Il Decreto legislativo 28 marzo 2024, n. 44 ha novellato l’art.11,comma 2,lettera a) in materia di valutazione di professionalità, introducendo una disposizione che non potrà che porre a serio rischio l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura, non nella sua proiezione esterna, bensì nella sua dimensione interna.
La nuova disposizione infatti prevede “a) la capacità, oltre che alla preparazione giuridica e al relativo grado di aggiornamento, è riferita, secondo le funzioni esercitate, al possesso delle tecniche di argomentazione e di indagine, anche in relazione alla sussistenza di gravi anomalie concernenti l’esito degli affari nelle successive fasi e nei gradi del procedimento e del giudizio ovvero alla conduzione dell’udienza da parte di chi la dirige o la presiede, all’idoneità a utilizzare, dirigere e controllare l’apporto dei collaboratori e degli ausiliari.
Possono costituire indice di grave anomalia ai fini del periodo precedente il rigetto delle richieste avanzate dal magistrato o la riforma e l’annullamento delle decisioni per abnormità, mancanza di motivazione, ignoranza o negligenza nell’applicazione della legge, travisamento manifesto del fatto, mancata valutazione di prove decisive, quando le ragioni del rigetto, della riforma o dell’annullamento sono in se stesse di particolare gravità ovvero quando il rigetto, la riforma o l’annullamento assumono carattere significativo rispetto al complesso degli affari definiti dal magistrato”.
La novella impone alcune riflessioni sia in ordine all’interpretazione del testo normativo, sia in ordine alla legittimità costituzionale del meccanismo di valutazione dalla stessa congegnato.
Per una panoramica della riforma, consigliamo l’articolo: Riforma dell’ordinamento giudiziario: in GU i decreti legislativi
Indice
1. Problematiche interpretative della modifica della valutazione di professionalità
La disposizione si presenta di difficile interpretazione, dovendosi armonizzare con altri due precetti, in modo tale da assumere rispetto ad essi autonomo significato.
Il primo è rappresentato dallo stesso art.11,comma 2, laddove poco prima statuisce “La valutazione di professionalità riferita a periodi in cui il magistrato ha svolto funzioni giudicanti o requirenti non può riguardare in alcun caso l’attività di interpretazione di norme di diritto, né quella di valutazione del fatto e delle prove”.
Il secondo è costituito dal plesso di regole contemplate nel codice disciplinare (Dlgs 2006, n. 109).
Sul punto va infatti premesso come un illecito disciplinare costituisse già prima della riforma di per sé un elemento da ponderarsi negativamente in sede di valutazione di professionalità.
Ne discende come, per assegnare una propria ratio al contenuto della novella, occorra riconoscere alle fattispecie in essa descritte un ambito applicativo diverso da quelle disegnate dal codice disciplinare.
Vengono in rilievo in particolare l’art.2,comma 1, lettere g, h, l ed m.
Secondo la lettera g) invero costituisce illecito disciplinare “la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile”.
La disposizione riecheggia pericolosamente quella contenuta nel nuovo art.11, laddove quest’ultimo parla di “ignoranza o negligenza nell’applicazione della legge”.
Gli unici elementi differenziali sembrano potersi ravvisare nella “gravità” e nella “non scusabilità” dell’ignoranza o della negligenza.
Ne discende come dovrebbe darsi rilevanza negativa in sede di valutazione proprio a quelle applicazioni erronee della legge connotate da non gravità e da scusabilità (magari in virtù di un quadro normativo non limpido o dell’esistenza di più orientamenti giurisprudenziali).
Pare lecito dubitare della legittimità costituzionale di una simile disposizione, che, nonostante la sua impronta sanzionatoria, svaluta completamente l’elemento soggettivo.
Inoltre il criterio di giudizio che il CSM dovrà applicare appare connotato da un’eccessiva discrezionalità, essendo arduo segnare il confine tra una negligenza incolpevole grave e non grave.
Secondo la lettera h) costituisce poi illecito disciplinare “il travisamento dei fatti determinato da negligenza inescusabile”.
Anche in questo caso è impossibile non notare l’assonanza con l’art.11, laddove prevede il “travisamento manifesto del fatto”.
Nella fattispecie in esame tracciare una distinzione con l’illecito disciplinare diventa ancora più arduo.
Se infatti un travisamento del fatto è manifesto (art.11), allora difficilmente potrà sostenersi che esso non è stato determinato da negligenza inescusabile (lettera h).
L’unica opzione ermeneutica (difficilmente ipotizzabile in concreto) è quella di assegnare all’art.11 il significato di travisamento manifesto, ma determinato da negligenza scusabile.
Si ripropongono tuttavia anche in tale caso le problematiche già evidenziate con riferimento a quello precedente, sia in chiave costituzionale sia in termini di eccessiva discrezionalità del sindacato rimesso al CSM, che rischia di sfociare nell’arbitrio.
Secondo la lettera l) costituisce ancora illecito disciplinare “l’emissione di provvedimenti privi di motivazione, ovvero la cui motivazione consiste nella sola affermazione della sussistenza dei presupposti di legge senza indicazione degli elementi di fatto dai quali tale sussistenza risulti, quando la motivazione è richiesta dalla legge”.
Ancora una volta risuona l’art.11, allorché parla di “mancanza di motivazione”.
La differenza tra mancanza di motivazione (art.11) e provvedimenti privi di motivazione (lettera l) appare francamente non tracciabile in alcun modo.
Se ne dovrebbe desumere che la mancanza di motivazione che nell’art.11 può (e non deve) “costituire indice di grave anomalia”, ai sensi del codice disciplinare costituisce invece sempre un illecito.
Una soluzione difficile da ammettere in termini di coerenza ordinamentale, ma che pare l’unica sostenibile alla luce del tenore letterale delle due disposizioni.
Infine la lettera m) del codice, secondo la quale “l’adozione di provvedimenti adottati nei casi non consentiti dalla legge, per negligenza grave e inescusabile, che abbiano leso diritti personali o, in modo rilevante, diritti patrimoniali”.
Anche in tal caso non passa inosservata la somiglianza con l’art.11,ove prevede “il rigetto delle richieste avanzate dal magistrato o la riforma e l’annullamento delle decisioni per abnormità”.
Ed infatti non vi è dubbio che un provvedimento adottato “nei casi non consentiti dalla legge” (lettera m), sia anche abnorme (art.11).
Il distinguo pare dunque doversi individuare nei requisiti della negligenza grave e inescusabile e nella lesione dei diritti personali o patrimoniali.
Ne emerge come la fattispecie ex art.11 risulti idonea a sanzionare in sede di valutazione provvedimenti abnormi , connotati da negligenza scusabile o privi di lesività.
L’ultima ipotesi contemplata dall’art.11 non ha corrispondenze nel codice disciplinare e tuttavia non va esente da rilievi.
La “mancata valutazione di prove decisive” ,è formula che sembra richiamare al contempo l’art.395, n. 4, c.p.c e l’art.360, nn.4 e 5, c.p.c
La disposizione, così enucleata, senza alcun riferimento ad elementi di colpa, seppur lievi, ascrivibili al giudicante, pare introdurre in sede valutativa una forma di responsabilità oggettiva, del tutto eccentrica rispetto alla natura del giudizio di professionalità.
2. Profili di illegittimità costituzionale
Se le singole fattispecie tracciate dall’art.11 risultano difficilmente armonizzabili in chiave ordinamentale ed istituzionale, è tuttavia lo stesso meccanismo valutativo disegnato da tale disposizione a destare le maggiori perplessità in termini di compatibilità costituzionale, di coerenza e di efficienza rispetto al fine che si ripromette di perseguire.
Per rendere maggiormente evidenti tali criticità, è necessario richiamare i segmenti normativi oggetto di vaglio “Possono costituire indice di grave anomalia ai fini del periodo precedente il rigetto delle richieste avanzate dal magistrato o la riforma e l’annullamento delle decisioni…. quando le ragioni del rigetto, della riforma o dell’annullamento sono in se stesse di particolare gravità ovvero quando il rigetto, la riforma o l’annullamento assumono carattere significativo rispetto al complesso degli affari definiti dal magistrato”.
Il primo rilievo da formulare è di natura costituzionale, ravvisandosi nel meccanismo congegnato dal legislatore una forma di compressione dei principi di indipendenza ed autonomia della Magistratura nella sua dimensione interna.
La valutazione di professionalità viene rimessa in concreto alla divergenza tra richiesta e decisione (nel caso dei PM) o tra decisione di primo grado e decisioni assunte nei gradi successivi.
Viene così incrinato indirettamente il principio secondo il quale i Magistrati si distinguono solo per funzioni e direttamente quello di autonomia ed indipendenza del singolo Magistrato.
La conseguenza negativa sul piano valutativo correlata ad una possibile distanza tra le determinazioni del Magistrato di prime cure rispetto a quello di seconde cure non potrà avere invero altro effetto che indurre il primo ad appiattirsi sugli orientamenti del secondo.
Il meccanismo inoltre non sembra tenere in considerazione ipotesi nelle quali la divergenza tra le determinazioni dei singoli Magistrati sia fisiologica.
Viene in rilievo in tal senso , ad esempio, l’ipotesi della richiesta di rinvio a giudizio del PM, i cui presupposti legittimanti (art.408 c.p.p.), divergono da quelli propri della sentenza di condanna.
Un secondo rilievo al sistema valutativo ha natura propriamente pratica.
Il meccanismo di valutazione “ascendente” sembra postulare la possibilità del Magistrato di prime cure (PM o Giudice) di avere contezza degli orientamenti consolidati presso il Magistrato di seconde cure.
Tuttavia non esistono allo stato banche dati sufficientemente aggiornate e complete, che siano in grado di fornire un tale bagaglio conoscitivo.
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