(Ricorso dichiarato inammissibile)
(Normativa di riferimento: C.p. art. 629)
Il fatto
Con sentenza in data 10.2.2015 la Corte d’appello di Ancona, in parziale riforma della sentenza in data 16.5.2013 del Giudice dell’udienza preliminare di Pesaro, ritenuta la continuazione tra i fatti della sentenza impugnata ed i fatti della sentenza del Tribunale d’Ancona n. 188/2012 del 26.3.2012, rideterminava la pena in anni 4, mesi 8 di reclusione ed C 22.000,00 di multa.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso questo provvedimento proponeva ricorso per Cassazione l’imputato adducendo i seguenti motivi: a) violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. in relazione agli art. 56, 110, 629, comma 1, cod. pen. in quanto la Corte territoriale aveva ritenuto accertato il fatto e la sua responsabilità, sulla base delle telefonate intercorse tra L. M. ed il cugino F. e tra questi e P. E., delle osservazioni del Carabinieri di P., dei messaggi telefonici inviati da P. a L. F. e delle sommarie informazioni rese da quest’ultimo mentre i contenuti delle telefonate intercorse tra i cugini L. non erano riferite al P. e quindi non si poteva ravvisare il tentativo a causa dell’inidoneità degli atti così come, dalle sommarie informazioni testimoniali della persona offesa, non risultava avesse subito un’estorsione ed ai fatti ed alle telefonate non erano seguite iniziative criminose ed il P. non si era reso irreperibile; pertanto, ad avviso del ricorrente mancava la minaccia integrante il reato contestato; b) violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., in relazione alla richiesta di qualificazione del fatto come di minore gravità in quanto, alla luce dei mezzi, delle modalità dell’azione, della qualità e quantità della sostanza trattata, si stimava come non potesse escludersi l’applicazione dell’art. 73, comma 5, d.P.R. 309/1990.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte di Cassazione
Il ricorso veniva ritenuto manifestamente infondato alla stregua delle seguenti considerazioni.
La Cassazione considerava la prima doglianza risolventesi in mere questioni di fatto richiamando a questo proposito, la ricostruzione compiuta dai giudici di merito in cui si evinceva come l’imputato avesse fatto pressioni sul cugino affinché riuscisse ad ottenere l’adempimento da parte del soggetto estorto.
Da ciò se ne faceva conseguire come non vi fosse alcun dubbio sulla correttezza della contestazione.
In punto di diritto, a conferma della legittimità del provvedimento impugnato, si segnalava quel constante orientamento nomofilattico secondo il quale ricorre il reato di estorsione previsto dall’art. 629 cod. pen., e non già quelli di violenza privata di cui all’art. 610 cod. pen. o di esercizio arbitrario delle proprie ragioni di cui all’art. 393 cod. pen., quando si costringa, mediante violenza o minaccia, altra persona a soddisfare un debito nei confronti di terzi, essendo ingiusto, in quanto connesso ad azione intimidatoria, il profitto che ne ricava, direttamente, l’autore, e sussistendo altresì il danno per la vittima, costretta a versare denaro nelle mani di un soggetto estraneo al rapporto obbligatorio, senza alcuna garanzia di effetto liberatorio: il mandante di tale operazione, titolare del credito, risponde del medesimo reato a titolo di concorso morale (tra le tante, Cass. Sez. 5, n. 5193/98).
Posto ciò, quanto al secondo motivo, gli ermellini facevano presente come la corte distrettuale avesse rappresentato che dagli atti era emerso che l’attività di spaccio durava da anni, non era occasionale, ma reiterata e svolta in modo professionale, come desumibile dalla disponibilità costante dello stupefacente, dall’organizzazione del commercio illecito, dall’utilizzo di altri soggetti per la cessione diretta, dal numero dei clienti, dai quantitativi ripetutamente ceduti e dalle somme ricavate e che l’imputato era in grado di soddisfare le richieste di un numero elevato di soggetti di cui era, per interposta persona, un sicuro referente, perché sempre in possesso di sostanza stupefacente.
Tal che se ne faceva discendere come tale motivazione si appalesasse congrua, precisa ed immune dalla censura sollevata.
Pertanto, in virtù di quanto sin qui esposto, i giudici di Piazza Cavour ritenevano, per un verso, come il ricorso dovesse essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento, per altro verso, tenuto conto della sentenza della Corte costituzionale in data 13 giugno 2000, n. 186,, e considerato che non vi fosse ragione di ritenere che il ricorso era stato presentato senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità“, si disponeva che il ricorrente versasse la somma, determinata in via equitativa, di euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Conclusioni
La sentenza è sicuramente condivisibile in quanto si allinea lungo il solco di un orientamento ermeneutico consolidato.
Nell’affermarsi che ricorre il reato di estorsione previsto dall’art. 629 cod. pen., e non già quelli di violenza privata di cui all’art. 610 cod. pen. o di esercizio arbitrario delle proprie ragioni di cui all’art. 393 cod. pen., quando si costringa, mediante violenza o minaccia, altra persona a soddisfare un debito nei confronti di terzi, essendo ingiusto, in quanto connesso ad azione intimidatoria, il profitto che ne ricava, direttamente, l’autore, e sussistendo altresì il danno per la vittima, costretta a versare denaro nelle mani di un soggetto estraneo al rapporto obbligatorio, senza alcuna garanzia di effetto liberatorio: il mandante di tale operazione, titolare del credito, risponde del medesimo reato a titolo di concorso morale, la Corte di Cassazione, come peraltro evidenziato in questa stessa pronuncia, si è infatti conformata a quanto già postulato in questa sede in precedenti occasioni (vedasi al riguardo: Cass., Sez. 2, n. 46288/16, omissis, Rv. 268360, secondo cui il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, sia con violenza sulle cose – che sulle persone, rientra, diversamente da quello di estorsione, tra i cosiddetti reati propri esclusivi o di mano propria, perciò configurabili solo se la condotta tipica è posta in essere da colui che ha la titolarità del preteso diritto; ne deriva che, in caso di concorso di persone nel reato, solo ove la condotta tipica di violenza o minaccia sia posta in essere dal titolare del preteso diritto è configurabile il concorso di un terzo estraneo nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, per agevolazione, o anche morale, mentre, qualora la condotta sia realizzata da un terzo che agisca su mandato del creditore, essa può assumere rilievo soltanto ai sensi dell’ art. 629 cod. pen. e Cass., Sez. 2, n. 47972/04, omissis, Rv 230709, per la quale ricorre il reato di estorsione per le modalità di intimidazione cui la parte lesa era stata sottoposta da parte di terzi, su mandato del titolare del credito).
Si ribadisce dunque quanto appena scritto prima, ossia come il giudizio su tale pronuncia non possa non essere positivo.
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