[Normativa di riferimento: C.p.p artt. 428, c. 3-bis, 606, c. 1, lettere a), b) e c)]
Il fatto
Con sentenza del 15 marzo 2018 la Corte d’appello di Brescia aveva parzialmente riformato la sentenza di non luogo a procedere per insussistenza del fatto, emessa il 9 ottobre 2017 dal G.u.p. presso il Tribunale di Brescia nei confronti di A. R., P. C. e F. G., imputati del reato di cui agli artt. 110, 323 cod. pen., dichiarando non luogo a procedere nei loro confronti limitatamente a un decreto di liquidazione emesso dal P.M. presso il Tribunale di Milano in data 12 maggio 2010, per essere il reato loro ascritto estinto per intervenuta prescrizione.
Contestualmente, la Corte d’appello aveva disposto il rinvio a giudizio dei predetti imputati con riferimento alle residue imputazioni di abuso d’ufficio, attinenti alla contestata violazione, da parte del dr. A. R., …, della normativa concernente la registrazione e l’intestazione al F.U.G. – Fondo Unico Giustizia (art. 61, comma 23, d.l. n. 112 del 2008, convertito con la legge n. 133/2008, e art. 2, di. 16 settembre 2008, n. 143, convertito con la legge n. 181/2008) delle somme di denaro oggetto di un decreto di sequestro preventivo disposto nell’ambito di un procedimento penale pendente presso la Procura della Repubblica di Milano, mediante la nomina di custodi giudiziari individuati nelle persone del dottore commercialista P. C. e dell’avvocato F. G., ai quali liquidava compensi per importi assai rilevanti (pari ad una complessiva cifra di oltre 900.000,00 euro) e non giustificati a fronte dell’attività di gestione patrimoniale in concreto svolta riguardo ai cespiti oggetto di sequestro, così procurando loro un ingiusto profitto con il corrispondente danno a carico dell’erario.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione, la richiesta della Procura generale e altri scritti difensivi
Avverso la su indicata decisione proponevano ricorso per cassazione i difensori di A. R., deducendo quattro motivi.
Con il primo motivo di ricorso si censurava la violazione degli artt. 582, comma 1 e 591, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. eccependo, sulla base di una recente decisione della Suprema Corte, l’inammissibilità dell’appello proposto dal P.M. avverso la sentenza di non luogo a procedere, sul rilievo che tale atto di impugnazione era stato depositato presso la Cancelleria del G.i.p. di Brescia senza alcuna indicazione della persona che materialmente ebbe a depositarlo, laddove la normativa processuale su richiamata fa obbligo al funzionario dell’ufficio che riceve l’atto di annotare il nominativo di colui che lo ha presentato.
Con il secondo motivo si deducevano violazioni di legge con riferimento agli artt. 521, comma 2, 522, comma 1 e 129, comma 2, cod. proc. pen. in ragione del difetto di correlazione tra il fatto oggetto dell’imputazione e il fatto oggetto della sentenza dichiarativa di prescrizione nella parte in cui viene individuato un fatto di reato la cui non manifesta insussistenza aveva consentito l’applicazione della causa estintiva, per un verso, assumendosi che la sentenza impugnata aveva configurato una nuova imputazione ipotizzando una condotta violativa – la disposizione di cui all’art. 259 cod. proc. pen. – diversa da quelle oggetto dell’originaria contestazione, negandosi, per altro verso, che la condizione della manifesta insussistenza del fatto, diverso da quello individuato dal P.M. e contestato al ricorrente, aveva comportato che la decisione impugnata avesse contestualmente violato la regola posta dall’art. 129, comma 2, cod. proc. pen. che deve avere ad oggetto solo il fatto contestato, ed il concreto esercizio del diritto di difesa.
Con il terzo motivo si denunciavano vizi della motivazione là dove la sentenza impugnata aveva negato, in merito alla contestata violazione della normativa relativa al F.U.G., la sussistenza di una evidente prova dell’innocenza dell’imputato così ponendosi in netta contraddizione rispetto ai passaggi della motivazione in cui aveva invece ritenuto la violazione non della predetta normativa (rispetto alla quale, peraltro, egli non aveva alcun obbligo e non poteva esercitare alcun potere), ma, secondo lo schema dello sviamento di potere attraverso la nomina dei custodi, della su citata disposizione di cui all’art. 259 cod. proc. pen., rinviandolo tuttavia a giudizio per violazione della prima.
Con il quarto motivo, infine, si lamentavano violazioni di legge e vizi della motivazione in relazione agli artt. 157 e 323 cod. pen. per avere la Corte d’appello pronunziato la declaratoria di prescrizione del reato limitatamente al decreto di liquidazione del P.M. in data 12 maggio 2010, sull’erroneo assunto secondo cui il reato di abuso d’ufficio sarebbe stato “unitario” ma a “consumazione prolungata“, con la conseguenza che lo stesso sarebbe risultato consumato non al momento del conferimento dell’incarico ai custodi bensì al momento, successivo, della liquidazione dei compensi, in tal modo ponendosi in contrasto con un pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità atteso che dalla motivazione emergeva, ad avviso del ricorrente, una evidente contraddizione là dove, per un verso, il reato in esame veniva configurato nei termini sopra indicati, con la logica conseguenza che il termine prescrizionale avrebbe dovuto iniziare a decorrere solo dall’ultimo decreto di liquidazione, per altro verso lo stesso veniva dichiarato prescritto unicamente rispetto al primo segmento della condotta addebitata.
I difensori di P. C., a loro volta, avevano proposto ricorso per cassazione avverso la decisione sopra indicata deducendo con il primo motivo censure comuni a quelle oggetto del primo motivo di ricorso del R., e con il secondo motivo vizi analoghi a quelli oggetto della quarta doglianza ivi enucleata.
Dal canto loro i difensori di F. G. avevano proposto ricorso per cassazione avverso la decisione sopra indicata deducendo con il primo motivo censure comuni a quelle oggetto del primo motivo di ricorso proposto dal R., e con il secondo motivo vizi analoghi a quelli oggetto della quarta doglianza ivi enucleata evidenziandosi, al riguardo, come la Corte distrettuale, diversamente da quanto ritenuto dal primo Giudice, avesse erroneamente ritenuto consumato il reato nel momento in cui il custode giudiziario aveva ricevuto i compensi giungendo ad affermare, in aperto contrasto con la stessa imputazione, che si sarebbero verificati più reati di abuso.
Con requisitoria pervenuta nella Cancelleria di questa Suprema Corte il 3 settembre 2018 il P.G. avevo chiesto il rigetto dei ricorsi mentre, con memoria depositata in data 11 settembre 2018, i difensori del C. avevano replicato alle conclusioni del P.G., illustrando ulteriori argomentazioni a sostegno dei motivi di ricorso dedotti sia in ordine al profilo della inammissibilità dell’appello, sia riguardo al tema dell’intervenuta prescrizione del reato.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
La Corte di Cassazione riteneva i ricorsi infondati e dunque da rigettarsi per le seguenti ragioni.
Si osservava prima di tutto come fosse infondata la prima doglianza, comune a tutti i ricorrenti, con la quale si eccepiva la intervenuta violazione degli artt. 582, comma 1 e 591, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., muovendo dall’assunto secondo cui l’appello del P.M. era stato depositato presso la cancelleria dell’ufficio del G.i.p. presso il Tribunale di Brescia in data 20 novembre 2017 senza alcuna indicazione della persona che materialmente ebbe a depositarlo, sebbene le richiamate disposizioni normative facciano espressamente obbligo al funzionario dell’Ufficio giudiziario ricevente di apporvi l’indicazione, fra l’altro, della persona che lo presenta dato che, secondo giurisprudenza costante, in tema di presentazione dell’atto di impugnazione, l’inammissibilità prevista dall’art. 591 per l’inosservanza delle formalità prescritte dall’art. 582 cod. proc. pen. si configura solamente ove ricorra una situazione di concreta incertezza sulla legittima provenienza del gravame dal soggetto titolare del relativo diritto e non anche quando l’identità della persona appaia desumibile dal complessivo esame del documento e, pertanto, l’inammissibilità può essere pronunciata soltanto se la violazione, che è addebitabile al pubblico ufficiale ricevente, assuma caratteristiche tali da far escludere anche la possibilità della presunzione (altrimenti doverosa) della legittima provenienza dell’atto, mentre alcun onere di controllo può essere ascritto, a colui che lo presenta, sull’operato della persona addetta a riceverlo.
Tal che se ne faceva conseguire come questo adempimento sia da considerarsi assolto anche quando l’identità della persona appaia desumibile dal complessivo esame dell’atto di impugnazione e dell’attestazione di ricezione, in assenza di elementi di equivocità tali da far ragionevolmente dubitare della legittima provenienza dell’atto stesso dal soggetto titolare del diritto di impugnazione fermo restando che l’inosservanza delle disposizioni richiamate dall’art. 591, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. in tanto può dar luogo alla inammissibilità dell’impugnazione in quanto sia addebitabile a difetto di diligenza da parte del titolare del diritto di impugnazione ovvero, trattandosi di inosservanza addebitabile agli uffici, la stessa assuma caratteristiche tali da far escludere anche la possibilità della presunzione, altrimenti doverosa, che il titolare del diritto di impugnazione abbia, per parte sua, osservato le prescrizioni a lui dirette mentre nessun onere di controllo sull’operato degli uffici addetti alla ricezione delle impugnazioni, relativamente agli adempimenti posti dalla legge a carico degli stessi, può ritenersi dunque gravante sui soggetti titolari del diritto di impugnazione e pertanto non può farsi ricadere sulla parte impugnante la conseguenza di un’inosservanza che va addebitata, se del caso, all’ufficio ricevente.
Da ciò se ne faceva discendere il principio secondo il quale l’impugnazione è ammissibile anche se manca la specifica indicazione della persona che presenta l’atto di impugnazione, non potendo addebitarsi al suo titolare una inosservanza compiuta dal pubblico ufficiale addetto alla Cancelleria (Sez. 1, n. 5021 del 20/12/1991, dep. 1992, omissis, Rv. 189117; Sez. 2, n. 5501 del 24/02/1992, omissis, Rv. 190361), e ciò anche perché alla individuazione delle modalità di presentazione dell’atto di impugnazione, così come descritte dal legislatore nella previsione dell’art. 582 cod. proc. pen., si riconnette, invero, una funzione di sostanziale garanzia di certezza della provenienza dell’atto dal titolare del diritto di impugnazione sicchè non sono imposte particolari formalità neanche per la figura dell’incaricato, potendo il relativo conferimento avvenire anche oralmente ed essere dichiarato e accertato dalla cancelleria attraverso la qualificazione e la ricognizione del presentatore dell’atto e del suo rapporto con chi lo ha sottoscritto, ovvero, nel caso di impugnazione del Pubblico Ministero, con l’ufficio di provenienza (Sez. 6, n. 4947 del 26/02/1997, omissis, Rv. 208910; Sez. 2, n. 35345 del 12/06/2002, omissis, Rv. 222920) e dunque non è indispensabile, anche sotto tale connesso profilo, la materiale presenza del magistrato nella cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, essendo sufficiente che l’atto di impugnazione, già sottoscritto da un magistrato della Procura, sia presentato da personale interno all’ufficio della stessa Procura, incaricato della consegna, sempre che, in ragione del rapporto dell’incaricato con il titolare del potere di impugnazione, si abbia piena garanzia circa l’autenticità della sottoscrizione (Sez. 6, n. 28825 del 21/09/2017, dep. 2018, omissis, Rv. 273663; Sez. 2, n. 52195 del 07/10/2016, omissis, Rv. 268669).
Posto ciò, si evidenziava al contempo come il registro di passaggio non assolva certo la funzione propria di un atto costitutivo dell’impugnazione bensì quella di un atto che documenta l’intervenuta presentazione del gravame nella cancelleria del giudice, ai fini interni dell’ufficio del P.M. (Sez. 6, n. 2642 del 30/09/1993, omissis, Rv. 195888) e di conseguenza, esso costituisce il veicolo ufficiale di trasferimento degli atti da un ufficio giudiziario all’altro, con il logico corollario che la persona che ha presentato l’atto può essere agevolmente individuata attraverso la consultazione di tale registro (Sez. 1, n. 759 del 28/10/1993, dep. 1994, omissis, Rv. 196227).
Tal che se ne faceva discendere la conclusione secondo la quale la prova dell’inoltro degli atti del P.M. ad altro ufficio può essere desunta, oltre che dal timbro di ricezione dell’atto da parte di quest’ultimo, anche dall’annotazione del medesimo sui registri di passaggio, che hanno natura fidefacente (Sez. 3, n. 35310 del 07/06/2011, omissis, Rv. 250856).
Orbene, declinando tali criteri ermeneutici al caso sottoposto al suo scrutinio giudiziale, gli ermellini facevano presente come a tale quadro di principi si fosse correttamente uniformata la sentenza impugnata là dove aveva evidenziato il fatto che l’appello proposto dal P.M. recasse la chiara intestazione della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Brescia, la sottoscrizione del Procuratore della Repubblica e del sostituto titolare dell’indagine, il timbro di deposito presso la segreteria di quell’Ufficio e il timbro dell’Ufficio ricevente, con l’indicazione della data di ricezione e la sottoscrizione del pubblico ufficiale addetto, traendone logicamente la coerente conclusione della evidente riferibilità dell’atto di appello all’ufficio del P.M..
Si reputavano altresì inammissibili i profili di doglianza oggetto del secondo e del terzo motivo del ricorso proposto nell’interesse di A. R..
Si osservava al riguardo, una volta rilevato che il nuovo comma 3-bis dell’art. 428 cod. proc. pen., introdotto dall’art. 1, comma 40, della legge 23 giugno 2017, n. 103, stabilisce che “contro la sentenza di non luogo a procedere pronunciata in grado di appello possono ricorrere per cassazione l’imputato e il procuratore generale solo per i motivi di cui alle lettere a), b) e c) del comma 1 dell’articolo 606”, c.p.p., come la ricorribilità per cassazione si estenda, in assenza di limitazioni espressamente imposte dal legislatore, non solo alla sentenza di non luogo a procedere pronunziata dal giudice d’appello a conferma della decisione emessa all’esito dell’udienza preliminare, ma anche a quella pronunziata con formula differente, sia essa più o meno favorevole rispetto alla precedente a fronte invece di una contrazione dei casi di ricorso, ora circoscritti ai soli motivi di cui all’art. 606, comma 1, lett a), b) e c), c.p.p. laddove nell’originaria disciplina il ricorso per cassazione era proponibile senza limiti.
Sempre in ordine alle novità introdotte dalla legge n. 103 in relazione a quanto statuito dal “nuovo” art. 428, c. 3-bis, c.p.p., la Suprema Corte evidenziava altresì che: a) se la limitazione alle sole violazioni di legge si pone, per un verso, in linea con la disciplina di ordine generale dettata dal nuovo art. 608, comma 1-bis cod. proc. pen. per la ipotesi del ricorso proposto dal P.G. avverso la conferma in appello della sentenza di proscioglimento, per altro verso si giustifica – alla luce del rafforzamento del principio della presunzione di non colpevolezza dell’imputato – con il fatto che, quanto meno nella parte afferente l’oggetto del processo, sotto il profilo della completezza degli elementi necessari per effettuare una valutazione di sostenibilità dell’accusa in giudizio, la sentenza di non luogo a procedere non possa né debba esser più messa in discussione, esistendo già al riguardo una doppia valutazione conforme; b) la scelta del legislatore è altresì giustificata dal fatto che la valutazione della Corte di cassazione, mancando necessariamente una rinnovazione istruttoria in appello, non farebbe altro che replicare, appesantendo inutilmente la procedura, la valutazione già effettuata dal giudice di secondo grado e, per questa ragione, l’oggetto del giudizio di legittimità viene pertanto delimitato dal legislatore escludendo, con evidenti finalità deflattive, i motivi di cui alle lett. d) ed e) dell’art. 606, mentre il provvedimento impugnabile in sede di legittimità è solo la sentenza di non luogo a procedere pronunciata in grado di appello, non certo il decreto che dispone il giudizio emesso dalla Corte d’appello in esito alla riforma, totale o parziale, della originaria sentenza di non doversi procedere emessa nella fase conclusiva dell’udienza preliminare così come, sempre ad avviso della Corte, analoghe considerazioni devono svolgersi nell’ipotesi in cui l’epilogo decisorio dinanzi alla Corte d’appello si scinda, come verificatosi nel caso qui esaminato, in una duplice direzione, pronunciando il giudice di secondo grado, pur all’interno di un unico dispositivo, una decisione di rigetto dell’azione penale con la conferma del proscioglimento per una parte dell’imputazione e statuendo, al contempo, il rinvio a giudizio per l’altra parte dei temi d’accusa: a fronte di tale evenienza procedimentale il ricorso per cassazione non può attingere quest’ultima parte del decisum, ma può investire solo la prima, poiché in caso contrario sospingerebbe il vaglio della Suprema Corte su un oggetto – la decisione intervenuta sul rinvio a giudizio – la cui cognizione le è preclusa in quanto insuscettibile di impugnazione in sede di legittimità ex art. 428 comma 3-bis cit., ponendosi altrimenti la Corte quale giudice interposto rispetto alla naturale sede del giudizio, che è quella propria del giudice del dibattimento di primo grado.
Una volta terminato questo passaggio argomentativo, i giudici di Piazza Cavour rilevavano che i su indicati motivi del ricorso presentato nell’interesse del R. si concentrassero su vizi di contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione il cui controllo è dalla su citata disposizione normativa radicalmente precluso in sede di legittimità, ovvero su censure il cui esame, dietro l’apparente schermo dell’enunciata violazione di legge ex artt. 521, comma 2 e 522, comma 1, cod. proc. pen., direttamente involge i contorni di una tipica quaestio facti, attraverso il richiesto vaglio delibativo in merito alla contestata modifica della struttura del fatto nella parte relativa alla condotta violativa di legge oggetto dell’imputazione di abuso in atti d’ufficio, ossia alla individuazione e alla correlativa giustificazione sul piano motivazionale dei presupposti stessi di configurabilità della fattispecie di reato oggetto del rinvio a giudizio disposto dalla Corte d’appello, irrilevante dovendosi ritenere, al riguardo, il fatto che una porzione di quella condotta abbia costituito oggetto della declaratoria di prescrizione: profili, questi, sui quali solo il giudice del dibattimento può ritualmente intervenire sulla base di un apprezzamento di merito complessivamente esteso sull’intera condotta oggetto dell’imputazione e, entro la medesima impostazione ricostruttiva, la Corte stimava di dovere inquadrare la doglianza, comune a tutti i ricorrenti, rispettivamente enucleata nel quarto motivo del ricorso proposto nell’interesse del R. e nel secondo motivo dei ricorsi proposti nell’interesse di C. e G., incentrandosi tali censure sulla contestata configurazione del delitto di abuso in atti d’ufficio quale reato unitario a consumazione prolungata, il cui definitivo spirare, pertanto, dovrebbe verificarsi non al momento del materiale affidamento degli incarichi di custodia giudiziaria (sì come ritenuto dal giudice di primo grado), ma nella successiva fase della liquidazione dei relativi compensi, con la conseguente erronea delimitazione dell’operatività della causa estintiva prescrizionale al solo decreto di liquidazione del 12 maggio 2010 e non anche a quelli successivamente adottati: profili di censura, questi, che evidentemente involgono l’apprezzamento non tanto della correttezza, o meno, del parziale esito liberatorio fondato sulla declaratoria di non luogo a procedere per la prescrizione di una porzione della condotta, quanto invece della correttezza della configurazione giuridica del reato accolta nel contestuale decreto che dispone il giudizio, siccome basata, secondo i ricorrenti, sull’erroneo presupposto, in tesi, che i decreti di liquidazione successivamente emessi avrebbero integrato, in via progressiva e crescente, l’ingiusto danno patrimoniale all’erario cui fa espresso riferimento il tema d’accusa delineato nel decreto che dispone il giudizio, con la inevitabile conseguenza in punto di ammissibilità delle censure al riguardo formulate.
Conclusioni
La sentenza in commento è sicuramente di notevole interesse nella parte in cui elabora la portata innovativa dell’art. 428, c. 3-bis, c.p.p. recentemente introdotto nel nostro ordinamento giuridico per effetto dell’art. 1, c. 40, legge, 23 giugno 2017, n. 103.
Al riguardo è sicuramente condivisibile, in quanto non contraddetta dal tenore testuale di questa norma procedurale, l’argomentazione sostenuta in questa pronuncia secondo la quale la ricorribilità per cassazione si estende, in assenza di limitazioni espressamente imposte dal legislatore, non solo alla sentenza di non luogo a procedere pronunziata dal giudice d’appello a conferma della decisione emessa all’esito dell’udienza preliminare, ma anche a quella pronunziata con formula differente, sia essa più o meno favorevole rispetto alla precedente purchè, da un lato, il ricorso sia proposto dall’imputato o dal procuratore generale, dall’altro, i motivi addotti riguardino solo quelli di cui alle lettere a), b) e c) del c. 1 dell’art. 606 c.p.p..
Una ricostruzione ermeneutica in questi termini, difatti, come appena scritto, è rispettosa del dato letterale di questo precetto di legge anche perché non vi sono altre norme giuridiche che depongano in senso contrario.
Va da sé dunque che, ove si dovesse ricorrere per Cassazione a norma dell’art. 428, c. 3-bis, c.p.p., ben si potrà impugnare la sentenza di non luogo a procedere a prescindere della formula decisoria ivi impiegata, purchè i motivi di ricorso siano quelli consentiti da questa statuizione di legge.
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