(Ricorso dichiarato inammissibile)
(Orientamento confermato)
(Normativa di riferimento: C.p.p. art. 625 bis)
Il fatto
Con sentenza del 21/6/2013, la Corte di appello di Lecce confermava la decisione con la quale, in data 27/9/2012, il Tribunale di Lecce — Sezione di Gallipoli, aveva affermato la responsabilità penale dell’imputato per i reati di cui agli artt. 81 cod. pen., 44, lett. c) d.P.R. n. 380 del 2001 e 181 d.lgs. n. 42 del 2004, in relazione alla lottizzazione abusiva di un’area in zona SIC – ZPS assoggettata a vincolo paesaggistico, effettuata mediante ampliamento di una struttura turistico – ricettiva abusiva, precedentemente realizzata (164 bungalow stabilmente impiantati al suolo, un fabbricato destinato a bar ristorante, un supermercato, una reception, uffici, servizi e strutture accessorie) mediante realizzazione di piazzole di sosta attrezzate per tende e camper, effettuazione di scavi per vere e proprie opere dì urbanizzazione (fognature ed impianti di distribuzione elettrica ed idrica), e realizzazione di uno stradone di collegamento e predisposizione di 54 miniappartamenti mobili, composti ognuno da camera da letto, cucina e soggiorno, poggianti su ruote gommate ed installati su binari longitudinali in ferro.
Avverso tale pronuncia l’imputato proponeva ricorso davanti alla Corte di cassazione che, con sentenza n. 36807 del 17 luglio 2017, confermava la decisione della Corte territoriale, dichiarando inammissibile il ricorso.
Ricorso a norma dell’art. 625-bis c.p.p.
Contro la sentenza emessa dalla Cassazione il condannato, tramite il proprio difensore, proponeva ricorso ai sensi dell’art. 625-bis cod. proc. pen., eccependo, in primo luogo, che la Corte sarebbe incorsa in una svista di tipo percettivo avente ad oggetto la verifica della compatibilità delle opere edilizie con la effettiva destinazione urbanistica vigente all’epoca dei fatti, tale da determinare uno sviamento nella formazione della decisione, diversa da quella che altrimenti sarebbe stata adottata. In particolare, la Corte avrebbe erroneamente valutato la programmazione urbanistica del Comune ove insiste la struttura turistico-ricettiva oggetto del procedimento, classificando il territorio interessato come destinato a “zona agricola” quando, invero, tale area è sempre stata destinata esclusivamente a “campeggi“, così come emergerebbe dalla lettura degli atti processuali e dalla destinazione programmata del territorio comunale.
Sempre secondo quanto prospettato dal ricorrente, la terza sezione penale avrebbe inoltre omesso di dichiarare l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione rilevandosi in particolare che la prescrizione era maturata già prima della sentenza di appello e tuttavia la Corte territoriale aveva omesso di rilevare la causa estintiva.
Ulteriori argomentazioni sostenute davanti alla Corte di Cassazione
Il ricorrente, all’udienza del 17.07.2017, innanzi alla terza sezione, aveva espressamente chiesto non solo l’accoglimento dei motivi di ricorso ma altresì la declaratoria di estinzione, conformemente alla richiesta del P.G. e tanto coerentemente con la preliminare richiesta di rinvio in attesa della decisione della Grande Camera della Corte EDU sulla nota e vexata quaestio relativa alla compatibilità della confisca in mancanza di sentenza di condanna notandosi al riguardo che questa richiesta altrimenti non avrebbe trovato spiegazione se non proprio per la eccepita prescrizione e tanto sarebbe anche confermato, come risulta nella intestazione della sentenza, dalla richiesta della difesa di “annullamento senza rinvio“, riguardante proprio la declaratoria di estinzione per prescrizione; richiesta che non sarebbe stata coerente con i motivi di ricorso tendenti tutti ad annullamento con rinvio.
Da ultimo, osservava il ricorrente come dovesse ritenersi illegittimo e non compatibile con il dettato costituzionale, rispetto agli artt. 3 e 24, nonché in relazione al principio di ragionevolezza il principio evincibile dalla pronuncia delle Sezioni unite “Ricci” secondo cui, ove la causa estintiva intervenga durante il tempo intercorrente tra la decisione d’appello e quella di legittimità, e non sia stata dichiarata, è ammesso il ricorso ex art. 625 bis, anche in mancanza di eccezione difensiva stante la doverosità della rilevazione (art. 129 e 609 cod. proc. pen.), mentre non sia previsto un rimedio nel caso in cui la estinzione maturi prima della decisione d’appello.
Con ulteriore memoria depositata in data 22 marzo 2018, la difesa insisteva nell’accoglimento del ricorso ribadendo quanto dedotto nel primo motivo a sostegno dello stesso.
Le valutazioni giuridiche della Corte di Cassazione
La Cassazione riteneva inammissibile il ricorso proposto stimando i motivi ivi addotti manifestamente infondati non rientrando gli errori denunciati nella categoria degli errori di fatto cui si riferisce l’art. 625-bis cod. proc. pen..
In particolare, gli ermellini osservavano prima di tutto come, già all’indomani dell’introduzione nel codice di procedura penale del nuovo articolo 625-bis, ad opera della legge 26 marzo 2001, n. 128, le Sezioni unite della Corte di cassazione avessero chiarito che l’errore “di fatto” è “l’errore percettivo causato da una svista o da un equivoco in cui la Corte di cassazione sia incorsa nella lettura degli atti interni al giudizio stesso e connotato dall’influenza esercitata sul processo formativo della volontà, che abbia condotto a una decisione diversa da quella che sarebbe stata adottata senza di esso“ (Sez. U, n. 16103 del 27/03/2002, Basile, Rv. 221281; Sez. U, n. 18651 del 26/03/2015, Moroni, Rv. 263686) precisando altresì che lo sviamento della volontà del giudice deve essere decisivo, in quanto determinante per il convincimento del giudice stesso espresso nella soluzione adottata, e deve essere di oggettiva ed immediata rilevabilità, nel senso che dal controllo degli atti processuali deve trasparire ictu oculi che la decisione è stata condizionata da un errore di percezione.
Tal che qualora, pertanto, la causa dell’errore non sia identificabile esclusivamente in una fuorviata rappresentazione percettiva e la decisione abbia comunque contenuto valutativo, non è configurabile un errore di fatto, bensì di giudizio e come tale non rientrante nella disciplina dettata dalla norma in esame.
Posto ciò, facendo applicazione dei criteri interpretativi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in subiecta materia, risultava evidente, ad avviso della Corte, come i presunti errori percettivi denunciati fossero in realtà errori che avevano un prevalente contenuto valutativo dato che, per un verso, se con il primo motivo non si evidenziava un errore di fatto in cui sarebbe incorsa la sentenza di legittimità ma si tentava di contestare le conclusioni a cui sono addivenute le pronunce di merito circa l’interpretazione degli strumenti urbanistici e il carattere abusivo delle opere edilizie, all’esito peraltro dell’espletamento di specifici accertamenti di natura tecnica, invece, la Corte di Cassazione, con la sentenza impugnata, aveva valutato e deciso tale questione spendendosi diffusamente sulla correttezza delle motivazioni delle pronunce di merito con giudizio valutativo come tale escluso dall’orizzonte dell’invocato rimedio straordinario a nulla dunque rilevando la prospettazione difensiva secondo la quale “Codesta Ecc.ma Suprema Corte ha erroneamente valutato la programmazione urbanistica del Comune…“, stimandosi detta contestazione attinente al profilo valutativo e non percettivo della sentenza.
I giudici di Piazza Cavour, inoltre, reputavano altresì non accoglibile il ricorso in questione anche alla luce di quell’orientamento nomofilattico alla stregua del quale è inammissibile il ricorso straordinario per errore di fatto con il quale si deducano pretesi errori di lettura, comprensione o valutazione di atti processuali del giudizio di merito, invece di una inesatta percezione di risultanze direttamente ricavabili da atti relativi al giudizio di cassazione (Sez. 1, n. 17362 del 15/04/2009, Di Matteo, Rv. 244067; Sez. 6, n. 25121 del 02/04/2012, Romano, Rv. 253105).
Per quel che invece riguardava il secondo motivo di ricorso (mancata dichiarazione dell’estinzione del reato per intervenuta prescrizione sebbene la prescrizione fosse maturata già prima della sentenza di appello), si osservava come rispetto ai reati contestati risultasse certamente decorso il termine di prescrizione già in epoca antecedente alla pronuncia di secondo grado ma tuttavia, non avendo il ricorrente provveduto con uno specifico motivo di ricorso a censurare la pronuncia della corte di appello che aveva omesso di dichiararla, la Terza sezione della Corte di Cassazione, essendo pervenuta ad una pronuncia di inammissibilità del ricorso, del tutto correttamente non aveva rilevato la richiamata causa di estinzione del reato.
Si reputava pertanto come la sentenza impugnata fosse ineccepibile ponendosi in perfetta sintonia con i principi più volte affermati dalla giurisprudenza di legittimità anche nella sua massima espressione dato che, con la nota sentenza n. 12602 del 27 dicembre 2015, dep. 2016, Ricci, Rv. 266818, le Sezioni unite, a fronte di un contrasto sviluppatosi tra le sezioni semplici, avevano avuto modo di fissare chiari principi in relazione alla tematica, che qui interessa, relativa all’individuazione dell’ambito di cognizione rimesso al giudice dell’impugnazione inammissibile ed alla possibilità per lo stesso di rilevare eventuali cause di non punibilità ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., con specifico riferimento alla prescrizione del reato; in particolare, in questo arresto giurisprudenziale, nel dirimere il contrasto, le Sezioni unite avevano aderito all’impostazione tradizionale, già accolta da Sez. U., n. 23428 del 22 marzo 2005, Bracale, Rv. 231164, escludendo che in caso di ricorso manifestamente infondato il giudice dell’inammissibilità potesse rilevare d’ufficio la prescrizione anche se maturata prima della conclusione della fase di merito e addivenivano a questa soluzione ermeneutica rilevando, una volta prese le mosse dall’impianto interpretativo elaborato sul tema dalla giurisprudenza di legittimità a seguito del superamento della dicotomia cause di inammissibilità originarie/sopravvenute, ponendosi in linea di continuità con la ricostruzione ermeneutica elaborata dalle sentenze “De Luca” e “Bracale“, che il superamento della preclusione processuale derivante dall’inammissibilità del gravame, impedendo il passaggio del procedimento all’ulteriore grado di giudizio, inibisce la cognizione della questione e la rivisitazione del decisum per la formazione del cosiddetto “giudicato sostanziale” atteso che soltanto l’accertata ammissibilità dell’impugnazione, per l’effetto propulsivo che la connota, investe il giudice del potere decisorio sul merito del processo mentre al contrario la declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione preclude una qualsiasi pronuncia sul merito e ciò in quanto tutte le ipotesi di inammissibilità previste, in via generale, dall’art. 591, comma 1, lett. a), b), c), cod. proc. pen., e, con riguardo specifico al ricorso per cassazione, dall’art. 606, comma 3, cod. proc. pen. viziano geneticamente l’atto, che, ponendosi al di fuori della cornice normativa di riferimento, provoca la reazione dell’ordinamento con la corrispondente sanzione, quale risposta ad un potere di parte non correttamente esercitato; di conseguenza, dette ipotesi, a prescindere dalle modalità più o meno agevoli di rilevazione, sono tutte ugualmente intrinseche alla struttura dell’atto, sì da renderlo inidoneo ad investire il giudice del grado successivo della piena cognizione del processo.
Tal che se ne fa conseguire come la sentenza invalidamente impugnata diventi intangibile sin dal momento in cui si concretizza la causa di inammissibilità, che va apprezzata in un’ottica “sostanzialistica” della dinamica impugnatoria e delle relative conseguenze sul piano delle preclusioni processuali (giudicato sostanziale) mentre la successiva declaratoria d’inammissibilità della impugnazione da parte del giudice ad quem ha carattere meramente ricognitivo di una situazione già esistente e determina la formazione del giudicato formale.
L’inammissibilità dell’impugnazione, quindi, secondo la Corte, paralizza, sin dal suo insorgere, i poteri decisori del giudice, il quale, al di là dell’accertamento di tale profilo processuale, non è abilitato a occuparsi del merito e a rilevare, a norma dell’art. 129 cod. proc. pen., cause di non punibilità, quale l’estinzione del reato per prescrizione, sia se maturata successivamente alla sentenza impugnata sia se verificatasi in precedenza, nel corso cioè del giudizio definito con tale sentenza e, sempre ad avviso della Corte, non avrebbe rilievo, per sostenere la tesi ermeneutica avversa, fare leva sulla ratio ispiratrice dell’art. 129 cod. proc. pen. per trarre argomenti decisivi a favore della prevalenza della declaratoria di non punibilità visto che tale norma non riveste una valenza prioritaria rispetto alla disciplina della inammissibilità, considerato che non attribuisce, di per sé, al giudice dell’impugnazione un autonomo spazio decisorio, svincolato dalle forme e dalle regole che presidiano i diversi segmenti processuali, ma si limita a dettare una regola di giudizio, che deve essere adattata alla struttura del processo così come normativamente disciplinata e che deve guidare il giudice nell’esercizio dei poteri decisori che già gli competono in forza di una corretta investitura.
Pertanto, nell’ambito di questa cornice positiva, la Corte riteneva come andasse letta e apprezzata la ratio dell’art. 129 cod. proc. pen., che persegue certamente gli obiettivi del favor innocentiae e dell’economia processuale (immediata declaratoria di cause di non punibilità), ma nell’ambito di ben individuate scansioni processuali stante anche il fatto che non vi sarebbe contrasto con i principi di equità, razionalità e ragionevole durata del processo (art. 6, § 1, CEDU), di presunzione d’innocenza della persona fino a pronuncia definitiva di colpevolezza (art. 6, § 2, CEDU) e di prevedibilità di tutte le conseguenze negative – anche sotto il profilo della tutela processuale – della condotta realizzata (art. 7, §1, CEDU), essendo comunque onere della parte interessata attivare correttamente il rapporto processuale d’impugnazione con l’esclusione, in caso contrario, di ogni potere cognitivo del giudice.
Tornando a trattare l’arresto giurisprudenziale summenzionato, si osservava altresì che in questa pronuncia non si avrebbe, altresì, posto a fondamento normativo la distinzione tra prescrizione maturata prima o dopo la sentenza di merito, dato che “l’omessa rilevazione della prescrizione è un dato destinato, come un qualsiasi altro errore, a rimanere privo di rilievo, se non viene attivato il controllo sulla sentenza del giudice precedente, attraverso la proposizione di un valido ricorso“.
Di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, la Cassazione concludeva postulando che, solo nel caso in cui l’intervenuta prescrizione del reato, maturata prima della sentenza di appello, sia stata dedotta – anche se quale unico motivo – nell’ impugnazione, è possibile una declaratoria di estinzione del reato, essendo tale atto idoneo ad attivare il rapporto processuale del grado superiore e ad escludere la formazione del c.d. “giudicato sostanziale“ e dunque, anche ai fini della ammissibilità del ricorso straordinario per errore di fatto sulla prescrizione del reato, non può mai prescindersi dalla ammissibilità dell’originario ricorso, sia nel caso in cui la prescrizione sia maturata prima della sentenza di appello che nel caso in cui sia maturata successivamente.
Da ciò i giudici di legittimità ordinaria ritenevano come dovesse escludersi il carattere percettivo degli errori denunciati in quanto la motivazione della pronuncia della Suprema Corte si era formata attraverso la specifica valutazione del provvedimento impugnato e la prospettazione degli errori contenuta nel ricorso in realtà denuncia un vizio di motivazione per cui la doglianza si traduceva in una non consentita richiesta di rivalutazione dei contenuti della decisione.
Conclusioni
La sentenza si palesa condivisibile in quanto in essa si fa un buon governo di orientamenti nomofilattici consolidatisi nel tempo.
Nel caso di proposizione di un ricorso straordinario per Cassazione, dunque, l’errore di fatto che può essere invocato in questo mezzo di impugnazione straordinaria deve riguardare esclusivamente un errore percettivo causato da una svista o da un equivoco in cui la Corte di cassazione sia incorsa nella lettura degli atti interni al giudizio stesso e connotato dall’influenza esercitata sul processo formativo della volontà, che abbia condotto a una decisione diversa da quella che sarebbe stata adottata senza di esso
Non è pertanto consentito addurre un errore di giudizio che, in quanto tale, non rileva in casi di questo tipo.
Allo stesso modo non è possibile invocare il maturarsi di una causa estintiva del reato quando questa, maturata durante il giudizio ordinario, non sia stata oggetto di specifica doglianza in sede di impugnazione (anch’esso ordinario).
Di talchè ne deriva che deve essere premura del difensore dedurre l’insorgere di questa causa estintiva nell’appello o nel ricorso per Cassazione (a seconda di quale fase processuale viene in essere detta causa) non potendosi chiedere il suo riconoscimento attraverso il ricorso previsto dall’art. 625 bis c.p.p..
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