La rieducazione e la general prevenzione possono coesistere?

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Approfondimento sulla rieducazione e la general prevenzione con un focus sulle tensioni non composte tra penalità minima e restrizione inframuraria.

Indice

1. Il carcere: tabù di cui non si può parlare

La cronaca chiama l’opinione pubblica a riflettere, in maniera sempre più incalzante, sulla funzione della pena che il nostro Paese vuole perseguire nel suo sistema penale. Ed è un susseguirsi di espressioni, in massima parte mutuate dal linguaggio giornalistico, quali: “certezza della pena”; “fiducia nella giustizia”; “pena esemplare”. Non mancano, inoltre, i commentatori che fomentano la pancia della piazza a suon di “buttiamo via la chiave”; come anche quelli che si attirano le ire delle Erinni, polemizzando sul fatto che il carcere non sia la soluzione bensì “un raddoppio del male”. Alla fine, la polemica, mi sembra possa riassumersi sulla necessità (od inutilità, secondo alcuni) che il carcere riacquisti il ruolo di garante della vigenza dell’ordinamento. Personalmente penso che gli addetti ai lavori, il Legislatore in maniera particolare, debbano tornare a riflettere sul ruolo che la detenzione inframuraria può ancora avere nel nostro sistema, senza pregiudizi e senza demonizzazioni, anche (soprattutto!) nel tempo dell’ “emenda”, la cui più alta espressione può rinvenirsi nella cd restorative justice. Certo, al netto delle note problematiche di sovraffollamento che tanto inchiostro fanno scorrere, ma che restano sempre irrisolte [1].
Ogni volta che ci confrontiamo con reati che colpiscono al cuore l’opinione pubblica, la prima cosa che balza agli occhi ed alle orecchie sono i titoli dei mass media che fanno riferimento a “chiedere giustizia”. Ma che significa realmente? Penso, una pluralità di sentimenti: dallo sdegno verso l’autore, alla solidarietà verso le vittime; passando per la richiesta di celerità nell’accertamento delle responsabilità, giungendo alla ricomposizione del senso di sicurezza violato dal criminale con la commissione del crimine. Purtroppo, sempre più spesso, ci accorgiamo che il reato di massimo allarme sociale arriva dopo una serie di violazioni ritenute minori e, come tali, guardate con “misericordia” dall’ordinamento. Esiste una sorta di cursus honorum del criminale da strada. La penalità mite per le infrazioni minori, che è à la une di gran parte della ricerca contemporanea, sta dimostrando che, da sola, non riesce a garantire quella risocializzazione che è di massimo auspicio per tutti, addetti ai lavori e cittadini. Questo perché, almeno da noi, il carcere viene visto come un tabù di cui non bisogna parlare, se non in senso demolitorio. Come un qualcosa che c’è ma che si vorrebbe espungere con forza dal panorama, pur di fronte alla necessità di contenere l’antisocialità di una frazione incomprimibile del consesso umano. Si parla di carcere solo per demonizzarne gli effetti o per relegarlo a luogo di massimo rigore per quei crimini troppo efferati, per digerire i quali c’è bisogno di più tempo. Sembrerebbe che chi non dica il carcere “raddoppio del male” non abbia diritto di parola.
No, il carcere non è un inutile raddoppio del male. Una società che voglia garantire effettività alle norme penali non può prescinderne. Altiero SPINELLI, che del carcere aveva fatto esperienza da innocente e patriota, in un periodo in cui il Paese aveva perso la bussola, scriveva della sua esperienza carceraria in una lettera a Piero CALAMANDREI: “Dal punto di vista della società, il carcere è un metodo come un altro di tenere fuori dal consorzio civile quella determinata frazione dell’umanità che non è capace di rispettare certe leggi vigenti e che costituisce perciò un pericolo per la permanenza nella società stessa. Si può naturalmente discutere sui modi atti a ridurre quella frazione, ma sta di fatto che in ogni determinata struttura sociale, morale, economica c’è una percentuale quasi fissa di popolazione che delinque e che va tenuta lontana dalla società[2]. La lettera segue con una attenta analisi di tutti i mali del carcere, ma con la convinzione profonda dell’indispensabilità di allontanare dalla società certi devianti: il carcere è insostituibile in ogni società.

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2. Beccaria, tiratu per la “marsina”

Spesso per avvalorare questa fuga dalla sanzione carceraria, si cita quale alfiere del miglior progresso giuridico Cesare BECCARIA. E non mi si fraintenda, anche io sono convinto che nel secolo dei lumi e negli scritti di BECCARIA vi sia davvero il seme per ben inquadrare la problematica, ma per motivazioni diametralmente opposte a quelle di chi lo esalta come precursore dei tempi, di una penalità talmente minima da essere – dico io – irrilevante. Proverò ad argomentare pur giungendo a conclusioni opposte, facendo tesoro degli studi fatti alla cattedra della scomparsa Prof.ssa ZANUSO dell’università di Verona a cui va il mio ringraziamento per i semi gettati nella mia mente ed a cui dedico il presente articolo.
Il celeberrimo “teorema generale” di BECCARIA: “perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, deve essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi[3], proprio per la sua monumentalità ha, forse, oscurato agli occhi della pubblica opinione quanto il suo portato sia ben più complesso. O, forse, la volontà di assoggettare una parte del pensiero del Nostro a fini diversi ha prevalso ed ha spinto a sottacere sul complessivo risultato della sua riflessione. Questo, se da un lato fornisce la prova della centralità della sua opera nell’evoluzione della moderna scienza penalistica – almeno nel panorama italiano – , dall’altro porta ad uno scadimento del messaggio che, tirato qua e là per attagliarlo a tesi anche molto distanti dal pensiero dell’autore, si ritrova su posizioni che, forse, BECCARIA stesso non avrebbe mai pensato di assumere. Possiamo, quindi, sostenere con la prof. ZANUSO che “laddove si sia disposti a porre in discussione l’immagine tralatizia con la quale è abitualmente letto, BECCARIA, ci riserva qualche sorpresa”, ad esempio nel minor senso umanitario del suo pensiero, rispetto a come lo si è dipinto e, per contro, in una adamantina convinzione utilitaristica del sistema penale [4].
Ma andiamo con ordine.

3. La penalità minima e senza interpretazione

Prima di tutto, ricordo a me stesso che il Milanese scriveva nella consapevolezza che “non è possibile il ridurre la turbolenta attività degli uomini ad un ordine geometrico senza irregolarità e confusione”, con ciò ammettendo che un minimo di devianza è fisiologica in ogni società. Era altrettanto certo del fatto che l’ipertrofia penalistica avrebbe nuociuto al sistema tanto quanto l’assenza di tutele penali, tanto che scriveva “Il proibire una moltitudine di azioni indifferenti non è prevenire i delitti che ne possono nascere, ma egli è un crearne di nuovi”: il diritto penale deve essere minimo, deve interessare i comportamenti che mettono in pericolo la suitas dei cittadini e la loro sicurezza e non gli interessi di classe, i privilegi di pochi [5]. Ed a proposito di privilegi tirannici, BECCARIA riproponeva la celeberrima massima di Montesquieu aprendola a nuovo significato: “ogni atto di autorità di uomo a uomo che non derivi dall’assoluta necessità è tirannico[6]. È tirannico, quindi, non solo il Sovrano che prevede pene che eccedono il necessario, ma è altrettanto tirannico il cittadino che lede le libertà del suo simile in violazione della legge. Potremmo azzardare, visto ciò che BECCARIA stesso sosteneva poche righe dopo, che è tirannico anche qualsiasi uso della giurisdizione che non sia previsto dalla legge [7]. BECCARIA rifiutava a chiare lettere la possibilità che il Giudice fosse qualcosa di diverso da «bouche de la loi», perché quello che veniva indicato comunemente come “consultare lo spirito della legge” era da ritenersi “un argine rotto al torrente delle opinioni[8]. Questo soprattutto a difesa dei cittadini più umili, che non hanno le necessarie entrature per tutelare i propri interessi [9]. Ecco un profilo del Newtoncino [10] che non sta nel mantra con cui lo vediamo abusato: la necessità di sottrarre all’interpretazione, pur qualificata, la legge che deve essere, continua il Nostro, chiara e facilmente comprensibile, proprio per non lasciare spazi alla presunta necessità di “consultare lo spirito della legge”, da un lato, e perché “non v’ha dubbio che l’ignoranza e l’incertezza delle pene aiutino l’eloquenza delle passioni”, dall’altro [11].
Ristretto, quindi, il panorama ad un diritto penale minimo – chiunque può apprezzare quanto questo possa essere, anche oggi, funzionale alla messa a punto del nostro sistema che ancora punisce con sanzione penale diverse fattispecie che, alla fine, importano sanzioni pecuniarie talmente irrisorie da perdere nei fatti il connotato “penale” – , e sottolineato come sia necessaria una minor discrezionalità del giudice in uno con una tecnica legislativa chiara, semplice e prontamente fruibile dal cittadino – circostanze strettamente legate al tempo ed al mondo di BECCARIA, ma quanto mai attuale anche nell’Italia di oggi, con cui bisogna necessariamente confrontarsi – , si arriva al nocciolo della questione penale.

4. La “seducente idea”

BECCARIA, infatti, consiglia di inquadrare il problema di come distogliere la volontà dei singoli dall’utilità che loro deriverebbe dal non ottemperare ai precetti penali. Vi è bisogno di “sensibili motivi” per  “distogliere il dispotico animo di ciascun uomo dal risommergere nell’antico caos le leggi della società”. Quindi la sanzione necessaria a che spontaneamente i consociati si astengano da determinati comportamenti deve essere “sensibile”, vale a dire tale da imprimere nell’animo un’idea di repulsione reale. In un altro celebre passaggio del suo “Dei delitti e delle pene”, BECCARIA ha dipinto il comportamento umano come un “fluido” in balia della “seducente idea” della trasgressione il quale, proprio perché “fluido”, cerca sempre l’equilibrio. Grazie a questa proprietà può essere governato con ostacoli e sollecitazioni terze. Tale sollecitazione esterna, in grado di bilanciare il “fluido” perché rifugga la “seducente idea” è la pena [12]. Il compito del legislatore è simile a quello “dell’abile architetto di cui l’officio è di opporsi alle direzioni rovinose della gravità e di far cospirare [le forze] quelle che contribuiscono alla forza dell’edificio[13]. In tale ottica, essendo l’edificio la società, il legislatore deve misurare i reati, in base a quale danno essi arrechino alla società, prevedendo una gerarchia tra di essi e punendo in maniera più severa quelli che attentano alla esistenza stessa della società ed in maniera più benevola, quelli che arrecano danno lieve ai rapporti tra i cittadini, atteso comunque che “ogni delitto benché privato offende la società” e, quindi, anche tali violazioni afferiscono alla società nel suo complesso [14]. La pena, quindi, deve necessariamente essere commisurata alla gravità del danno che le azioni contrarie alle leggi arrecano alla società e serve da contrappeso alle spinte pulsionistiche dei singoli [15].

5. Pena, istruzioni per l’uso

Posto di aver attinto l’utilità della pena nel sistema, BECCARIA illustra quale deve essere il fine da perseguire: la pena deve rifuggire lo scopo di “tormentare ed affliggere un essere sensibile” perché “le strida di un infelice non richiamano dal tempo che non ritorna le azioni già consumate”; deve, piuttosto, “impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali”. La pena, ancora, deve essere tale da fare “un’impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo[16]. Dunque non è l’orrore di pene atroci che muove l’animo a più miti consigli, secondo il Nostro, bensì quella che egli chiama la “prontezza” della pena, vale a dire il fatto che tra l’azione criminosa e la risposta punitiva trascorra il minimo tempo possibile: “egli è dunque di somma importanza la vicinanza del delitto e della pena, se si vuole che nelle rozze menti volgari, alla seducente pittura di un delitto vantaggioso, immediatamente riscuotasi l’idea associata alla pena[17]. La pena deve essere, ancora, infallibile [18], intendendo con ciò che al delitto deve seguire inesorabile, nella durata e specie stabilite per legge [19]. La pena, in fine, deve essere pubblica, perché oltre che al reo essa è rivolta alla collettività tutta che, ricevendone una efficace controspinta all’eventuale “seducente idea[20] e, aggiungo, deve riconoscere nella punizione del reo la vigenza dell’ordinamento [21]. Chi ritiene di dover far passare l’irrilevanza di fatto della questione penale per reati ritenuti bagatellari per il “padronaggio” di Beccaria, dovrebbe tenere a mente che, con ogni probabilità, Egli lo sconfesserebbe.

6. La bestia di servigio

Il Milanese, di fatto, arriva all’apoteosi della sua idea utilitaristica della pena quando, dopo aver rifiutato come diritto del Sovrano quello di mettere a morte un cittadino perché indisponibile in quanto non ceduto nel contratto [22], ammette la pena di morte come atto di guerra della Nazione al singolo quando “anche privo della libertà, egli abbia ancora tali relazioni e tale potenza che interessi la sicurezza della nazione” oppure “quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti[23]. Il Sovrano, dunque, non per diritto ma in via di fatto per l’utilità che potrebbe derivarne, è legittimato a muovere guerra ad un singolo per il bene della Nazione. Vi è di più. Perché l’abito di mite umanitarista, alfiere della dolcezza delle pene non sta più addosso al Nostro ove si rifletta come, al rifiuto della pena di morte egli accosti, perché maggiormente utile al perseguimento della general prevenzione, la riduzione del reo a “bestia di servigio”. Scrive BECCARIA: “Non è il terribile ma passeggero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti. Quell’efficace, perché spessissimo ripetuto ritorno sopra di noi medesimi, «Io stesso sarò ridotto a così lunga e misera condizione se commetterò simili misfatti», è assai più possente che non l’idea della morte, che gli uomini veggon sempre in una oscura lontananza[24]. Non è sul terreno della confutazione di principio che egli argomenta, bensì su quello dell’utilità sociale. È una scelta razionale che contempla l’(in)utilità di tale pena e la sua non esemplarità, in quanto rischia di suscitare negli spettatori compassione o indurimento per assuefazione al triste spettacolo [25]. Non così la riduzione a “bestia di servigio” che, ben lungi da poter essere intesa come un compromesso al ribasso col pensiero dell’epoca – come a dire pur di espungere la pena di morte, accontentiamoci di poco meno – è una scelta lucida e razionale, volutamente orientata al massimo risultato general preventivo. E’ dalla stessa voce dell’autore che giunge tale tesi, declamata nella dichiarazione di voto per la riforma del sistema penale della Lombardia austriaca: “Non è dunque una mala intesa compassione per i scellerati quella che ci move a sopprimere la pena di morte (…) la pena de’ pubblici lavori può rendersi efficacissima ed utile allo scopo d’ogni buona legislazione criminale, che è prima la correzione del reo, quando possibile, e sempre l’esempio dato agli innocenti per allontanarli dal delitto: e che la pena di morte, se è la più sbrigativa per disfarsi dei rei, non è la più conveniente per reprimere i delitti[26].
È indubbio che  BECCARIA sacrifichi sull’altare dell’utilità il luogo kantiano del rifiuto di confondere il reo “tra gli oggetti del diritto”, imperativo che, poche pagine prima aveva impugnato per condannare quelle leggi che permettono ai ricchi di poter reificare i poveri [27]. Ciò che invita il Sovrano ad evitare per non creare disparità tra sudditi, Egli non lo vieta al Sovrano stesso che, alle condizioni di cui ho già dato conto, deve poter ricorrere all’atroce riduzione a “bestia di servigio” per dissuadere da crimini efferati e di massima gravità. Vi è, comunque, una gradualità con cui si arriva all’estrema ratio, gradualità che dovrebbe essere concetto ispiratore anche oggi.

7. Concludendo

Io credo a questa specie di strana contemporaneità, di dialogo dei morti, guidato però dai vivi”, rubando le parole a Ricœur [28] e, penso, che seppur figlio del suo tempo, BECCARIA abbia un lascito quanto mai attuale con cui osservare il nostro sistema penale.
A valle della proposta veloce sintesi dei passi che ho ritenuto più evocativi del “dei delitti e delle pene”, penso che il lettore possa essere concorde con me nell’affermare che, in effetti, oggi, come da sempre, è stato fatto dire di tutto a BECCARIA ed anche il suo contrario. Scriveva LIMENTANI L. che il Dei delitti e delle pene rientra “ancora oggi tra quei libri dei quali tutti parlano con aria di disinvolta familiarità, anche molti che, a voler essere sinceri, dovrebbero riconoscere di non averli mai letti[29]. A distanza di un secolo, penso, non sia cambiata molto la situazione.
Il pensiero di BECCARIA si iscrive a pieno titolo nel filone della general prevenzione, con uno spiccato accento utilitarista, in cui il fine ultimo del fenomeno penale è garantire la difesa sociale: la denunciata necessità di una tecnica legislativa chiara e piana, facilmente comprensibile; il contenimento massimo possibile della libertà di apprezzamento del giudice; la necessità che il diritto penale sia minimo, quanto ad estensione, evitando quelle norme finalizzate a garantire privilegi e che esse siano in grado di suscitare l’adesione spontanea dei consociati; sono tutti elementi portanti del pensiero del Newtoncino, altrettanto degni di nota e frutto del glorioso secolo dei lumi. Separare da tale ottica le pagine che abbiamo ripercorso, vale a dire quelle più famose sul come la pena dovrebbe essere e sul suo fine, è decontestualizzare il lascito del Milanese. A ben guardare, infatti, in BECCARIA l’umanitarismo non è che al servizio dell’utilitarismo, essendo che le pene inumane ottengono che “dopo cent’anni di crudeli supplici, la ruota spaventi tanto quanto prima la prigionia[30]. Egli esige che la pena resti pena, castigo, afflizione, “conforme alla natura del delitto”. Non può, a mio avviso, citarsi BECCARIA epurando il suo pensiero da tale base, senza snaturarlo e piegarlo a conclusioni altre, da quelle effettivamente ricercate dall’autore. Tale impostazione, aggiungerei, non è contraria al senso d’umanità in quanto il Nostro teorizza la pena come extrema ratio, vale a dire quando le restanti agenzie, che nella società dovrebbero prendersi carico – diremmo oggi – delle situazioni di criticità che possano spingere alla devianza, hanno fallito [31]. La risposta penale deve intervenire a valle di una serie di tentativi di recuperare alla società il soggetto problematico, finalizzati a che vengano rimossi i motivi che potrebbero rendere “seducente” l’idea del delitto. Ma quando questi tentativi non abbiano riscosso il giusto frutto, quando il soggetto decide liberamente di porsi in contrasto con l’ordinamento, allora e solo allora la risposta penale deve essere pronta ed inesorabile. La pena minacciata nella norma deve necessariamente seguire al fatto criminoso perché “egli è dimostrato che l’unione delle idee è il cemento che forma tutta la fabbrica dell’intelletto umano, senza di cui il piacere ed il dolore sarebbero sentimenti isolati e di nessun effetto[32]. Tale reazione, quindi, è indirizzata al reo perché comprenda il disvalore del proprio operato, ma soprattutto alla collettività che da essa deve sentirsi dissuasadalla seducente idea dell’infrazione” dalla norma che è mostrata vigente. In tale contesto, BECCARIA rifiuta categoricamente i supplizi efferati perché non convengono. Nulla aggiungono alla funzionalità del sistema, anzi sono in parte controproducenti: “Perché una pena ottenga il suo effetto basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto (…) Tutto il di più è dunque superfluo e perciò tirannico[33]. Anche perché, aggiunge il Nostro, se si ponesse mano con atroci crudeltà anche alle infrazioni minori, non si riuscirebbe a trovare giusta pena per i grandi crimini. Solo dopo tali considerazioni, egli osserva che, in fin dei conti, tutta quella crudeltà è inumana [34]. L’umanitarismo di Beccaria, quindi, è una sorta di graditissimo effetto ulteriore del ricercato effetto principale, che è il costruire un sistema penale utile alla sua funzione dissuasoria. Mi sembra di poter argomentare, ancora, che in BECCARIA il sistema penale deve servire l’uomo. Le leggi, regolando rapporti d’uguaglianza tra cittadini, non possono essere desunte da principi fissi ed immutabili, in quanto gli uomini, creature, non possono avere la conoscenza propria di Dio – per coloro che ci credono – per porre il giusto e l’ingiusto [35]. È l’utilità, quindi, l’unico metro di giudizio utilizzabile nel sistema penale, al fine di raggiungere la felicità dei consociati. In tale ottica, è ben accolto e perseguito ogni afflato umanitaristico, come progresso dell’uomo, ma a condizione che non snaturi l’efficienza – la natura stessa, aggiungerei – del sistema penale. La legislazione dolce, chiude la riflessione il Nostro, sarà tanto più utile ad un popolo, quanto più “gli animi si ammolliscono nello stato di società”, vale a dire in misura proporzionale alla capacità di comprendere il disvalore delle proprie azioni, tenendo sempre presente, però, che “Vi vuole il fulmine per abbattere un feroce leone che si rivolta al colpo di fucile[36].
Tale problematica è quanto mai attuale nel nostro Paese, alle prese da decenni con una largamente sentita necessità di riformare il sistema penale, inefficiente ed ingiusto, ma che non riesce a trovare un punto di caduta per una riforma organica, andando avanti con provvedimenti “spot”, utili solo ad aggravare l’incoerenza interna del sistema [37]. Mi riferisco, per inciso, a tutte quelle misure viste anche nel recente passato tese principalmente a sfoltire il contenzioso: la particolare tenuità del fatto come causa di non punibilità, inserita pensando al furto di una melanzana, ma di cui si avvantaggia anche chi gira armato di un coltello a serramanico di 14 cm (sic!); la messa alla prova degli adulti, che conduce all’estinzione del reato, di cui può avvalersi anche un ubriaco alla guida che, appassionato di equini, ha prestato la propria utilità alla società nello strigliare quelle bellissime bestie (sic!); l’estensione della procedibilità a querela ad una serie di reati, quali i furti anche aggravati (cfr. il mio contributo in merito, sempre su questa rivista). Solo per fare qualche esempio. Il tutto aggravato, magari, da condotte ripetute nel tempo che danno l’impressione ai consociati che non vi sia una vera risposta dell’ordinamento per quelle condotte.
Penso che il carcere abbia un ruolo importante da giocare non solo davanti a condanne per fatti di particolare gravità, ma soprattutto di fronte a violazioni anche bagatellari, ripetute nel tempo, ed i cui procedimenti siano stati definiti con sanzioni miti, procedure alternative alla condanna, finanche a contestazioni naufragate contro lo scoglio della prescrizione. Ciò nell’evidenza che, di fronte a ripetute violazioni delle leggi penali le ragioni del “recupero del condannato”, che deve essere condotto a comprendere il disvalore delle proprie azioni senza essere sottratto alla socialità, hanno con ogni evidenza fallito. Il tema è: fino a che punto la società può permettersi il lusso di tollerare un latente livello di pericolosità sociale, pur avendo avuto chiari, inequivocabili e ripetuti sintomi di tale antisocialità? E quando la sanzione sostitutiva per le pene detentive brevi perderà quell’alone di penalità agli occhi dei responsabili, che non si sentiranno più intimoriti dalla sua astratta previsione, con cosa custodiremo la sicurezza dei consociati, che devianti non sono?
Alcuni eminenti decisori con cui ho avuto il privilegio di confrontarmi mi hanno fatto notare come il carcere sia – tra l’altro – un costo a carico della collettività e che possano aversi risparmi considerevoli dal suo uso residuale; mi domando se non debbano essere ricondotte nel conto le “esternalità negative” rappresentate dalla frazione di devianza imposta alla tolleranza della società, in nome di un recupero dei condannati che, evidentemente, spesso fallisce. Potremmo in tal modo scoprire che quel “costo” è un’opportunità da prendere in seria considerazione.

Note

  1. [1]

    A mia memoria, l’insieme di provvedimenti andati sotto il nome di “Piano Carceri” dei primi anni 2000 rappresentano l’unico tentativo di affrontare l’emergenza carceraria con rigore. Purtroppo, Già dal 2015, la stampa denunciava il fallimento del progetto, acclarato anche dalla Corte dei Conti che certificava come dei 462 milioni di euro assegnati al piano, ne fossero stati spesi in 4 anni appena l’11 %. Spese sulle quali, tra l’altro, erano aperti diversi fascicoli presso le competenti Procure della Repubblica per reati di diverso tipo.

  2. [2]

    Tratto da Esperienze di prigionia, in Il ponte- Rivista di politica economia e cultura fondata d Piero Calamandrei, anno V, nr. 3, 1949.

  3. [3]

    BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, edizione OM Band D.E., Torrazza Piemonte (TO), per Amazon, 1764. Pag. 92.

  4. [4]

    Cfr. ZANUSO F., I «fluidi» e «le bestie di servigio». Utilitarismo ed umanitarismo nella concezione penale di Cesare Beccaria, in ZANUSO F. e FUSELLI S. a cura di, Ripensare la pena. Teorie e problemi nella riflessione moderna, Padova, CEDAM, 2006, pag. 103 e 104.

  5. [5]

    BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, cit., Pag. 83.

  6. [6]

    BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, cit.,Pag. 10.

  7. [7]

    BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, cit., Pag. 12 e 13.

  8. [8]

    BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, cit., Pag. 13 e 14.

  9. [9]

    BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, cit., Pag. 14.

  10. [10]

    Curiosità di cui non ero a conoscenza, BECCARIA C. veniva chiamato così nel suo entourage, cfr. nota 14 di ZANUSO F., I fluidi e le bestie di servigio. Utilitarismo ed umanesimo nella concezione penale di Cesare Beccaria, cit., pag. 106.

  11. [11]

    BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, cit., Pag. 15.

  12. [12]

    Cfr. ZANUSO F., I «fluidi» e «le bestie di servigio». Utilitarismo ed umanitarismo nella concezione penale di Cesare Beccaria, cit., pagg. 107 e 108.

  13. [13]

    BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, cit., Pag. 17.

  14. [14]

    Cfr. ZANUSO F., I «fluidi» e «le bestie di servigio». Utilitarismo ed umanitarismo nella concezione penale di Cesare Beccaria, cit., 2006, pag. 108.

  15. [15]

    Cfr. BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, cit., Pagg. 19 e 20.

  16. [16]

    Cfr. BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, cit., Pag. 27.

  17. [17]

    BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, cit., Pag. 43, dove aggiunge anche “Questa analogia facilita mirabilmente il contrasto che dev’essere tra la spinta al delitto e la ripercussione della pena, cioè che questa allontani e conduca l’animo ad un fine opposto di quello per dove cerca d’incamminarlo la seducente idea dell’infrazione della legge ”.

  18. [18]

    BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, cit., Pag. 52.

  19. [19]

    Cfr. ZANUSO F., I «fluidi» e «le bestie di servigio». Utilitarismo ed umanitarismo nella concezione penale di Cesare Beccaria, cit., pag. 111. L’autrice fa notare, in nota nr. 35, come già SGUBBI F. avesse notato l’enorme distanza tra quanto auspicava BECCARIA e la situazione odierna del nostro Paese, ove l’intimidazione generale sarebbe “garantita” dalla «incertezza legislativa» in SGUBBI F., il diritto penale incerto ed efficace, in Riv. Dir. Proc. Pen., 2001/4, pagg. 1198-1199. Ad oggi, non possiamo certo affermare che vi siano stati miglioramenti della situazione.

  20. [20]

    Ibidem.

  21. [21]

    Cfr. a riguardo il pensiero di JAKOBS G. che scrive “Il Diritto è in vigore nel tempo e nella misura in cui costituisce uno schema di orientamento dominante, ovvero, e in concreto, per la prevenzione del reato oppure per la reazione ad un reato. Di conseguenza, l’espressione diffusa del criminale che vìola la vigenza della norma con il suo comportamento può dar luogo a molti equivoci: se la sua azione viene trattata come un reato, si dimostra in questo modo che la vigenza della norma è ancora in atto; solo quando lo Stato trascura la faccenda, la vigenza si erode.”. JAKOBS G., La pena statale. Significato e finalità, traduzione ad opera di VALITUTTI D., Nola (NA), Editoriale Scientifica, 2019, pag. 87.

  22. [22]

    Ibidem, pag. 54. 

  23. [23]

    Ibidem.

  24. [24]

    Ibidem, pag. 55.

  25. [25]

    Cfr. ZANUSO F., I «fluidi» e «le bestie di servigio». Utilitarismo ed umanitarismo nella concezione penale di Cesare Beccaria, cit., pagg.122 a 125. L’autrice riporta anche la posizione assunta dal Nostro sulla dichiarazione di voto degli iscritti della giunta delegata per la riforma del sistema criminale nella Lombardia austriaca, ove aggiungeva che la fallacia delle determinazioni umane imponeva l’inopportunità dell’adozione della pena di morte proprio per la sua definitività.

  26. [26]

    Ibidem, pag. 127 e 128.

  27. [27]

    BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, cit., Pag. 44.

  28. [28]

    Cfr. EWALD F., Paul Ricoeur. Il futuro nasce dalla memoria, in Corriere della Sera, 9.9.2000,

  29. [29]

    Cfr. LIMENTANI L., Studi sul pensiero del Settecento, in RIFD, VI (1926), p 566, citato in ZANUSO F. e FUSELLI S. a cura di, Ripensare la pena. Teorie e problemi nella riflessione moderna, Padova, CEDAM, 2006, pag. 104.

  30. [30]

    Cfr. BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, cit., Pag. 52.

  31. [31]

    Cfr. ZANUSO F., I «fluidi» e «le bestie di servigio». Utilitarismo ed umanitarismo nella concezione penale di Cesare Beccaria, in ZANUSO F. e FUSELLI S. a cura di, Ripensare la pena. Teorie e problemi nella riflessione moderna, Padova, CEDAM, 2006, pagg. da 113 a 115.

  32. [32]

    BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, cit., Pag.42.

  33. [33]

    Ibidem, pag. 52.

  34. [34]

    Ibidem, pag. 53.

  35. [35]

    Cfr. BECCARIA C., Dei delitti e delle pene, cit., Pag. 19.

  36. [36]

    Ibidem, pag. 92.

  37. [37]

    [1] A riguardo Cfr. la lucida critica di ANTOLISEI F., Manuale di Diritto Penale – Parte generale sedicesima edizione, Milano, Giuffrè, 2003, pagg.24-29.

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Giovanni Cecere

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