Si vuole subito rendere consapevole il lettore che il presente approfondimento trae origine e, in alcune parti, esso ricalca quanto recentemente osservato in questa stessa Rivista, dal medesimo Autore, all’indirizzo https://www.diritto.it/docs/36326-dichiarazioni-di-residenza-e-occupazione-abusiva-dell-immobile-alla-luce-della-legge-23-maggio-2014-n-80-che-ha-convertito-con-modificazioni-l-art-5-del-decreto-legge-28-marzo-2014-n-47.
Le conclusioni alle quali si è pervenuti in questo secondo approfondimento sono tuttavia diverse rispetto a quelle del primo studio: esso sono il risultato dell’esperienza e delle problematiche emerse “sul campo” in queste ultime settimane.
Come ampiamente osservato da autorevoli colleghi, l’art. 5 del Decreto Legge 28 marzo 2014, n. 47 rappresenta in effetti una novità dirompente nell’ambito del sistema anagrafico.
Esso collega, infatti, la possibilità di chiedere e ottenere la residenza (e finanche l’allacciamento alle relative utenze) non più soltanto ad una res facti (accertamento dimora abituale nel luogo dichiarato), ma anche alla non abusiva occupazione dell’immobile in cui si dichiara di avere la residenza, stabilendo “che gli atti emessi in violazione di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge”.
Le perplessità manifestate all’indomani della novella in merito alla tenuta del “sistema anagrafe”, inducevano seriamente a ritenere che il Decreto Legge non sarebbe stato convertito se non con modifiche che ne avrebbero sostanzialmente svuotato la portata innovativa rispetto al preesistente immutato impianto normativo, che a tutt’oggi continua a disciplinare la materia anagrafica, lasciando all’interprete l’arduo compito di interpretare e applicare in modo corretto e armonico le norme vecchie e nuove.
Incurante della perplessità sollevate da più parti, la legge di conversione 23 maggio 2014, n. 80 non solo ha confermato ma anche, per così dire, rafforzato il collegamento tra la residenza e la non abusiva occupazione dell’immobile in cui si dichiara di avere la dimora abituale, prevedendo a carico dei “soggetti somministranti” i pubblici servizi di energia elettrica, gas, servizi idrici e di telefonia fissa l’obbligo di acquisire dai richiedenti l’allacciamento alle relative utenze “idonea documentazione relativa al titolo che attesti la proprietà, il regolare possesso o la regolare detenzione dell’unità immobiliare, in originale o copia autentica, o a rilasciare la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà ai sensi dell’art. 47 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”.
Così facendo, il legislatore ha dunque chiarito che la verifica della non abusiva occupazione dell’immobile spetta ai “soggetti somministranti” i pubblici servizi e che, conseguentemente, essa non compete agli Ufficiali di anagrafe.
In altri termini, stando alla lettera della legge di conversione, l’abusiva occupazione dell’immobile dovrebbe emergere nel momento in cui l’interessato si rivolge ai “soggetti somministranti” per chiedere l’allacciamento delle utenze.
In teoria, sembrerebbe dunque che una persona non potrebbe dichiarare e sostenere di avere la dimora abituale in un determinato alloggio per il quale non ha preventivamente chiesto e ottenuto il collegamento, a proprio nome, alle relative utenze.
Nella pratica quotidiana, tuttavia, sono frequenti le situazioni di coloro che occupano l’alloggio (contratto di locazione, contratto di comodato etc.) senza essere intestatari delle relative utenze.
In questi casi è di tutta evidenza che nessuna verifica a monte viene compiuta da parte dei “soggetti somministranti” i pubblici servizi; quid iuris in siffatte eventualità ?
Per rispondere all’interrogativo, si osserva anzitutto come rappresenterebbe una forzatura interpretare la lettera della legge nel senso che la dimostrazione dell’avvenuta intestazione delle utenze relative ai pubblici servizi a nome di colui che rende la “Dichiarazione di residenza” sarebbe l’unico modo per ritenere acclarata l’occupazione cum titulo dell’alloggio.
Invero, nessuna disposizione di legge prevede espressamente che la non abusiva occupazione dell’immobile possa essere dimostrata esclusivamente tramite l’avvenuta intestazione delle utenze ai pubblici servizi.
Peraltro, una siffatta opzione interpretativa presenterebbe vari aspetti problematici, primo fra tutti quello in cui la “Dichiarazioni di residenza” si riferisce a più soggetti, atteso che le utenze dovrebbero essere necessariamente cointestate a tutti i soggetti interessati all’iscrizione anagrafica.
Quando dunque non possa essere documentata l’avvenuta intestazione delle utenze a nome del soggetto che rende la “Dichiarazione di residenza” (e, quindi, la correlata verifica dell’occupazione cum titulo dell’alloggio da parte dei “soggetti somministranti”), si ritiene che la verifica del “titolo” dell’occupazione debba essere svolta, in via per così dire residuale, dall’Ufficiale di anagrafe al momento di presentazione della “Dichiarazione di residenza”.
Se, infatti, l’occupazione abusiva dovesse emergere in un momento successivo, varie sarebbero le complicazioni che deriverebbero nel dover considerare “nulla”, ad esempio, una carta di identità e/o un certificato di residenza, senza considerare la necessità di ripristinare la precedente posizione anagrafica non solo dopo l’iscrizione “preliminare” ma anche qualora tale iscrizione dovesse essere stata confermata per silentium, stante l’avvenuto decorso del termine di 45 giorni dalla data di presentazione della “Dichiarazione di residenza”.
In questa prospettiva, la previsione dell’obbligo di accettare come “titolo” atto a dimostrare la non abusiva occupazione dell’alloggio la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà da parte dei “soggetti somministranti” i pubblici servizi e, quindi, anche da parte degli Ufficiali di anagrafe, meriterebbe una attenta riflessione: il rigore dimostrato dal legislatore in subiecta materia rischia infatti di essere notevolmente mitigato dai controlli successivi, l’esito dei quali avviene sulla base di una tempistica indipendente rispetto a quella del procedimento anagrafico.
La sanzione della nullità per le “Dichiarazioni di residenza” relative ad alloggi occupati sine tutulo avrebbe in altri termini potuto essere meglio presidiata limitando l’uso delle dichiarazioni sostitutive, in applicazione dell’art. 49 D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445.
Detto questo, vediamo come deve essere effettuata la verifica dell’occupazione cum titulo dell’alloggio, nei casi in cui essa spetta all’Ufficiale di anagrafe.
Diciamo subito che una verifica di questo tipo può essere compiuta in vari modi, a seconda dei casi: se, ad esempio, chi chiede l’iscrizione anagrafica è proprietario o comunque titolare di altro diritto reale sull’immobile, egli potrà esibire il relativo atto notarile, il conduttore e il comodatario potranno invece produrre i relativi contratti di godimento dell’alloggio.
Può non essere superfluo ricordare in questa sede come coloro che cedono il godimento o, in ogni caso, consentono, per un tempo superiore ad un mese, l’uso esclusivo di un fabbricato o di parte di esso, hanno comunque “l’obbligo di comunicare all’autorità locale di pubblica sicurezza, entro quarantotto ore dalla consegna dell’immobile, la sua esatta ubicazione, nonché le generalità […] della persona che assume la disponibilità del bene e gli estremi del documento di identità o di riconoscimento, che deve essere richiesto all’interessato” (art. 12, comma 1, D.L. 21 marzo 1978, n. 59 e convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 18 maggio 1978, n. 191).
La previsione di tale adempimento (c.d. cessione di fabbricato o denuncia antiterrorismo), che deriva dall’esigenza di prevenire e reprimere gravi reati di stampo terroristico, permette dunque ora agli Ufficiali di anagrafe di acquisire un documento che vale ad escludere per tabulas l’occupazione sine titulo dell’alloggio in particolare per i cittadini extracomunitari, evitando una più penetrante indagine in merito allo specifico tipo di titolo che esula dalle finalità della novella.
Per concludere, osserviamo come l’occupazione cum titulo dell’alloggio assurge dunque ora al rango di requisito preliminare ed essenziale della “Dichiarazione di residenza”.
L’eventuale “Dichiarazione di residenza” che dovesse essere presentata senza la dimostrazione dell’intestazione dell’utenze dei pubblici servizi a nome di colui che rende l’istanza o, in subordine, del “titolo” in base al quale colui che chiede l’iscrizione anagrafica o di altra idonea documentazione, rende la “Dichiarazione di residenza” nulla a tutti gli effetti di legge.
La nullità della “Dichiarazione di residenza” deve essere formalizzata con apposito provvedimento, da adottarsi di preferenza entro i due giorni lavorativi e da comunicarsi all’interessato con una modalità idonea a comprovare l’avvenuta ricezione di tale comunicazione.
Si noti come il concetto di nullità non possa essere ricondotto alla nozione della “Dichiarazione di residenza” irricevibile, e nemmeno alla nozione di inesistenza.
Invero, la “Dichiarazione di residenza” irricevibile, al pari di quella nulla, determina l’avvio del relativo procedimento e, di conseguenza, in mancanza di diverse comunicazioni, essa determina dapprima l’insorgere dell’aspettativa all’iscrizione c.d. preliminare e, poi, quella alla formazione del silenzio-assenso (art. 20 L. 7 agosto 1990, n. 241), a fronte dell’inerzia dell’Ufficiale di anagrafe oltre i 45 giorni successivi alla data di presentazione.
L’istanza anagrafica inesistente, invece, è giuridicamente irrilevante e preclude già a monte la possibilità di considerarla tale: essa altro non è che una vuota apparenza che difetta di quel quid di elementi necessari senza i quali non può essere neppure accostata alla nozione giuridicamente rilevante di “Dichiarazione di residenza”.
Rispetto all’istanza anagrafica inesistente, la “Dichiarazione di residenza” nulla, benché viziata, presenta quella che è stata efficacemente definita come “l’impalcatura esterna” dell’istanza anagrafica e, in quanto tale, essa suscita l’interesse dell’ordinamento che, nel qualificarla negativamente, presuppone tuttavia la sua rilevanza giuridica e, dunque, in ultima battuta, l’adozione di un provvedimento espresso, ex art. 2, comma 1, L. 7 agosto 1990, n. 241.
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