018, n. 54018). Accertata la situazione pericolosa tipica e l’offesa ad essa sottesa, però, residua sempre uno spazio per apprezzare in concreto, alla stregua della manifestazione del reato e al solo fine della ponderazione in ordine alla gravità dell’illecito, quale sia lo sfondo fattuale nel quale la condotta si inserisce e, conseguentemente, il risvolto sul piano del pregiudizio che ne discenda. La Corte, pertanto, ne ha tratto la conclusione che la causa di non punibilità del fatto particolarmente tenue, ora prevista dall’art. 131-bisc.p., sia applicabile anche alla contravvenzione prevista dall’art. 186 del codice della strada (Cass. pen., sez. IV, 3 dicembre 2018, n. 54018).
Sul punto
Riconoscimento della cittadinanza, valutazione in concreto e metro sociale della moralità
Alla luce di tali presupposti logici, non costituisce legittimo motivo di diniego del riconoscimento della cittadinanza per naturalizzazione richiesto ai sensi dell’art. 9 della l. n. 92 del 1991, quello che riconduce il mancato inserimento sociale all’astratta tipologia del reato – la guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze psicotrope – e alla sua pericolosità, astratta o presunta, senza apprezzare tutte le circostanze del fatto concreto e; ciò ancorché l’analisi sia finalizzata a scopi autonomi e diversi da quella del giudice penale che ha concesso la riabilitazione del condannato. Conseguentemente non ci si può esimere da una considerazione in concreto del fatto, delle sue modalità, del suo effettivo disvalore come anche della personalità del soggetto. Difatti, la riabilitazione (v. Cons. St., sez. III, 30 luglio 2018, n. 4686), comporta l’accertamento del «completo ravvedimento dispiegato nel tempo e mantenuto sino al momento della decisione, e tradotto anche nella eliminazione (ove possibile) delle conseguenze civili del reato» (Cass. pen., sez. I, 18 giugno 2009, n. 31089). Ovviamente, la riabilitazione da parte del giudice penale, pur espungendo quell’elemento ostativo previsto dall’art. 6 della l. n. 91 del 1992 (qui peraltro, come detto, nemmeno astrattamente ravvisabile per non essere la contravvenzione di cui all’art. 187, comma 1, del d. lgs. n. 285 del 1992 ricompresa tra le ipotesi necessariamente ostative), non comporta però alcun automatismo circa l’ottenimento della cittadinanza, dal momento che lascia sempre in capo alla pubblica amministrazione la decisione discrezionale inerente alla concessione della cittadinanza. Infatti, il mutamento dello status civitatis costituisce l’esercizio di una funzione di alto rilievo in termini pubblicistici e, pertanto, i requisiti di cui all’art. 9 della l. n. 91 del 1992, da leggere in combinato con gli elementi ostativi dell’art. 6, per quanto necessari, non risultano tuttavia da soli sono sufficienti. Siffatti requisiti, oltre a non essere sufficienti, non costituiscono nemmeno una presunzione di idoneità al conseguimento dell’invocato status (v., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 13 novembre 2018, n. 6374).
L’amministrazione, nel riconoscere la cittadinanza ai sensi dell’art. 9 della l. n. 91 del 1992, deve effettuare una delicata valutazione in ordine alla effettiva e complessiva integrazione dello straniero nella società, ma non può limitare il suo apprezzamento discrezionale a un giudizio di natura sommaria, superficiale ed incompleta, ristretto alla mera considerazione di un fatto risalente, per quanto sanzionato penalmente, «senza contestualizzarlo all’interno di una più ampia e bilanciata disamina che tenga conto dei suoi legami familiari, della sua attività lavorativa, del suo reale radicamento al territorio, della sua complessiva condotta che, per quanto non totalmente irreprensibile sul piano morale, deve comunque mostrare, perlomeno e indefettibilmente, una convinta adesione ai valori fondamentali dell’ordinamento, di cui egli chiede di far parte con il riconoscimento della cittadinanza».
Secondo il Consiglio di Stato, se si prescinde dalle ipotesi ostative al riconoscimento della cittadinanza, contemplate dall’art. 6 della l. n. 92 del 1991, non è legittimo esigere dallo straniero, ai fini del riconoscimento della cittadinanza, un quantum di moralità superiore a quella posseduta mediamente dalla collettività nazionale in un dato momento storico. Pertanto, il giudizio sulla integrazione sociale dello straniero richiedente la cittadinanza italiana, sebbene debba tenere conto di fatti penalmente rilevanti, «non può ispirarsi ad un criterio di assoluta irreprensibilità morale, nella forma dello status illesae dignitatis, o di impeccabilità sociale, del tutto antistorico prima che irrealistico e, perciò, umanamente inesigibile da chiunque, straniero o cittadino che sia». Diversamente, un tale criterio, nella visione eticizzante dello Stato portatore di una morale superiore ed escludente, implicherebbe l’impossibilità di ottenere la cittadinanza per il sol fatto di avere compiuto un reato, anche se non avente una concreta – concreta, si noti, e non meramente astratta o presunta – carica di disvalore morale o di pericolosità sociale per l’ordinamento. Si verrebbe a realizzare, in questo modo, un irragionevole chiusura della collettività nazionale all’ingresso di soggetti che, pur avendo tutti i requisiti per ottenere la cittadinanza, si vedono privare di questo legittimo interesse, attinente anche all’esercizio di diritti fondamentali, in assenza di un effettivo, apprezzabile, interesse pubblico a tutela della collettività, e per mere fattispecie di sospetto in danno dello straniero.
Conseguentemente in sede di riconoscimento (o di diniego) della cittadinanza, l’amministrazione è tenuta a valutare se il comportamento dell’odierno appellante, per le concrete modalità del fatto contravvenzionale in ordine al quale è intervenuta riabilitazione, sia concretamente indice di un mancato inserimento sociale e, quindi, di una compiuta integrazione nella comunità nazionale o se, per converso, simile comportamento, tenuto conto, nel complesso, della sua condotta di vita, della sua permanenza sul territorio nazionale, dei suoi legami familiari, della sua attività lavorativa, e di tutti gli elementi ritenuti rilevanti a tal fine, non denoti una mancata adesione ai valori fondamentali dell’ordinamento giuridico, a cominciare dal principio personalistico e da quello solidaristico, compendiati, nel valore posto «al vertice dell’ordinamento», della dignità umana (v., sul punto, Corte cost., 7 dicembre 2017, n. 258, proprio in materia di giuramento reso dallo straniero disabile per ottenere la cittadinanza). Solo se infatti lo straniero riconosce questi fondamentali valori dell’ordinamento come propri, l’ordinamento, correlativamente, può riconoscerlo come cittadino.
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