“Riemersione” della teoria dell’indegradabilità dei diritti fondamentali: il Consiglio di Stato chiamato nuovamente ad escluderne l’applicazione

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Nota a Consiglio di Stato, III sezione, 21/10/2020, n°6371

SOMMARIO: I. La vicenda; II. La teoria dei diritti indegradabili: “origine e tramonto” nel quadro normativo e giurisprudenziale; III. La decisione; IV. Conclusione.

La sentenza della terza sezione del Consiglio di Stato merita particolare considerazione perché segue l’orientamento giurisprudenziale prevalente che nega spazi applicativi alla teoria dei diritti indegradabili nell’attuale ordinamento giurisdizionale, ma lo sviluppa con argomentazioni ulteriori di carattere sistematico, alla luce delle quali emerge ancor più nitidamente l’inutilizzabilità della citata teoria da parte dei giudici nazionali: l’affermazione di una concezione sostanziale dell’interesse legittimo a cui si collega la trasformazione del sindacato del giudice amministrativo, un tempo incentrato prevalentemente sul controllo di legalità dell’azione amministrativa contestata, oggigiorno finalizzato primariamente a fornire una tutela giurisdizionale piena ed effettiva alle situazioni giuridiche soggettive incise dal potere amministrativo.

L’obiettivo della nota è di ripercorrere queste argomentazioni, che hanno carattere di assoluta originalità rispetto a quelle ricorrentemente spese dall’indirizzo contrario alla teoria dei diritti inaffievolibili, nell’ambito del quale purtuttavia la pronuncia della terza sezione va ricondotta.

A tal fine, dopo aver descritto la vicenda fattuale su cui si fonda la decisione in commento, si ricostruirà sinteticamente il dibattito giurisprudenziale sulla tesi della indegradabilità, partendo dalle ragioni che indussero le Sezioni Unite ad elaborare questa teoria negli anni ’70, per poi passare alle considerazioni sulla base delle quali da più di dieci anni la prevalente giurisprudenza – civile a amministrativa – ribadisce costantemente il suo tramonto.

La vicenda

La sentenza origina dall’appello avverso la decisione del TAR che ha ritenuto sussistente la giurisdizione del Tribunale ordinario sulla controversia relativa al diniego di autorizzazione di proseguire le cure mediche all’estero, opposto nei confronti di un paziente dall’amministrazione sanitaria, sulla base di tre considerazioni: 1) la natura tecnica – e non discrezionale – del potere esercitato dall’amministrazione nella fattispecie; 2) l’assenza di quel rapporto di supremazia che si configura quando l’amministrazione agisce come autorità pubblica; 3) l’indegradabilità del diritto alla salute ad opera di un potere meramente tecnico.

L’appellante osservava che nei casi in cui l’autorità sanitaria riceve una richiesta di cure mediche all’estero da parte di un paziente, la decisione sull’istanza si compone di due diversi apprezzamenti avuto riguardo alla loro natura: il primo di carattere tecnico-scientifico di competenza del Centro Regionale di Riferimento chiamato a valutare, ai sensi dell’art. 4 par. 5 e ss del D.M. 3.11.1989, la sussistenza dei presupposti sanitari dell’impossibilità di fruire tempestivamente ovvero in forma adeguata alla particolarità del caso clinico delle prestazioni sanitarie richieste; il secondo di carattere politico-discrezionale rimesso all’Unità Sanitaria competente, chiamata a bilanciare l’interesse del cittadino con quello pubblico al contenimento ed alla razionalizzazione delle spese, a tutela anche dell’erario della collettività stessa, nonché della parità di trattamento dei cittadini utenti.

Sulla base di queste considerazioni, l’appellante riteneva sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo, trattandosi di controversia inerente alle modalità di esercizio del potere amministrativo, come del resto costantemente affermato in fattispecie del tutto analoghe dalla prevalente giurisprudenza del Consiglio di Stato.

Tali conclusioni venivano contestate dall’amministrazione appellata tramite il richiamo alla teoria della indegradabilità dei diritti fondamentali, condivisa anche dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite richiamata dalla sentenza del giudice di primo grado, secondo cui «la controversia relativa al diniego dell’autorizzazione ad effettuare cure specialistiche presso centri di altissima specializzazione all’estero appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario giacché la domanda è diretta a tutelare una posizione di diritto soggettivo – il diritto alla salute – non suscettibile di affievolimento per effetto della discrezionalità meramente tecnica attribuita in materia alla P.A.» (SS.U.U. ordinanza del 6/9/2013 n.20577).

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La teoria dei diritti indegradabili: “origine e tramonto” nel quadro normativo e giurisprudenziale

La teoria dell’indegradabilità è la tesi secondo cui alcune situazioni giuridiche soggettive ritenute fondamentali dall’ordinamento giuridico – come il diritto alla salute – conserverebbero la natura di diritti anche nel caso in cui venissero in contatto con il potere amministrativo, di fronte al quale normalmente si configurano interessi legittimi.

La teoria è stata elaborata dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel 1979, al fine di fornire una tutela giurisdizionale effettiva degli interessi dei cittadini coinvolti dall’esercizio del potere, allorché l’interesse legittimo non era ancora capace di garantire il privato contro la pubblica amministrazione a causa dell’impostazione strettamente impugnatoria del processo amministrativo, privo all’epoca delle avanzate tecniche di tutela che invece oggi lo caratterizzano, nonché di una concezione oggettiva dell’interesse legittimo, inteso anzitutto come interesse alla legalità dell’azione amministrativa e solo di riflesso come interesse al conseguimento o alla conservazione del cd. bene della vita. In altri termini, si trattava di una soluzione ermeneutica finalizzata ad attrarre tutte le controversie inerenti ai diritti fondamentali della persona nell’ambito della giurisdizione del giudice ordinario, in ragione della capacità di quest’ultima di soddisfare pienamente gli interessi dedotti in giudizio dai cittadini grazie all’esperibilità di plurime azioni giurisdizionali, prima fra tutte quella di condanna, inammissibile a quel tempo di fronte al giudice amministrativo. L’applicazione della riportata teoria ha consentito in effetti al giudice ordinario di pronunciarsi su domande tese ad ottenere sentenze di condanna nei confronti della pubblica amministrazione nell’ambito di rapporti contraddistinti dall’adozione di provvedimenti amministrativi, così sfuggendo all’insoddisfacente prospettiva della mera tutela demolitoria del processo amministrativo.

Tuttavia, la tesi in questione, sebbene ritenuta ancora applicabile da una parte della giurisprudenza (SS.U.U. ordinanza del 6/9/2013 n.20577) – richiamata proprio dal TAR che ha emesso la sentenza appellata – non è più sostenibile avuto riguardo al sistema di riparto di giurisdizione delineatosi a seguito dell’entrata in vigore d.lgs. 80/1998, come modificato dalla l. 205/2000, e rivisto alla luce delle sentenze della Corte costituzionale n. 204/2004 e n. 191/2006. Come ritenuto dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, «a seguito della entrata in vigore di detta normativa in materia di giurisdizione esclusiva non rileva più al fine del riparto della giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice ordinario, la distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi, anche se vengono in considerazione diritti costituzionalmente protetti e non suscettibili di affievolimento ad interessi legittimi, ma la distinzione tra comportamenti riconducibili all’esercizio di pubblici poteri e meri comportamenti, identificabili questi in tutte quelle situazioni in cui la pubblica amministrazione non esercita – nemmeno mediatamente, e cioè avvalendosi della facoltà di adottare strumenti intrinsecamente privatistici – alcun pubblico. Tale conclusione è del resto avvalorata anche dal codice del processo amministrativo, il cui art. 7, comma 1, radica la giurisdizione, di legittimità ed esclusiva, del g.a. nelle controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili, anche mediatamente, all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni (Consiglio di Stato, sezione III, n°4464/2014; Consiglio di Stato, sezione III, n°5681/2018)».

Tale orientamento era stato precedentemente condiviso dalla stessa giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel 2007 (28.12.2007, n. 27187) secondo cui «la teoria della indegradabilità ad interessi legittimi dei diritti fondamentali protetti dalla Costituzione non può essere (più) condivisa, trattandosi di una tesi sostenibile (soltanto) allorché il riparto di giurisdizione si fondava esclusivamente sulla tradizionale bipartizione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi».

Va aggiunto inoltre che la tesi dell’indegradabilità si scontra con la dinamica che caratterizza il rapporto tra situazione giuridica (anche fondamentale) e funzione amministrativa. Quest’ultima, alla luce dell’art. 3 comma 2 della Costituzione, si configura come uno dei poteri della Repubblica attraverso cui il privato soddisfa i propri bisogni e le proprie esigenze. Quindi, considerare il potere amministrativo come un fattore da “neutralizzare” al fine di fornire una presunta migliore tutela alla categoria delle situazioni soggettive fondamentali può tradursi, in realtà, in un minor grado di protezione degli interessi dei cittadini.

La decisione

La sentenza della III sezione condivide l’orientamento giurisprudenziale contrario alla teoria dei diritti indegradabili, argomentando tale adesione sulla base delle più significative evoluzioni del sistema di giustizia amministrativa, avvenute a seguito dell’entrata in vigore delle riforme che lo hanno riguardato dagli anni 2000 ad oggi.

Secondo il Consiglio di Stato, tre sono «i passaggi epocali» che fanno ritenere non più attuale ed inapplicabile la teoria dell’indegradabilità dei diritti: a) la concezione sostanziale dell’interesse legittimo, come interesse teso al conseguimento o alla conservazione del “bene della vita”; b) la capacità del sistema di giustizia amministrativa di fornire una tutela giurisdizionale piena ed effettiva agli amministrati che si ritengono lesi dall’esercizio del potere; c) la giurisprudenza costituzionale in materia di riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo.

Con riguardo al punto a), la sezione richiama la storica sentenza n°500 del 1999 delle Sezioni Unite a seguito della quale «nessuno più dubita della dimensione sostanziale dell’interesse legittimo, ormai definito come interesse in ordine ad un bene della vita meritevole di protezione (esattamente come nel caso del diritto soggettivo) toccato dall’esercizio del potere».

Tale dimensione dell’interesse legittimo rende inconfigurabile la considerazione secondo cui il potere sia capace di degradare le situazioni soggettive dei privati così come, per converso, non ammette che il carattere fondamentale di una situazione soggettiva neutralizzi il potere amministrativo, dal momento che «il substrato sostanziale della situazione giuridica soggettiva – sia essa diritto o interesse legittimo – è sempre il medesimo e non è degradato dall’esercizio del potere».

La sezione osserva che il mutamento si ha – piuttosto – sul versante del sindacato giurisdizionale attuabile che si configura a seconda di come la norma, prevedendo e disciplinando il potere amministrativo, conforma le situazioni giuridiche soggettive: se la norma contempla un potere vincolato, il giudice amministrativo, in caso di provvedimento di diniego illegittimo, può addirittura condannare la pubblica amministrazione al rilascio del provvedimento ingiustamente negato.

Un sindacato giurisdizionale adeguabile alle concrete esigenze di tutela della posizione dedotta dall’amministrato risponde direttamente al principio di effettività della tutela giurisdizionale che è il secondo passaggio epocale (punto b) individuato dalla sezione.

Su questo punto, il Consiglio di Stato richiama innanzitutto il carattere aperto delle tecniche di tutela esperibili nell’ambito del processo amministrativo, collegato al principio di atipicità delle azioni, il quale assicura una protezione conformata all’esigenza di protezione prospettata dal privato. Inoltre, evidenzia che, nonostante il giudizio di tipo impugnatorio conservi la sua centralità anche nella configurazione attuale del sistema, il codice del processo amministrativo, al fine di assicurare una tutela effettiva, ha rinforzato i poteri cognitori del giudice amministrativo in tale sede, «attraverso istituti che consentono di concentrare nel giudizio di cognizione, per quanto possibile, tutte le questioni dalla cui definizione possa derivare una risposta definitiva alla domanda del privato di acquisizione o conservazione di un certo bene della vita, sino a prevedere l’azione di condanna al rilascio di un provvedimento quando si tratta di attività vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere compiuti dall’amministrazione (art. 34 lett. c. e 31 comma 3 c.p.a.). L’esercizio di maggiori poteri di cognizione si traduce un sindacato pieno sul fatto rimuovendo un tabù caratteristico dell’originario sistema di giustizia amministrativa basato sull’insindacabilità della vicenda amministrativa fattuale da parte del giudice.

Con riferimento al punto c), la sezione richiama la giurisprudenza costituzionale che riconosce uguale dignità tra diritto soggettivo e interesse legittimo e, sulla base di tale equiparazione, considera il giudice amministrativo come giudice ordinario degli interessi legittimi e configura la giurisdizione amministrativa come giurisdizione sulle controversie in cui sia coinvolta l’amministrazione come autorità, superando ogni possibile distinguo ancorato, in punto di giurisdizione allo spessore e alla pregnanza dell’interesse sostanziale del quale è chiesta tutela (Corte Costituzionale, sentenza n°204/2004). Dello stesso indirizzo, osserva la sezione, è la sentenza n°140/2007 della Corte Costituzionale secondo cui nell’ordinamento non esiste alcuna norma o principio che esclude la devoluzione dal giudice amministrativo della cognizione dei diritti fondamentali.

Pertanto, la sezione esclude l’applicabilità della teoria dell’indegradabilità dei diritti fondamentali invocata dal giudice di primo grado, ribadendo che il carattere fondamentale della situazione giuridica fatta valere in giudizio non vale a legittimare una deroga all’attuale criterio di riparto della giurisdizione che vede il giudice amministrativo titolare della giurisdizione ove l’amministrazione agisca come autorità dotata di potere amministrativo.

A questo punto la sentenza si sofferma sulle altre due argomentazioni che hanno portato il TAR a escludere la giurisdizione del giudice amministrativo sulla vicenda in commento ossia la natura tecnica del potere esercitato dall’amministrazione e di conseguenza l’assenza del rapporto di supremazia che si configura quando l’amministrazione agisce come autorità pubblica.

Al riguardo il Collegio sottolinea l’erroneità della prospettiva assunta dal giudice di primo grado poiché il carattere vincolato del potere non configura il rapporto tra pubblica amministrazione e privato come rapporto di natura paritetica, bensì pur sempre come rapporto di supremazia.

La sezione ricorda che la nozione di atto paritetico risale «alla fine degli anni trenta del secolo scorso in materia di impiego pubblico (Consiglio di Stato, sez. V, 1.12.1939, n. 795) in cui l’elemento caratterizzante è che l’atto, pur avendo la forma di un atto pubblico unilaterale, è adottato nell’ambito di un rapporto non già di supremazia – soggezione, ma di parità e dunque ad esso non si applicano le regole caratteristiche dell’atto amministrativo, ma quelli dei negozi aventi contenuto patrimoniale. In tali casi l’amministrazione è in realtà parte di un rapporto negoziale nell’ambito del quale essa gode di specifiche prerogative che le consentono di agire unilateralmente per la tutela dei propri interesse di “parte contrattuale”. La circostanza che ad essa sia consentito decidere su alcuni aspetti del rapporto negoziale prescindendo dal consenso, non configura tuttavia un “potestà pubblica”, ma un diritto potestativo che non muta le sue caratteristiche negoziali sol perché è nella titolarità di un soggetto pubblico. Da ciò le coerenti conseguenze in tema di tutela e giurisdizione».

Il collegio rileva però che la nozione di atto paritetico è una situazione totalmente diversa da quella dell’atto che è espressione dell’esercizio di potere vincolato. L’assenza di discrezionalità non determina la trasformazione della funzione amministrativa in un’obbligazione di diritto civile. In una situazione di potere vincolato, l’amministrazione è chiamata ad esercitare una funzione di verifica, di controllo, di accertamento tecnico dei presupposti previsti dalla legge, nella sua qualità di soggetto dell’ordinamento incaricato della cura di pubblici interessi. È vero che in questi casi l’amministrato, sulla base della semplice lettura della norma che prende in considerazione la sua posizione, può prevedere la spettanza o meno del bene della vita a cui tende, ma questo non esclude la presenza del potere amministrativo che viene esercitato per verificare la compatibilità della pretesa individuale con la realizzazione del pubblico interesse affidato alle cure dell’amministrazione da parte della legge.

Di conseguenza, conclude la sezione, nessuno spostamento di giurisdizione può legittimare il carattere vincolato del potere così come nessun trasferimento è legittimato dal carattere fondamentale delle situazioni soggettive. La fattispecie vincolata può semmai incidere sulle tecniche di tutela esperibili nel processo dal momento che il giudice amministrativo può condannare la pubblica amministrazione al rilascio del provvedimento negato al privato, soltanto in ipotesi di provvedimenti vincolati, qualora non residuino ulteriori margini di discrezionalità da spendere, quando non siano necessari ulteriori approfondimenti istruttori di competenza dell’amministrazione (combinato disposto tra art. 31 comma 3 e art. 34 comma 1 lett. c del c.p.a.), in presenza di domanda della parte interessata.

Tale conclusione è avvalorata da ulteriori considerazioni sistematiche dal momento che anche la legge sul procedimento amministrativo dedica specifiche norme all’attività vincolata. Si pensi all’art. 21-octies della legge n°241/1990 che esclude l’annullabilità del provvedimento amministrativo adottato in violazione di regole formali quando il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato per la sua natura vincolata, in tal modo esaltando la dimensione sostanziale dell’interesse legittimo sulla dimensione meramente formale che lo intende come mero interesse alla legalità dell’azione amministrativa.

 

Conclusione

Il Collegio accoglie le prospettazioni dell’appellante secondo cui le disposizioni che assicurano ai cittadini italiani la prosecuzione di cure mediche all’estero prevedono un ruolo attivo dell’amministrazione sanitaria nell’esercizio di un potere di intermediazione tra la pretesa soggettiva individuale del paziente e gli altri interessi pubblici sui quali il riconoscimento della prestazione sanitaria incide, come la corretta gestione delle risorse pubbliche, la parità di trattamento tra cittadini nella fruizione dei servizi.

Ricorrendo il potere amministrativo e non potendo più accogliersi la teoria dell’indegradabilità dei diritti fondamentali per le ragioni viste sopra, si radica la giurisdizione del giudice amministrativo, alla luce del sistema di riparto di giurisdizione vigente.

La decisione del giudice di primo grado è stata quindi riformata con dichiarazione della giurisdizione amministrativa sulla controversia.

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Gabriele Gagliardini

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