Rifiuto al test del DNA? Riconosciuta la paternità e regresso della madre

Redazione 30/05/16
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Il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116, secondo comma, c.p.c., di così elevato valore indiziario da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda di accertamento della paternità.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione, sez. I Civile, con la sentenza n. 10933 depositata il 26 maggio 2016.

Il caso. 

Con ricorso al Tribunale per i minorenni la madre chiedeva l’accertamento della paternità della propria figlia e la condanna del padre al pagamento del mantenimento, al rimborso del 50% delle spese mediche sostenute, al risarcimento del danno non patrimoniale subito dalla figlia per il mancato riconoscimento, oltre che il rimborso della metà delle somme destinate dalla ricorrente al mantenimento della figlia dalla nascita alla domanda di accertamento della paternità.

Il Tribunale per i minorenni accoglieva parzialmente le domande della ricorrente e, accertata la paternità, condannava il genitore al pagamento del contributo mensile di mantenimento oltre che al pagamento in favore della ricorrente di una somma a titolo di contributo al mantenimento della figlia dalla nascita di questa sino alla domanda di riconoscimento di paternità.

Il padre ricorreva in appello chiedendo, tra l’altro, l’accertamento della nullità della CTU per mancata notificazione presso il proprio domicilio.

L’appello veniva respinto rilevando la rituale comunicazione della CTU e, soprattutto, il rifiuto del padre e dei legittimi eredi a sottoporsi ai prelievi ematologici.

L’appellante proponeva ricorso per cassazione.

La decisione.

In primo luogo si è rilevato che le modalità di comunicazione della fissazione del tempo e del luogo delle operazioni peritali non ne hanno impedito al ricorrente la tempestiva conoscenza e non hanno provocato un vulnus al suo diritto di difesa dato che egli ha potuto, avvalendosi del figlio, interloquire con il consulente, e comunicargli che non era disponibile a sottoporsi al prelievo.

Inoltre, gli Ermellini hanno affermato che la Corte di appello ha valutato correttamente il rifiuto del padre a consentire lo svolgimento dell’indagine peritale che sarebbe stata decisiva ai fini dell’accertamento della paternità, per il grado di certezza scientifica che tale tipo di esame consente.

La Corte di appello ha attribuito valore decisivo a tale rifiuto coerentemente alla giurisprudenza di legittimità (Cass. civ. sezione I, n. 6025 del 25 marzo 2015, n. 11223 del 21 maggio 2014, n. 12971 del 24 luglio 2012, n. 27237 del 14 novembre 2008, n. 5116 del 3 aprile 2003) secondo cui, “nel giudizio promosso per l’accertamento della paternità naturale, il rifiuto di sottoporsi ad indagini ematologiche – nella specie opposto da tutti gli eredi legittimi del preteso padre – costituisce un comportamento valutabile da parte del giudice, ex art. 116, secondo comma, cod. proc. civ., di cosi elevato valore indiziario da poter da solo consentire la dimostrazione della fondatezza della domanda“.

Riconosciuta, dunque la partenità, ne consegue pertanto che, per gli obblighi derivanti dagli art. 147 e 148 c.c. di mantenimento, mai adempiuti dalla nascita, il genitore che si è assunto sino al riconoscimento in via esclusiva il mantenimento ha diritto ad agire in regresso nei confronti dell’altro genitore inadempiente.

Redazione

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