Riflessioni sul delitto di disastro ambientale di cui all’art. 452-quater c.p. ad un anno dalla sua introduzione.

La Legge 22 maggio 2015, n. 68, come ormai certamente noto ai più, ha di recente introdotto all’interno del codice penale il nuovo Titolo VI-bis, specificamente rubricato “dei delitti contro l’ambiente”, ed ad essi interamente dedicato. Tra le plurime incriminazioni ritenute dal legislatore nazionale di ormai improcrastinabile introduzione, ci si soffermerà, in questa sede, sulla previsione introdotta dall’art. 452-quater, concernente il novello delitto di disastro ambientale. Senza volersi in questo contesto dilungare sul pur complesso iter parlamentare, politico e sociale che ha connotato tale riforma, si avvisa sin da subito che l’attenzione delle argomentazioni che seguono andrà a vertere precipuamente sugli aspetti problematici che il nuovo delitto pocanzi citato presenta, in special modo in relazione alle modalità operative che lo stesso andranno a riguardare.

 

1. La clausola di sussidiarietà. Il novello articolo 452-quater si apre con un inciso che, dietro un’apparente semplicità espositiva, si rivela invece già essere non del tutto scevro da profili problematici di estremo interesse. L’art. 1 della Legge 22 maggio 2015, n. 68, infatti, conferisce il seguente incipit alla disposizione di cui in discorso: “Fuori dai casi previsti dall’articolo 434, chiunque abusivamente cagiona un disastro ambientale e’ punito con la reclusione da cinque a quindici anni”. Ne risulta, dunque, che l’ancoraggio alla fattispecie di disastro innominato, mercé il quale si era da sempre supplito alla carenza di esplicite disposizioni in materia ambientale, non verrà ad estinguersi nemmeno adesso che tali disposizioni espresse esistono; ed anzi, ed è questo ad apparire forse ancor più paradossale, esso continuerà a rivestire il ruolo di fattispecie primaria, dovendosi invece disporre l’applicazione delle nuove disposizioni sul disastro ambientale soltanto, come detto, “fuori dai casi previsti dall’articolo 434”. Ciò appare manifestamente incongruente rispetto alla ratio del recente intervento di manutenzione legislativa, posto che, consistendo l’obiettivo prefissato nell’introdurre specifiche disposizioni in materia ambientale onde colmare l’ormai conclamato vuoto normativo, si è invece assistito ad una sorta di ulteriore rafforzamento di quelle disposizioni che sinora a tale vuoto avevano supplito, piuttosto che, come sarebbe stato lecito aspettarsi, ad una loro sostituzione o ad un loro adeguamento. Sotto altro profilo, merita di essere sottoposta a vaglio critico la terminologia adoperata dal legislatore all’interno dell’incipit che si sta osservando, ed in particolare l’utilizzo dell’avverbio “abusivamente” in relazione a coloro i quali dovessero cagionare un disastro ambientale. Tale lemma, infatti, assume comunemente l’indubbio significato di “senza diritto” ovvero “senza autorizzazione”. Orbene, a parere di chi scrive, una tale locuzione, adoperata relativamente all’ambito normativo del quale si discorre, appare pleonastica se non addirittura inopportuna. Appare ragionevole supporre, infatti, che non sussistano, né possano sussistere, diritti o autorizzazioni finalizzati a cagionare disastri ambientali; nulla quaestio, quindi, sul fatto che abusivo non debba essere il disastro in sé e per sé, bensì, tuttalpiù, l’attività attraverso la quale quest’ultimo viene ad essere causato; essa, per quanto la nuova disposizione lascia trasparire, deve essere svolta abusivamente al fine di ingenerare l’incriminazione a norma dell’art. 452-quater c.p. Ed è proprio laddove si voglia considerare la conclusione cui si è appena pervenuti che si concentrano i maggiori profili di inopportunità nell’uso dell’avverbio abusivamente cui già pocanzi si faceva riferimento. Invero, basti pensare alla c.d. teoria del rischio consentito per avere un’idea di quanto facilmente ci si possa sottrarre agli addebiti di abusività che potrebbero venire sollevati, per esempio, a fabbriche, industrie, o altre realtà particolarmente nocive per l’ambiente, ma le cui attività risultano, contemporaneamente, del tutto lecite. Meglio sarebbe stato, probabilmente, non introdurre la locuzione “abusivamente”, lasciando che ad un tale elemento supplisse una più significativa pregnanza dell’elemento soggettivo, più idonea a conformare e delimitare l’ambito operativo della disposizione che si sta analizzando.

Non è qui, peraltro, che si esauriscono le problematiche connesse all’operato posto in essere dal legislatore per il tramite di tale clausola di sussidiarietà, ma delle questioni ulteriori sarà dato conto in seguito, avendo esse più specifico riguardo alle singole fattispecie di disastro in materia sussistenti, ad oggi, nel nostro ordinamento.

 

2. L’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema. Proseguendo con l’analisi del nuovo articolo 452-quater, può osservarsi come, a seguito dell’inciso iniziale che già si è avuto modo di osservare, il legislatore si sia premurato di dettare tre ipotesi tipiche costituenti, alternativamente, disastro ambientale. La prima ipotesi presa in considerazione dalla norma, rinvenibile al numero 1) della stessa, è quella dell’”alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema”. Si tratta certamente di un reato evento, risultando essenziale, ai fini del perfezionamento della fattispecie, che l’alterazione si sia già verificata, ed in modo irreversibile; ciò è evidenziato peraltro dalla ulteriore previsione di cui all’art. 452-quinquies, il cui secondo comma espressamente contempla la possibilità che venga ad essere cagionato il mero pericolo di disastro ambientale, limitando tale previsione, tuttavia, alla sola fattispecie di disastro colposo di cui al comma 1 dell’art. 452-quinquies, con ciò confermando come, per quanto invece concerne l’analizzando delitto di disastro ambientale contemplato all’art. 452-quater, la completa integrazione di quest’ultimo non possa prescindere dal verificarsi dell’evento. Preliminarmente chiarito questo aspetto, che avrà inoltre modo di tornare utile in seguito, va tuttavia sottolineato come, e per quanto si avrà modo di argomentare, nemmeno tale disposizione può dirsi immune da censure di tipo logico e giuridico.

 

2.1. Ciò che primariamente vuole attenzionarsi a tale proposito, è rappresentato dall’utilizzo del termine ecosistema nella previsione normativa dell’incriminazione in discorso. Già da tempo, a dire il vero, questa locuzione era entrata a far parte del gergo giuridico in tema di disastro, ma era sempre stata adoperata dalla giurisprudenza in relazione a casi concreti, al fine precipuo dare un volto e ricostruire, attraverso l’utilizzo di tale terminologia, un disastro ambientale allora ancora ipotizzabile in una sola veste atipica. Ciò comportava, dal punto di vista delle operazioni compiute dall’interprete, che egli constatasse la avvenuta (o anche non ancora verificatasi, ex comma 1 dell’art. 434 c.p.) alterazione di un ecosistema e, sussistendone gli ulteriori requisiti di legge, la facesse rientrare nell’alveo normativo dei c.d. altri disastri; nessuna necessità era avvertita di fornire una puntuale definizione del concetto di ecosistema, posto che quest’ultimo rappresentava solamente il substrato fattuale in relazione al quale si estrinsecava la condotta criminosa, e non un elemento materiale della stessa. Ebbene, attraverso la riforma dei reati ambientali, ed in particolare attraverso la nuova previsione di disastro ambientale di cui si sta discorrendo, la prospettiva in tale ambito può dirsi radicalmente mutata, se non addirittura rovesciata. L’interprete, infatti, non si troverà più di fronte ad un danno o pericolo attuale a fronte dei quali poco rileva se l’oggetto di essi sia o meno un ecosistema o un altro bene o valore, bensì si troverà a dover sussumere, accanto all’elemento del danno cagionato (e non più quello del pericolo, abbandonato dalla novella di cui alla L. 22 maggio 2015, n. 68), se un tale elemento si sia estrinsecato in seno ad un ecosistema, assumendo quindi ad oggi il concetto in questione una pregnanza dapprima sconosciuta, essendone stata traslata la rilevanza da un piano meramente concreto-fattuale, ad uno giuridico-astratto; con le ulteriori ricadute sul piano della determinatezza che un tale assunto comporta, risultando a questo punto essenziale delineare in maniera assolutamente precisa e puntuale i confini normativi dei quali il concetto di ecosistema deve, e dovrà, farsi portatore, e ciò al fine di non incorrere in censure di incostituzionalità relativamente alla normativa in questione.

Può dunque all’uopo rilevarsi come, con il termine ecosistema, e senza scendere in eccessivi tecnicismi, possa intendersi l’insieme degli organismi e delle sostanze esistenti in un’area determinata e/o delimitata[1]; ciò che pone dinanzi a problemi di non poco momento. Ed invero, dovendo l’area di interesse essere preventivamente riconoscibile e determinabile nei suoi esatti confini, può ulteriormente dirsi confermato il dato che già pocanzi si era posto in evidenza, ovvero quello della assoluta pregnanza che il concetto di ecosistema è venuto ad assumere nel nostro ordinamento. Nondimeno, va ulteriormente considerato il dato empirico nonché scientifico concernente l’esistenza di plurime forme di ecosistema, che spaziano dai macro ai microsistemi; anche in questo contesto possono rinvenirsi talune connesse problematiche di ordine giuridico, dal momento che, nulla dicendo l’articolo 452-quater circa l’estensione che l’ecosistema danneggiato debba presentare, può considerarsi come finanche l’alterazione di un microsistema di dimensioni estremamente ridotte indubbiamente consente la integrazione di tutti gli elementi materiali predisposti dal legislatore ai fini del perfezionamento della fattispecie, con la ulteriore conseguenza, sul piano sanzionatorio, della irrogazione di una pena elevatissima la quale, nel caso concreto, potrebbe rivelarsi senza dubbio sproporzionata, e ciò in assoluta disobbedienza a principi fondamentali del diritto penale quali il principio di proporzionalità ed il principio di offensività.

 

2.2 Un ulteriore aspetto controverso scaturente dalla nuova normativa, sempre rimanendo nell’ambito della previsione di cui al comma 2, numero 1 dell’art. 452-quater c.p., è costituito dall’utilizzo dell’aggettivo irreversibile in relazione alla alterazione da cagionare all’equilibrio dell’ecosistema. Risulta da dati e cognizioni empirici, infatti, come modificazioni di questo tipo difficilmente possano dirsi esaurite o ripristinate in maniera netta e definitiva, e, cosa ancora più significativa, le tempistiche necessarie al fine di assistere ad una completa riabilitazione di un ecosistema possono dirsi stagliate nell’ordine di centinaia, se non migliaia, di anni. Ciò rende particolarmente complesso, quindi, stabilire a priori se un’alterazione possa dirsi irreversibile, dal momento che ben potrebbe accadere che essa non appaia incontrovertibile strictu sensu, ma che necessiti piuttosto delle tempistiche cui si è appena fatto riferimento, le quali, specie se commisurate in relazione alla durata media di una vita umana, non consentono tuttavia nemmeno di poterle qualificare quali alterazioni reversibili a cuor leggero. È prevedibile sin da ora, a parere di chi scrive, un utilizzo distorto in sede processuale della terminologia adoperata dal legislatore nel plasmare tale fattispecie delittuosa, in quanto, come or ora osservato, particolarmente arduo risulterà provare, al di la di ogni ragionevole dubbio, la irreversibilità della alterazione cagionata all’ecosistema nel caso concreto, potendo dunque configurarsi quest’ultima alla stregua di una probatio diabolica di difficoltosa conseguibilità, utile soltanto al fine di rendere in concreto inattuabile la disposizione in questione.

 

3. L’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali. Forse consapevole delle difficoltà applicative concernenti la norma preveduta al numero 1 del secondo comma del nuovo articolo 452-quater del codice penale, il legislatore è intervenuto approntando una ulteriore fattispecie di disastro ambientale, contenuta al numero 2 della medesima disposizione; essa statuisce che sia da ritenersi disastro ambientale finanche “l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali”. Ferme restando le perplessità che già pocanzi si è avuto modo di proporre in relazione alla ricostruzione del concetto di ecosistema, va tuttavia osservato in questa sede come, a ben vedere, la norma in questione costituisca forse l’archetipo, o comunque la previsione più generale, di disastro ambientale (ad esclusione, ovviamente, del disastro atipico di cui all’art. 434 c.p.). Ed infatti, ad ulteriore conferma della scarsa utilità ed utilizzabilità pratica della previsione contenuta al numero 1 dell’art. 452-quater, può notarsi come risulti assolutamente più soddisfacente, quantomeno nell’atto di predisporre una incriminazione, fare piuttosto riferimento all’analizzando numero 2 di tale disposizione. Quest’ultima infatti, lungi dal richiedere la probatio diabolica concernente la irreversibilità della alterazione dell’ecosistema, si limita a prevedere, ai fini della integrazione del reato, che quest’ultima risulti risanabile con modalità particolarmente onerose, dal che si deduce come la previsione di cui al numero 1 non costituisca altro se non una specificazione della fattispecie contenuta al numero seguente, che avrebbe forse meritato, piuttosto che una piena equiparazione rispetto a quest’ultima, un trattamento sanzionatorio più severo, e ciò al fine di scongiurare il pericolo, che si è già più volte segnalato, di una sua totale disapplicazione in concreto.

 

3.1 Nonostante il favor appena manifestato per la previsione di cui al n. 2 dell’art. 452-quater, non può in ogni caso non rilevarsi come anche quest’ultima sconti talune, e decisive, imperfezioni. Prima tra tutte la possibilità di trasporre, sul piano pratico, l’inciso per il quale l’eliminazione dell’alterazione dell’ecosistema debba risultare “particolarmente onerosa”. Non si comprende, stando alla lettera della norma, né cosa debba intendersi con il concetto di particolare onerosità, vale a dire se rilevi dal punto di vista delle tempistiche, dei mezzi, ovvero delle risorse necessitati, né quale sia il soggetto, se pubblico o privato, in capo al quale la rimozione degli effetti lesivi della condotta sull’ecosistema debba addivenire ad assumere una tale pregnanza. E tuttavia, quantomeno attraverso il primo profilo appena espresso, concernente la perimetrazione del concetto di particolare onerosità, e richiamando quanto pocanzi già osservato in relazione alla nozione di ecosistema, può sin da subito anticiparsi come possa riuscirsi, differentemente dal caso di cui al n. 1 della medesima disposizione normativa, a meglio parametrare la risposta dell’ordinamento penalistico in relazione alla effettiva offesa cagionata. Può ben osservarsi, infatti, che nel caso in cui l’ecosistema oggetto della condotta dovesse rivelarsi di ridotte o ridottissime dimensioni, difficilmente la eliminazione dell’alterazione ad esso cagionata potrebbe risolversi nell’assunzione di oneri particolarmente gravosi (anche se non può aprioristicamente escludersi il contrario), con la conseguente esclusione, sul piano fattuale, di uno degli elementi costitutivi del delitto in questione. Tale circostanza invece, lo si è visto, non può trovare alcuno spazio applicativo nell’attuazione della disposizione di cui al n. 1 dell’art. 452-quater, non rilevando in alcun modo, in quel contesto normativo, la estensione del danno cagionato all’ecosistema, con tutte le conseguenze relativamente alle quali si è già argomentato supra.

 

3.2 La disposizione in oggetto, poi, prosegue stabilendo che, affinchè possa dirsi sussistente il reato, all’eliminazione dell’alterazione possa addivenirsi solamente per il tramite di “provvedimenti eccezionali”. Un tale inciso avrebbe consentito di ritenere, sino a qualche tempo addietro, che il soggetto cui la norma intendesse riconnette tale potestà potesse essere il solo soggetto pubblico, essendo questo l’unico attore dotato di poteri provvedimentali sì rilevanti all’inteno del nostro ordinamento; ma non va dimenticato, nel caso in cui ciò fosse possibile, che l’odierno policentrismo normativo, specie se di rango sovranazionale, ha alterato il semplicistico quadro che altrimenti si sarebbe potuto dipingere al riguardo.

 

4. L’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto. La previsione di cui al numero 3 del novello art. 452-quater contiene un’ulteriore ed ultima specificazione di ciò che il legislatore ha inteso definire disastro ambientale; specificazione anch’essa, lo si vedrà, non esente da criticità. Ai sensi della disposizione appena citata, infatti, costituisce disastro ambientale l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo”. Risulta intuitivo ed evidente già ad una prima lettura come tale norma non contenga affatto una autonoma definizione inerente ciò che possa (rectius: debba) considerarsi disastro ambientale, ma costituisca più che altro un parametro ai sensi del quale valutarne gravità ed estensione. Laddove, invero, il legislatore ha come visto imperniato l’analizzanda disposizione di cui al numero 3 sulla rilevanza del fatto (tanto in senso stretto quanto in senso lato), viene spontaneo chiedersi a quale fatto ci si stia riferendo, e non v’è altra risposta se non ritenere che ci si voglia riferire al fatto di disastro. A questo punto appare manifesto, quindi, quanto già si aveva avuto modo di accennare pocanzi, ovvero che il disposto contenuto all’art. 452-quater, n. 3 non detta affatto una definizione di disastro ambientale, bensì rimandi, quanto agli elementi strutturali necessari affinchè quest’ultimo possa dirsi perfezionato, al normato di cui ai numeri precedenti, limitandosi ad operare una valutazione in termini di estensione dell’offesa arrecata ovvero del pericolo immanente a seguito della attuazione della condotta. Così argomentando, due sono i più immediati rilievi che meritano di essere evidenziati: da una parte, l’assoluta fallacia del legislatore nel prevedere ciò che, alternativamente, costituisce disastro ambientale, posto che per quanto appena osservato tali definizioni, e specialmente quella di cui al numero 3, non risultano essere autosufficienti. Dall’altra, l’irragionevolezza nel sottoporre alla medesima forbice edittale tanto le fattispecie di disastro ai sensi dei numeri 1 e 2 dell’art. 452-quater, quanto quella di cui al numero 3 della stessa disposizione, la quale risulta però connotata, lo si è visto, da conseguenze dannose o pericolose significativamente più estese rispetto alla fattispecie base. Più sensato sarebbe apparso, a parere di chi scrive, riservare alla più volte citata previsione di cui al numero 3 il ruolo di aggravante, e ciò proprio in relazione a quella rilevanza del fatto cui il legislatore ha inteso conferire un così centrale risalto.

 

4.1 Ulteriore aspetto meritevole di attenzione e connesso all’esegesi della disposizione in discorso, risulta essere quello relativo alla tipologia di fattispecie preveduta al numero 3 dell’art. 452-quater, al fine di comprendere, cioè, se essa possa dirsi reato di pericolo ovvero di evento. La risposta è che tale disposizione sembra prevedere, ad un primo sguardo, tanto elementi propri dei reati di evento quanto elementi propri dei reati di pericolo. Quanto ai primi, può notarsi come vengano palesemente in rilievo laddove il legislatore ha statuito che, ai fini del perfezionamento della fattispecie, debba guardarsi all’“estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese”; ciò che presuppone, ovviamente, che un evento lesivo si sia già verificato (si parla infatti di compromissione, di effetti lesivi e di persone offese). I secondi, invece, sembrerebbero emergere nell’inciso finale della disposizione in oggetto, allorquando ci si riferisce alle “persone esposte a pericolo”. Ci si può domandare, dunque, se appaia ragionevole sottoporre, astrattamente, alla medesima sanzione due differenti fattispecie delle quali l’una preveda un evento già verificatosi ed il quale abbia già prodotto effetti dannosi, e l’altro che non abbia, invece, ancora arrecato offesa alle persone. E tuttavia, ragionare in questi termini appare verosimilmente errato. Infatti, rilevanza centrale deve essere conferita al dato che qualora ci si riferisce a persone esposte a pericolo, non lo si fa in relazione ad un evento che non si è ancora verificato, bensì ad un disastro già verificatosi e che abbia conseguentemente già provocato l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema, senza tuttavia aver ancora arrecato, naturalisticamente, offesa alle persone. Se di reato di pericolo può parlarsi in relazione all’inciso finale, quindi, lo si può fare solo in relazione alla posizione delle persone, e non anche dell’ecosistema il quale, come si è detto, risulta invece già alterato. Una considerazione segue quest’ultimo assunto: non costituisce, di per sé, un’offesa per le persone il semplice fatto che un ecosistema venga ad essere in maniera più o meno rilevante compromesso? Anche senza che un’offesa alle stesse venga ad essere arrecata in senso fisico ovvero naturalistico ritiene chi scrive che, in un mondo (anche e soprattutto giuridico) improntato sulla tutela dell’ambiente quale valore ed interesse diffuso e/o collettivo, incidere su tale valore si risolva ineluttabilmente nell’incidere sulla persona umana ed, in conclusione, con l’arrecarle un’offesa. Senza che un tale modus argomentandi possa nuocere in alcun modo alle garanzie che i ben noti principi del nostro ordinamento penalistico pongono a tutela del reo, ed in particolare il principio di tassatività e quello di offensività; la sanzione cui sottoporre quest’ultimo, infatti, appare come visto identica tanto nel caso che persone risultino offese, quanto nel caso in cui esse vengano solamente ad essere poste in pericolo.

 

5. Il disastro ambientale commesso con colpa. Annotazione conclusiva la si è riservata per porre in rilievo le modalità attraverso le quali il legislatore ha inteso disciplinare il disastro ambientale colposo. Dispone infatti l’art. 452-quinquies, comma 1 che se tale delitto “è commesso per colpa, le pene previste […] sono diminuite da un terzo a due terzi”; non si è, quindi, adoperata un’apposita ed autonoma cornice edittale per tale fattispecie, ma si è al contrario fatto uso di un criterio, quello della diminuzione della sanzione, che solitamente è proprio delle circostanze attenuanti. A tale proposito può invero essere sostenuto, senza timore di risultare improvvidi, che il normato di cui al primo comma dell’art. 452-quinquies non sia una vera e propria fattispecie autonoma, quanto piuttosto una circostanza attenuante ammantata dalla forma di delitto colposo; ovvero, viceversa, che si tratti di un delitto colposo avente forma di circostanza attenuante, consentendo la non cristallina tecnica legislativa adoperata nel caso di specie, come visto, più d’una interpretazione.

 

5.1 Prosegue il successivo comma 2 dell’art. 452-quinquies stabilendo che “se dalla commissione dei fatti di cui al comma precedente deriva il pericolo di inquinamento ambientale o di disastro ambientale le pene sono ulteriormente diminuite di un terzo”. Quanto alla forma di tale previsione, rubricata ai sensi di delitto colposo, ma realizzata con le tecniche proprie delle circostanze attenuanti, si rimanda a quanto osservato supra. Ciò che in questa sede rileva, invece, riguarda la possibilità di male interpretare la analizzando disposizione di cui al secondo comma. Come visto, infatti, essa fa riferimento ai fatti di cui al comma precedente, il cui incipit opera a sua volta un richiamo ai fatti di cui agli articoli 452-bis e 452-quater; potrebbe dunque apparire che la previsione in oggetto si riferisca non tanto, come la rubrica lascerebbe intendere, al disastro ambientale colposo, quanto piuttosto ad una previsione di disastro ambientale quale reato, stavolta si, di pericolo. Così tuttavia non è; in primo luogo, infatti, non può non assumere rilevanza la collocazione topologica della fattispecie inserita nell’ambito dei delitti colposi contro l’ambiente. Secondariamente, poi, non deve sfuggire come l’inciso finale della disposizione di cui al secondo comma dell’art. 452-quinquies reciti che le pene sono ulteriormente diminuite di un terzo; nell’adoperare l’avverbio ulteriormente, dunque, ben si comprende come mediante il riferimento ai fatti di cui al comma 1 il legislatore abbia inteso riferirsi non già al disastro ambientale doloso cui quest’ultimo rimanda, bensì alla sua corrispondente colposa, ovvero, se lo si preferisce, attenuata.

 

 


[1] Fonte: Enciclopedia Treccani

Avv. Sodano Gioele

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