La riforma dell’art. 167 TUIR e il nuovo approccio alle società controllate estere

Nel contesto della Riforma della fiscalità internazionale, il decreto legislativo 27 dicembre 2023, n. 209, ha modificato l’art. 167 TUIR sulle società controllate estere.
L’intervento del riformatore è stato motivato dall’intento di semplificare la disciplina precedente relativa alle CFC, in vista di un più agile contrasto delle pratiche elusive ed evasive condotte per mezzo di società estere controllate da società italiane.
Le nuove disposizioni determinano i criteri da adottare sia in tema di base imponibile che di aliquota impositiva.  
La modifica introdotta dal Governo si fa apprezzare in un quadro di adesione ai criteri impositivi raccomandati dall’OCSE, che tendono a identificare e sanzionare le condotte di quei paesi che non collaborano, o che collaborano poco, alla mission dell’Organizzazione, che ormai detta legge a livello globale, stante l’adesione, pressoché plenaria, alle sue raccomandazioni, che sovente si convertono in Direttive europee prontamente ratificate e attuate dai paesi dell’UE.
La normativa CFC, al di là dei rilievi, pur importanti, che la dottrina ha fatto presenti in tema di armonizzazione con il diritto preesistente, rende esplicito l’atteggiamento dell’Italia (e dell’OCSE) nei confronti dei paesi a fiscalità privilegiata, sui quali è auspicabile una normativa che raccordi quanto emerge dalle disposizioni CFC con l’impianto normativo vigente, ma, ancor più, una presa di posizione finalmente coerente e diretta, in luogo di atteggiamenti non sempre univoci.
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Indice

1. Il nuovo art. 167, TUIR. dalla normativa interna alle globe rules


La disciplina delle società estere controllate, nota come normativa CFC (Controlled Foreign Companies), sancita dall’art.167 del TUIR, è apparsa nell’ordinamento italiano con la legge 21 novembre 2000, n. 3422, sui redditi delle imprese estere e, come da rubrica, era motivata dalla volontà di contrastare pratiche evasive ed elusive.
In realtà, si tratta di una normativa, se mi si passa il termine, di ‘importazione’, in quanto elaborata nel contesto delle raccomandazioni dell’OCSE e del diritto unionale, tanto è vero che il d.lgs. 29 novembre 2018, n.142 era già intervenuto a modificare l’art.167 TUIR, per dare attuazione alla Direttiva UE 2016/1164.
L’intervento del Governo sull’art. 167 si iscrive, pertanto, in una tradizione più che ventennale di adeguamento del nostro diritto alle necessità emergenti a livello europeo ed internazionale.
Per apprezzare l’opera del legislatore delegato conviene porla a sistema con la normativa precedente e trarne gli elementi di novità.
L’art. 167 TUIR si applica a entità non residenti controllate da società o enti italiani.
Secondo il testo previgente, tale applicazione ricorreva in presenza di alcune condizioni:

  1. L’entità estera godeva di una tassazione inferiore alla metà di quella italiana; un terzo dei proventi dovevano derivare da attività finanziarie, assicurative, bancarie o da operazioni di compravendita di beni o da prestazioni di servizi con “valore economico aggiunto scarso o nullo”[1];
  2. L’attività svolta doveva essere irrisoria, in quanto l’entità estera non realizzava l’oggetto sociale a mezzo locali, personale e beni strumentali.

Al ricorrere di queste condizioni, la normativa CFC non poteva essere applicata e la conseguenza era una tassazione per trasparenza degli utili prodotti dalle società estere che veniva a gravare sulla controllante italiana, senza che neanche rilevasse l’effettiva percezione di tali attivi.
In altre parole, si sanzionava il passive income non lecitamente incamerato dalla controllata estera, in quanto tali entrate erano oggetto di profit shifting – pratica evasiva in voga presso le multinazionali, ma sempre più frequente anche per realtà più circoscritte.
Era prevista anche la proporzione tra passive income e proventi ottenuti dal soggetto estero: doveva essere superiore a un terzo.
E il passive income doveva risultare da valori contabili, anche valutativi, imputati a conto economico.
Come ho detto, la normativa dell’art. 167 è stata variamente ritoccata nel corso del tempo.
E l’evento più recente, che ha poi occasionato la modifica dell’art. 167, è stata l’elaborazione in sede OCSE del cd. Pillar 2, che ha sancito una serie di disposizioni note come Global Anti-Base Erosion Rules (GloBe Rules) la cui ratio è quella di contrastare le condotte evasive delle multinazionali e dei gruppi societari.
La Direttiva UE 2022/2523 ha recepito le GloBe Rules nella misura in cui mirano a ottenere una tassazione standard del 15% per le imprese infragruppo.
In tal senso, si prevede che la capogruppo, qualora vi siano imprese che godono di tassazione inferiore al 15%, versi la differenza (top up tax o TUT), ferma restando la possibilità di optare per il sistema Qualified Domestic Minimum Top Up Tax (QDMTT) che consente di integrare l’imposta direttamente nel paese con tassazione inferiore al 15%.
Il pur sintetico quadro appena tracciato rende chiaro il perché della modifica operata dal legislatore delegato.
Infatti, la messa a sistema della tassazione per trasparenza per la controllante con la nuova formulazione dell’art. 4, lett. a) dell’art. 167, che identifica come paesi a fiscalità privilegiata quelli che applicano una tassazione inferiore al 15%, mostra come il decreto si sia rifatto alle GloBe Rules.
E qui rinveniamo anche la semplificazione voluta dalla riforma.
Infatti, nel vigore della precedente normativa, occorreva effettuare un duplice calcolo:

  • 1) l’ Effective Tax Rate (ETR) estero;
  • 2) l’ Effective Tax Rate (ETR) virtuale interno.

Laddove l’ETR estero era la tassazione effettiva ricavata dal rapporto tra le imposte sul reddito dovute da parte del soggetto estero controllato e l’EBITDA risultante dal bilancio.
Qualora il risultato avesse evidenziato una imposizione fiscale inferiore al 50% di quella che si sarebbe dovuta applicare in Italia (imposta italiana/utile ante
imposte della controllata, come risultante da bilancio) avrebbe trovato applicazione la normativa CFC, con la conseguente tassazione per trasparenza in capo alla controllante.
La semplificazione voluta dalla normativa opera qui nel senso che non occorre calcolare l’ETR virtuale interno e, conseguentemente, non bisognerà verificare se la tassazione della controllata è inferiore alla metà di quella italiana (fatto salvo il caso che menzioneremo a breve), liberando così la capogruppo dall’ingrato compito di verificare il quantum della base imponibile delle controllate.
Infatti, dalla circostanza che la controllata estera versi meno del 15% discenderà direttamente l’applicazione della CFC e si avrà tassazione per trasparenza gravante sulla capogruppo.
Tuttavia, la sola tassazione ‘virtuosa’ non è sufficiente.
La riforma, infatti, esige anche che: “a tal fine, il bilancio d’esercizio dei soggetti controllati non residenti deve essere oggetto di revisione e certificazione da parte di operatori professionali a ciò autorizzati nello Stato estero di localizzazione dei soggetti controllati non residenti, i cui esiti sono utilizzati dal revisore del soggetto controllante ai fini del giudizio sul bilancio annuale o consolidato”.
In mancanza di questa ulteriore condizione, tornerà ad applicarsi il criterio del 50%.
La normativa mostra così un favor per le società estere i cui bilanci presentino una patente di congruità e affidabilità.
In presenza dei due requisiti appena menzionati – tassazione superiore al 15% e bilanci revisionati – sussiste altresì l’opzione per i soggetti controllanti di optare per un regime contributivo alternativo.
Si potrà infatti scegliere di versare “un’imposta sostitutiva delle imposte sui redditi pari al 15 per cento dell’utile contabile netto dell’esercizio calcolato senza tenere in considerazione le imposte che hanno concorso a determinare detto valore” e tale opzione potrà essere esercitata per tre anni, con tacito rinnovo per il triennio successivo e salvo revoca a discrezione dell’Agenzia delle Entrate (art. 4-ter).
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2. Il futuro dei paradisi fiscali


Le disposizioni sulle controllate estere sono stata salutate sin dapprincipio con favore, se non per la raffinata tecnica normativa, almeno per lo sforzo di introdurre qualche sgravio in una legislazione fiscale come quella italiana, che si fa apprezzare più per l’arte della farragine che per quella della reductio
Inoltre, l’Italia dimostra ancora una volta la propria vocazione europeista, cercando di armonizzare la normativa interna con quella sovranazionale[2].
Al di là delle inevitabili sfasature tra la norma e la sua applicazione concreta, io vorrei chiedere l’attenzione del lettore per riflettere su una questione non solo attuativa, ma di principio, con riguardo alla normativa che ci occupa.
Non solo la Riforma, introducendo de facto un nuovo criterio per identificare i paesi a fiscalità privilegiata, rende non solo necessaria una revisione della definizione degli stessi, sul piano dell’imposta ‘ribelle’ che ora parrebbe non più condannare i paesi che applicano una tassazione inferiore al 50%, ma quelli che la fissano al di sotto del 15% – e della normazione degli utili realizzati in questi paesi, ma adotta anche un criterio che, pur semplificando l’individuazione dei paradisi fiscali, rivela e rafforza un intento discriminatorio di fondo.
La normativa italiana prevede una lista di paradisi fiscali o che adottano una tassazione privilegiata, ritenuta poco consona con i principi tributari accolti dall’Europa.
La differenza non è di poco conto.
Da un lato, infatti, abbiamo la lista di proscrizione.
Dall’altro, lo stigma della tassazione inferiore a una aliquota ritenuta “virtuosa”.
Faccio un esempio per rendere chiara la ‘tecnica’ discriminatoria.
Gli Emirati Arabi sono per l’Italia un paradiso fiscale. Punto.
Se un imprenditore va in Romania e assume un dipendente in loco, paga l’1%, ma la Romania, da paese fiscalmente virtuoso, diventa paese a fiscalità privilegiata tout court.
Dunque, le decisioni tributarie (e sovrane) dei paesi (anche UE) determinano l’appartenenza o meno al circolo dei ‘buoni’ e questo si sconta con ripercussioni sui rapporti tra i ‘buoni’ e i ‘cattivi’ (o divenuti tali per l’applicazione di infauste aliquote). Si cerca di orientare così, indirettamente, ma chiaramente, la politica tributaria altrui.
E qui io propongo la riflessione sui principi.
Perché, se questi paesi, paradisi fiscali, ab origine o divenuti tali, sono così poco “cooperativi” e in odore di evasione fiscale, l’Italia, ma anche gli altri paesi del consesso SEE fanno accordi economici con questi paesi?
In base a quali considerazioni di giustizia tributaria si stabilisce che il 15% è la tassa ‘universale’ corretta?
Con che diritto un paese viene fatto oggetto di ghettizzazione – in spregio ai principi della domestic jurisdiction, che mi pare sia un principio ratificato dall’ONU – perché adotta una politica fiscale che privilegia gli investimenti esteri e facilita quelli interni, puntando sulla libertà di intrapresa invece che sulla tributazione aggressiva in voga in Italia (ma non solo)?
Come mai, dopo decenni di acquiescenza, l’Europa si sveglia e promuove una crociata per l’eticizzazione della fiscalità internazionale?
Si dirà che sono questioni complesse e che andrebbero approfondite sul piano delle norme e della loro sistematicità.
Invece, la questione è drammaticamente concreta.
Dirò che, per restare agli Emirati, che pure stanno stravolgendo la loro normativa, per far contenta l’OCSE, è impossibile ricevere un bonifico in Italia che dagli Emirati provenga?
Eppure l’Italia, recentemente, ha stretto la mano agli Emirati in tema di accordi commerciali.
E allora, lo ripeto, basandomi sui fatti e sulla mia esperienza professionale, non sulle supposizioni, la ‘semplificazione’ o va intesa per quello che è, oppure stiamo facendo accademia e nulla più.
Quello che si sta configurando è un nuovo modello di tassazione globale, che, prendendo a pretesto certe questioni morali, che non hanno nulla a che fare con la fiscalità internazionale, mira a elaborare liste di proscrizione e decidere unilateralmente se un paese adotta una tassazione adeguata, salvo poi stringere con lo stesso paese alleanze strategiche.
Porgo al lettore un altro esempio.
Panama ha un Trattato di amicizia (si chiama proprio così) con l’Italia, che facilita l’ottenimento della residenza nel paese caraibico.
Ma, allo stesso tempo, il paese caraibico è classificato, di volta in volta, “non cooperativo”, “paradiso fiscale”, oltre che spauracchio delle banche e, naturalmente, covo di eterni e sospetti papers.
Ora, in tempi di teorie complottiste, io non propongo una visione d’insieme che potrebbe farmi apparire come un ‘partigiano del paradiso’.
Dico solo che se si deve andare nella direzione del manicheismo tra un Europa del Buon Governo e “gli altri”, che lo si faccia sino in fondo, senza ondeggiare tra norme ghettizzanti e aprioristiche, nonché eterodirette e accettate per sé sole dei membri del gruppo GloBe e ‘aperture’ normativo-commerciali, dai trattati sulle doppie imposizioni ai summit sulle energie alternative che vedono protagonisti proprio quei paesi che osano tassare poco, o non tassare affatto, chi apporta capitali, know-how e sviluppo (cosa che l’Italia ha dimenticato di fare da mezzo secolo almeno), senza che questo comporti –  è appena il caso di notarlo – a priori, l’innesco di pratiche di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo.
In definitiva, e concludendo, l’Europa dovrebbe avere il coraggio delle proprie ragioni.
È, quest’ultimo, un monito kantiano.
Ma anche di questo l’Italia, e l’Europa, si sono dimenticate.

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Note

  1. [1]

    Per il significato da attribuire alle operazioni di “valore economico aggiunto scarso o nullo”, occorre fare riferimento al decreto ministeriale 14 maggio 2018, che fornisce le linee guida per l’applicazione dell’art. 110 co.7, TUIR. Il decreto chiarisce in proposito che si deve trattare di operazioni e servizi che:
    a) hanno natura di supporto;
    b) non sono parte delle attività principali del gruppo multinazionale;
    c) non richiedono l’uso di beni immateriali unici e di valore, e non contribuiscono alla creazione degli stessi;
    d) non comportano l’assunzione o il controllo di un rischio significativo da parte del prestatore del servizio, né generano in capo al medesimo l’insorgere di un tale rischio.

  2. [2]

    Lascio qui da parte, per economia di trattazione, la questione dell’effettiva sinergia tra CFC e Minimum Tax voluta dall’OCSE, giacché, tecnicamente, si tratta di normative con scopi differenti e che possono essere accomunate solo per l’intenzione di fondo di governance della tributazione globale.

Avv. Savino Mauro

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