Prime applicazioni concrete degli effetti della sentenza n. 32 della Corte Costituzionale (che ha abrogato gli artt. 4 bis e 4 vicies ter del DL 272/2005) alle sentenze passate in cosa giudicata.
Da un lato l’ordinanza del Tribunale di Agrigento, dall’altro il GUP presso il Tribunale di Perugia.
Entrambe rideterminano le pene detentive e pecuniarie, precedentamente inflitte – nel corso dei giudizi cognitivi -, ma pervengono a tale conclusione attraverso due distinti (e diametralmente opposti) percorsi argomentativi.
E’, comunque, indubbio che la valutazione di entrambi i giudici – di cui si riportano in allegato le decisioni – abbia preso a paradigma il recentissimo autorevole intervento delle SS.UU. (29 maggio 2014, in attesa di pubblicazione), il quale – ponendo definitivamente termine ad una diatriba ermeneutica insorta all’interno della 1° Sezione della Corte di Casssazione – ha squarciato quel velo di intangibilità che avrebbe avvinto, per communis opinio, il giudicato, attribuendo – così – un’alea di immodificabilità ad una pena divenuta illegale, o riconosciuta tale con efficacia ex tunc.
Va evidenziato che un ulteriore punto di incontro fra le due ordinanze – un vero denominatore comune alle stesse – si rinviene nella considerazione che entrambe si rifanno geneticamente alla pronunzia n. 977/2011 della Sez. 1 della Corte di Cassazione, la quale ebbe ad affermare il principio generale che la pena, contenuta nella sentenza di condanna passata in cosa giudicata, rimane, comunque, sub judice, in uno stato quasi di sospensione limbica.
E’, infatti, preciso dovere che incombe a carico di uno Stato di diritto, quello di essere pronto a rimuovere (legislativamente o giurisdizionalmente) qualsiasi titolo normativo, in forza del quale venga applicata ed eseguita ingiustamente una pena che esula dal solco della legalità.
Deriva, dunque – in modo specifico dall’esame dell’ordinanza del GUP presso il Tribunale di Perugia – una analitica ricostruzione di quel percorso giurisprudenziale che ha avuto il proprio acme nella richiamata sentenza SS.UU. 29 maggio 2014 (passando necessariamente per la nota ordinanza 10 settembre 2012 nel procedimento penale più noto come quello dei cd. “figli minori del caso Scoppola”), e che ha valorizzato l’art. 30 comma 4° L. 87/1953, norma troppo presto impropriamente pensionata e disapplicata, sulla scorta di un’improvvida, quanto illogica, interpretazione dell’art. 673 c.p.p., per la quale la promulgazione di quest’ultima norma avrebbe provocato l’abrogazione della prima, sostituendola in toto.
E’, invece, vero – e questo è il reale nocciolo della questione – che le due norme in esame si posizionano su piani di intervento, tra loro, del tutto autonomi ed indipendenti e ciò, non solo perchè l’una (l’art. 30/4°) presenta caratteri sostanzialistici, mentre l’altra (l’art. 673) manifesta inclinazioni proceduralistiche.
L’aspetto che distingue le due disposizioni in esame attiene, infatti, allo scopo che ciascuna di esse persegue.
L’art. 673 c.p.p. costituisce, infatti, uno strumento processuale concepito per la revoca di una sentenza di condanna, a seguito della sopravvenuta declaratoria di incostituzionalità della relativa norma incriminatrice.
In pratica, la revoca della sentenza risulta naturale conseguenza della espunzione del fatto commesso dal condannato, dal novero di quelli che costituiscono reato.
L’art. 30 comma 4° della L. 87/1953, a propria volta, invece, si sofferma su di una prospettiva di maggiore respiro – costituzionalmente ispirata sia all’art. 27, che all’art. 25 co. 2 – in quanto esso “..si presta…ad essere letto nel senso di impedire anche solamente una parte dell’esecuzione quella relativa alla porzione di pena che discendeva dall’applicazione della norma poi riconosciuta costituzionalmente illegittima”.
Dopo l’univoca e comune premessa, le due ordinanze divergono, però, sulla metodica da applicare al fine di rideterminare la pena divenuta illegale.
La decisione del Tribunale di Agrigento – che prendeva in esame una pena finale (assai severa invero) di 6 anni di reclusione per la cessione di circa gr. 56 di hashish – opera un ricalcolo aritmetico della pena che può essere definito come “meccanicamente proporzionale”[1].
Il giudice, infatti, partendo dalla considerazione che la sentenza oggetto di rivisitazione quoad poenam ha stabilito la pena finale, fissandola nel limite minimo edittale all’epoca vigente (anni 6 di reclusione), conclude nel senso che – ferma la stauizione concernente il giudizio di equivalenza delle concesse attenuanti generiche rispetto alla aggravante della recidiva, valutazione assolutamente ultronea al campo di applicazione della sentenza n. 32 – “la sanzione congrua deve necessariamente individuarsi nel limite edittale” corrispondente a quello a suo tempo utilizzato (vale a dire nel limite minimo di due anni previsto dal comma 4° dell’art. 73).
L’automatismo metodologico – di carattere matematico – adottato, viene giustificato con la sussistenza di un non meglio precisato limite che il giudice dell’esecuzione incontrerebbe nel giudicato formatosi.
Dunque, l’adesione all’interpretazione resa dalla decisione del Tribunale di Agrigento, porterebbe a definire come tassativamente vincolanti, in sede di esecuzione, le valutazioni operate in tema di commisurazione parametrale della pena (base) dal giudice in sede di cognizione.
Questo orientamento viene, poi, sostenuto e confermato da una pronunzia del GUP presso il Tribunale di Lecce (17 giugno 2014)[2], la quale esclude che ci si possa discostare da “un percorso meramente aritmetico (basato sostanzialmente nell’operare un calcolo proporzionale che individui la pena oggi costituzionalmente corretta sulla base dei limiti minimi e massimi edittali previsti dalla fattispecie astratta nella sua formulazione precedente alla modifica dichiarata incostituzionale, applicando una pena che corrisponda – in proporzione – all’entità di pena applicata in sentenza commisurata all’epoca in rapporto tra i minimi ed i massimi edittali)..”.
La ordinanza che si richiama, a conferma di quella principale oggetto di disamina, circoscrive, inoltre, in termini del tutto minimi, gli spazi di discrezionalità attribuiti al giudice (attinenti – in pratica – al solo riconoscimento del beneficio della sospensione condzionale della pena), ritenendo che ogni facoltà, riconducibile all’applicazione degli artt. 132 e 133 c.p.p, sia stata esaurita nel giudizio di cognizione.
Si tratta di un indirizzo ermeneutico, che viene, però, disatteso dall’ordinanza del GUP presso il Tribunale di Perugia, il quale risulta portavoce di una visione giurisprudenziale, peraltro, già palesatasi con le ordinanze del GUP presso il Tribunale di Pisa[3] (15 aprile 2014) e del GUP presso il Tribunale di Vicenza (11 giugno 2014)[4].
Tale orientamento – pur muovendo dalla premessa che la decisione del giudice di merito deve essere ritenuta irrevocabile e non discutibile, in relazione ai passaggi tramite i quali si perviene alla pena da irrogare in concreto (concessione ed eventuale giudizio di valenza fra circostanze attenuanti e circostanze aggravanti, etc.) – afferma che la “rivisitazione della pena deve rispondere ai criteri ex art. 133 c.p.”, superando, in questo modo, la opposta tesi dell’automatismo delibativo e di calcolo.
Questa impostazione postula, pertanto, l’esercizio di una valutazione che, nel rispetto dell’intangibilità del giudicato in relazione all’iter logico che ha legittimato i passaggi seguiti dal giudice della cognizione per la quantificazione della pena finale, deve, però, muovere da un giudizio di proporzionalità ed adeguatezza della pena, non potendo apparire sufficiente la mera riconduzione della pena base all’interno della cornice sanzionatoria prevista attualmente dall’art. 73 comma 4° dpr 309/90.
Il giudice dell’esecuzione, nell’esercizio della propria funzione di rideterminazione della pena, appare, quindi, munito del potere di optare per una pena base – da cui partire per il calcolo successivo – che sfugga a qualsiasi tipo di proporzionalità e comparazione matematica rispetto a quella utilizzata in sede cognitiva.
E’ evidente, infatti, che diverse sono le condizioni oggettive e soggettive in base alle quali i due diversi giudizi hanno luogo ed esito.
Non dimentichiamo, infatti, che sotto la spada di Damocle della L. 49/2006, il minimo edittale dell’art. 73 comma 1 – previsione comune a qualsiasi specie di sostanza – appariva oggettivamente elevato (6 anni di reclusione).
Per tale motivo, in materia di delitti aventi ad oggetto la cannabis (proprio per la differente offensività degli stessi rispetto a quelli concernenti le cd. droghe pesanti) si è, perciò, sovente scelto di ancorare al minimo edittale, la pena base, onde potere pervenire ad una quantificazione finale, che, seppur parzialmente, potesse, in qualche modo, temperare l’obbiettiva asprezza della sanzione da irrogare.
Ripristinata – con la recente declaratoria di incostituzionalità del DL 272/2005, che ha determinato la riviviscenza del comma 4 dell’art. 73 – un’area sanzionatoria, maggiormente circoscritta (2 – 6 anni di reclusione), la quale prevede come apice, quella quantità di pena che, in precedenza costituiva, invece, la previsione minima (e, in pari tempo, un minimo di pena tre volte inferiore a quello precedente), appare evidente la pluralità di canoni cui il giudice può ispirarsi nell’identificazione della pena da applicare.
Lo stesso giudizio di gravità oggettiva del fatto, o di pericolosità sociale del condannato, oppure di riprovevolezza della di lui condotta processuale, possono e (forse) devono formare oggetto di riconsiderazione da parte del giudice dell’esecuzione, il quale, quindi, è del tutto libero – secondo i criteri dell’art. 133 c.p. – di individuare la piattaforma di pena che reputa più adeguata al caso di specie.
Soprattutto, ciò che maggiormente rileva, è l’osservazione che non può apparire elemento esaustivo il giudizio di rideterminazione della pena, la circostanza che la pena inflitta in sede di cognizione e di cui si richiede il ricalcolo possa rientrare nel range del comma 4° dell’art. 73, in quanto essa costituisce il risultato di un calcolo concernente una pena definita (medio tempore) illegale.
Va, pertanto condivisa pienamente la espressa rivendicazione della facoltà del giudice dell’esecuzione di “modificare la pena base, perchè altrimenti verrebbe ugualmente posta in esecuzione la pena incostituzionale”, contenuta nell’ordinanza del Tribunale di Perugia, che appare indice sintomatico del radicale diniego di qualsiasi forma di ricomputo statico della sanzione, legato all’adozione di criteri di mera e notarile proporzionalità fra pena abrogata e pena ripristinata.
Pur propendendo per la tesi che ricusa l’opzione di rimodulazione della pena in termini di un adeguamento matematico, che operi una riduzione assolutamente proporzionale, [e prenda a specifico parametro la pena utilizzata quale piattaforma, sulla quale il giudice della cognizione abbia operato aumenti o riduzione in virtù del natura percorso delibativo (che comprende circostanze attenuanti, aggravanti, continuazione etc.)], ritiene chi scrive che potrebbe creare una distonia sempre maggiore fra i due orientamenti opposti.
Non sarebbe, forse inutile sollecitare un ulteriore intervento chiarificatore del Supremo Collegio.
Rimini, lì 26 giugno 2014
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