Riforma penale: la motivazione della sentenza penale e il nuovo atto di appello

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Introduzione

MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA DI PRIMO GRADO E SPECIFICITA’ DELL’ATTO DI IMPUGNAZIONE – IL RAFFORZAMENTO DELLO SCRUTINIO DI AMMISSIBILITA’ COME “FILTRO” DEL GIUDIZIO DI APPELLO, TRA ESIGENZE DI DEFLAZIONE E DI ELIMINAZIONE DELL’ARRETRATO ED ISTANZE DI RIMEDIO/CORREZIONE DELL’ERRORE GIUDIZIARIO – IL “NUOVO” GIUDIZIO DI IMPUGNAZIONE – IL SUPERAMENTO DEL “RAGIONEVOLE DUBBIO” E DELL’ERRORE CONTENUTO NELLA SENTENZA DI PRIMO GRADO E DELL’OPERATIVITA’ DELLE CAUSE DI ESTINZIONE DEL REATO NEL GIUDIZIO DI APPELLO – VERSO UNA PREVENTIVA NON PARTECIPATA VALUTAZIONE DEL GRAVAME – UN “GIUSTO” PROCESSO DI IMPUGNAZIONE ?

La Legge 23 giugno 2017 n. 103 contenente: “Modifiche al codice penale, di procedura penale ed all’ordinamento penitenziario (17G00116)”, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana al n. 154 del 04.07.2017, entrerà in vigore il 03.08.2017.

La c.d. riforma Orlando/D’Ascola/Ferranti è destinata, pertanto, ad essere applicata a breve (non nella sua interezza, essendovi alcune parti della legge la cui entrata in vigore è differita nel tempo o che dovranno essere oggetto della legislazione delegata) e a modificare il codice penale ed il processuale penale accusatorio, per come è stato concepito e strutturato originariamente e per come è stato lentamente, ed inesorabilmente, modificato nel tempo dalla giurisprudenza di legittimità e dalle corti sovranazionali.

Il processo penale accusatorio – cioè il sistema processuale che utilizza, per la verifica della fondatezza dell’ipotesi di reato contestata dalla pubblica accusa e della penale responsabilità dell’imputato, il contraddittorio come metodo dialettico per la formazione della prova e la ricerca della verità – come noi lo conosciamo (e lo viviamo quotidianamente nelle aule di giustizia) è destinato, dunque, a subire ulteriori inevitabili e non positivi mutamenti.

Se è pur vero che l’evoluzione nel tempo di un modello processuale penale (ed anche del nostro sistema accusatorio) è, in qualche misura, necessaria ed anche auspicabile – per adattarlo al mutato contesto socio-politico ed al cambiamento della realtà sulla quale è chiamato ad operare ed incidere – la riforma c.d. Orlando non è destinata a far migliorare il nostro processo penale, di stampo accusatorio, dal punto di vista della efficienza e funzionalità.

Se si vuole poi passare dal garbato eufemismo che si è adoperato sopra per descrivere gli effetti della riforma Orlando/D’Ascola/Ferranti (definiti, in chiave riduttiva, soltanto di mancato incremento della funzionalità ed efficacia sul meccanismo del processo penale, ma che già basterebbero, peraltro, ad inquadrare l’intervento riformatore come l’ennesimo fallimento del Legislatore in materia penale, condannando dunque quest’ultimo, per ciò solo, al meritato oblio e ad una condanna senza appello…) alla realtà, nuda e cruda, dei fatti, il giudizio finale sul suo contenuto ed impianto non può che essere negativo, avendo comportato soltanto una indebita limitazione dei diritti dell’imputato ed una compressione delle garanzie difensive, con lo sbilanciamento del pur minimo equilibrio esistente nei rapporti tra pubblica accusa e la difesa nelle indagini preliminari che ha visto ancora accrescersi il predominio e le facoltà del P.M. a scapito della difesa e con il sacrificio, immotivato, di guarentigie poste a presidio del concreto esercizio di diritti senza alcuna contropartita, reale o anche soltanto profferta.

In un precedente commento (pubblicato dalla Rivista Diritto.it in data 23.04.2017, elaborato dagli Autori Riccardo Dainelli ed Alessandro Paoletti), si è analizzato la riforma in pectore – tra poco vigente – ed in particolare le modifiche in materia di prescrizione (che hanno comportato l’allungamento, anziché la riduzione, dei termini processuali con la previsione di un doppio termine di sospensione, di 1 anno e mesi 6 per il primo grado e di 1 anno e mesi 6 per il giudizio di appello, che non farà altro che allungare la durata dei procedimenti penali, che verrà resa ancor più “irragionevole”; con buona pace di chi riteneva – e ritiene ancora oggi – di aver ridotto, così facendo, la portata delle condanne dell’Italia per la violazione della ragionevole durata dei procedimenti penali e la pesantissima ed insostenibile esposizione economica che ne deriva, ottenendo invece l’effetto contrario ed il peggioramento dello status quo, o che pensava addirittura di aver risposto alle aspettative ed al duro monito dell’OCSE), l’avocazione delle indagini preliminari (un istituto che, per essere utile allo scopo, avrebbe dovuto prevedere poteri di intervento diretto del P.G. in caso di conclamata inerzia della/delle Procura/Procure, ma la cui operatività viene fatta, invece, dipendere da una comunicazione del P.M. non procedente che deve in sostanza “autoaccusarsi” per farsi togliere il fascicolo ed al quale, comunque, si è assegnato un ulteriore termine di mesi 3 rispetto ai termini massimi per assumere le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale e che potrà anche inoltrare, in caso di notizie di reato di particolare complessità, una richiesta di “proroga” al PG – anziché al GIP – ottenendo di compiere atti processuali anche oltre i termini e di vedersi riconosciuta l’utilizzabilità di tali atti) ed, infine, il processo a distanza (nel quale sarà vietato ad alcuni imputati, detenuti per gravi reati, di assistere personalmente e di presenziare fisicamente alle udienze relative ai procedimenti penali che li riguardano come imputati e nei quali debbono comunque testimoniare, con le garanzie di cui agli artt. 197 bis o 210 c.p.p., potendo intervenire soltanto in videoconferenza ed onerandoli dei costi dovuti al collegamento qualora il difensore voglia, improvvidamente, porre domande a tali soggetti, con possibile – e prevista – estensione di tale modello processuale anche al di fuori delle tassative ipotesi di soggetti in stato di detenzione, ma in situazioni che impongano una pronta definizione del procedimento, in modo del tutto discrezionale e con valutazione del Giudice non assista e sorretta da diritto di impugnazione…).

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Queste sono le più consistenti modifiche della riforma Orlando, delle quali si è parlato maggiormente e che hanno attirato l’attenzione dei commentatori e degli operatori del diritto, perché vanno a toccare settori ed istituti centrali del nostro sistema processuale penale e dei quali si può agevolmente percepire la portata applicativa e le ripercussioni processuali.

Accanto a tali, importanti, modifiche, la riforma Orlando ha riguardato, però, anche altri aspetti ed istituti del procedimento penale, non meno importanti e delicati per l’equilibrio del procedimento penale e per il corretto funzionamento del sistema processuale, che nel suo svolgimento deve assicurare una sentenza “giusta” aderente ai fatti ed esplicitata chiaramente dal giudice che è chiamato a giustificare la propria decisione con idonee ragioni in fatto ed in diritto (la motivazione, che costituisce una garanzia per l’imputato, dovendo caratterizzare ogni provvedimento giurisdizionale, che deve essere motivato ex art. 111 Cost., e la cui mancanza ne determina la nullità ex art. 125 c.p.p., essendo, dunque, evidente che la motivazione costituisce l’estrinsecazione e il naturale epilogo di un processo che aspiri ad essere “giusto” ed improntato al rispetto del principio del contraddittorio, in ogni suo segmento e fase), ed, al contempo, deve prevedere adeguati controlli per consentire di verificare la correttezza della decisione da parte dell’imputato e di rimuovere eventuali errori del giudice di merito mediante la proposizione dell’impugnazione (atto di appello).

Sono questi aspetti “misconosciuti”, o meglio passati in secondo piano, dell’intervento riformatore che saranno analizzati nel presente contributo.

Si esaminerà, dunque, in primo luogo, il nuovo testo dell’art. 546 comma 1 lett. e) c.p.p., al fine di accertare se le modifiche apportate a tale norma siano soltanto formali oppure anche sostanziali; per stabilire cioè se esse andranno ad incidere, in concreto, sul contenuto della motivazione della sentenza penale, cioè sull’atto conclusivo del procedimento penale e giustificativo della irrogazione della pena per il reato contestato all’imputato, cercando di comprendere se (ed in quale misura) il restyling della norma sia soltanto un’operazione di facciata o, invece, sia espressione di una diversa concezione e modalità di espressione della decisione del giudice penale da parte del Legislatore riformatore, che comporta, in qualche misura, un sacrificio delle guarentigie e del diritto di difesa dell’imputato.

In secondo luogo, sarà analizzato, infine, l’art. 581 c.p.p., che fissa contenuto e requisiti di ammissibilità del nuovo atto di appello (quindi, forma e sostanza che l’impugnazione deve presentare per superare il filtro e consentire la valida instaurazione del giudizio di merito di secondo grado e la corretta costituzione del rapporto processuale in tale fase), in modo da comprendere se la rafforzata specificità prevista dalla L. n° 103/2017 che deve caratterizzare tale atto processuale sia soltanto un’espressione vuota e ridondante e tautologica – con la quale si sia soltanto voluto, ed inteso, ribadire il concetto che l’appello deve essere specifico, in tutti i suoi motivi, perché senza specificazione non c’è devoluzione, cioè riaffermare l’ovvio e scoprire l’acqua calda – oppure sia, nelle intenzioni del Legislatore, o possa essere in futuro interpretata come un tentativo di alzare l’asticella della inammissibilità facendola operare come filtro destinato ad operare a monte, che consentirà alle Corti di Appello, interpretando in modo letterale la norma, di procedere in camera di consiglio a dichiarare inammissibili le impugnazioni proposte dalla difesa degli imputati e di impedire così l’operatività e la maturazione di cause di estinzione del reato come la prescrizione nel grado di appello, eliminando, di fatto, il doppio grado di giudizio di merito (salvo il ricorso per Cassazione da parte dell’imputato, il cui accoglimento da parte della Suprema Corte – tenendo presente però l’insegnamento delle Sezioni Unite, con sentenza 22 febbraio 2017 n. 8825 – costituirebbe l’unico modo di recuperare il grado di merito, altrimenti perduto) e rispondendo a precise e pressanti istanze di deflazione del contenzioso che verrebbe pesantemente tagliato, ed introducendo, così, un nuovo giudizio di appello che – oltre ad essere già di natura cartolare – sarebbe anche non partecipato, con un’inevitabile e ingiusta compressione del diritto di difesa dell’imputato in tale fase e grado e una lesione del principio del contraddittorio.

Le modifiche oggetto di analisi riguardano, dunque, soltanto due articoli e potrebbero sembrare, almeno in apparenza, abbastanza circoscritte.

Tuttavia, come si può agevolmente comprendere, si tratta di interventi che toccano, invece, nel profondo, il corretto funzionamento del processo penale, e che attengono alla “giustizia” intrinseca ed estrinseca del nostro sistema processuale accusatorio, cioè la motivazione posta a fondamento della decisione del giudice penale (primaria garanzia dell’imputato) e la rilevabilità dell’errore giudiziario e la possibilità di una sua correzione dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale, superiore a quello che ha emesso la pronuncia di primo grado, in grado successivo, da parte dell’imputato che contesti la correttezza e giustizia delle conclusioni raggiunte dal primo giudice e che può chiedere l’eliminazione dell’errore verificatosi o il riconoscimento del ragionevole dubbio emerso nel processo soltanto mediante la predisposizione di una valida, ed ammissibile, impugnazione di merito contro la decisione (atto di appello).

Sono temi, che anche se non suscitano clamore mediatico o frenesia nell’opinione pubblica, da non sottovalutare e che meritano, invece, un’attenta ed approfondita analisi, perché è sulle garanzie difensive ed i controlli che si misura l’efficienza e la giustizia di un modello processuale penale, che non solo deve presentarsi (o aspirare ad essere) equo, ma che deve anche esserlo sostanzialmente nella realtà quotidiana e nella sua applicazione pratica, garantendo una giusta decisione, aderente ai fatti che sia finalizzata alla ricerca della verità e quanto più possibile vicina ad essa, al cittadino ed, anche, all’imputato la possibilità di emendare/far correggere gli errori che eventualmente dovessero essersi verificati nel processo decisionale del giudice che, anche se chiamato ad esprimersi e giudicare (compito improbo a volte e terribile in altri casi, ma indispensabile e necessario nella società civile), non è infallibile ed è pur sempre un uomo e, come tale, soggetto inevitabilmente a commettere errori.

Avendo fissato l’ambito ed i limiti dell’analisi, non resta, adesso, che iniziare, partendo proprio dalla motivazione della sentenza.

 

Il nuovo art. 546 comma 1 lett. E) C.P.P.

LA NUOVA STRUTTURA DELLA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA PENALE – LA “CONCISA ESPOSIZIONE DEI MOTIVI DI FATTO E DI DIRITTO SU CUI LA DECISIONE E’ FONDATA” – EQUIPARAZIONE TRA PROVVEDIMENTO DECISORIO DEL GIUDIZIO PENALE E DEL PROCESSO CIVILE – LA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA PENALE COME GARANZIA DELL’IMPUTATO E DI UN PROCESSO “GIUSTO” – PROVE TECNICHE DI OMOLOGAZIONE FORZATA TRA SISTEMI PROCESSUALI DIVERSI E NON ASSIMILABILI – UN REALE “RAFFORZAMENTO DELLE GARANZIE DIFENSIVE” O UNA RINUNCIA, SENZA SE E SENZA MA, ALLA COMPLETEZZA DELL’ACCERTAMENTO DEI FATTI NEL PROCESSO PENALE ?

La Legge n° 103/2017 ha inciso sulla struttura e sul contenuto della motivazione della sentenza, riformulando il testo dell’art. 546, comma 1, lett. e), c.p.p., e sostituendolo integralmente.

Per meglio comprendere il significato e la portata della modifica, occorre partire dal testo dell’articolo previgente, che recita (fino al 03.08.2017, data di entrata in vigore della Legge di Riforma, a partire dalla quale la nuova disposizione troverà applicazione, per le pronunce emesse successivamente a tale data, in forza del principio del tempus regit actum) e stabilisce che la sentenza contiene: “… la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione delle prove poste a base della decisione stessa e l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie”.

Il nuovo testo dell’art. 546 comma 1 lett. e) c.p.p. presenta, invece, accanto ad un nucleo comune (viene ribadita la concisione che deve caratterizzare anche la motivazione sentenza penale, espressione e concezione mutuata dal processo civile, ex art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c.), alcune significative differenze rispetto alla formulazione originaria.

Il novellato articolo 546, comma 1, lett. e), c.p.p., infatti, abbandona la tradizionale bipartizione della motivazione della sentenza (contenuta nella precedente formulazione), secondo la quale la sentenza doveva avere un contenuto positivo – indicando le ragioni della attendibilità delle prove c.d. “a carico” – ed anche uno negativo – nel senso che deve enunciare le ragioni per le quali il giudice ritiene inattendibili le prove c.d. “a discarico”, a pena di nullità della relativa sentenza, a mente dell’art. 125, comma 3, c.p.p., in relazione all’art. 111 Cost.

Si trattava di una distinzione che valorizzava la completezza della motivazione e dell’accertamento della responsabilità penale, tendente a garantire maggiore affidabilità ed autorevolezza alla decisione (perché doveva spingersi a confutare anche le prove addotte a discarico, motivando espressamente sul punto, superando ed escludendo il “ragionevole dubbio”, indotto eventualmente dalla difesa dell’imputato a sostegno della richiesta di assoluzione) e ad assicurare, così, che la sentenza fosse la rappresentazione, l’epilogo naturale, di un processo “giusto”, nel quale il giudice deve emanare una pronuncia aderente ai fatti e alle risultanze processuali dopo aver attentamente ed accuratamente vagliato i contributi probatori offerti dalle parti e le prove formatesi in contraddittorio.

La ratio della disposizione era (ed è) evidente: la motivazione deve essere doppia, in quanto se le prove a carico sono convincenti ma altrettanto (e forse di più) lo sono anche quelle a difesa, siamo di fronte ad un dubbio ragionevole.

Un dubbio non ipotetico e fantastico – ma ragionevole – che non consente di superare il canone decisorio previsto per l’affermazione della penale responsabilità dell’art. 533 c.p.p.

Un dubbio per il quale si può – e si deve – assolvere l’imputato.

La motivazione della sentenza doveva consentire, dunque (da qui la richiesta, e necessità, impellente di una motivazione duplice, completa, sia in positivo che negativo), di risolvere o di eliminare il dubbio ragionevole e permettere, così, di stabilire la penale responsabilità con certezza irrogando la pena prevista.

Così si potevano evitare errori e condanne ingiuste, meritevoli di correzione in appello, rendendo la pronuncia “giusta” (oltre che socialmente più accettabile e sostenibile per l’imputato ed il cittadino/consociato in generale) e, al contempo, deflazionando il rimedio dell’appello, rendendolo necessario soltanto in caso di omessa e/o erronea valutazione delle prove contrarie rispetto all’ipotesi e alle prove d’accusa.

Il nuovo art. 546 comma 1 lett. e) c.p.p. non prevede, più, appunto tale distinzione, a garanzia della completezza dell’accertamento e, dunque, della giustizia, in sé, della decisione.

La futura sentenza penale non dovrà, infatti, fare riferimento “alle prove poste alla base della decisione stessa” (rispetto alle quali le prove contrarie non possono che essere quelle a discarico, ndr.), ma contenere “l’indicazione dei risultati acquisiti e dei criteri di valutazione della prova adottati”.

Tale formulazione ricalca, in modo pedissequo, il testo dell’art. 192, comma 1 c.p.p., che esprime il principio del libero convincimento del giudice, che è chiamato a valutare le prove dando conto dei risultati acquisiti e dei criteri utilizzati.

Viene da chiedersi allora se questa “interpolazione” abbia un significato davvero innovativo (o meno) ed, in caso positivo, che cosa significhi la sua introduzione nel testo della norma (si usa il verbo introdurre per modo di dire – in realtà impropriamente – perché l’art. 192 comma 1 c.p.p. c’era già prima della riforma e, quindi, il libero convincimento non è un qualcosa di nuovo, ma un dato acquisito e pacifico, che il giudice penale è da sempre chiamato ad esercitare ed esprimere sul materiale probatorio raccolto davanti a lui in adempimento dell’obbligo di motivazione su di lui gravante, ex art. 111, VI° co., Cost…).

L’impressione dell’autore è che si sia voluto spostare l’attenzione dal lato oggettivo (la motivazione indica le prove poste alla base della motivazione e, quindi, la sostanza ed il contenuto delle prove), a quello soggettivo, di espressione ed esercizio del libero convincimento del giudice, che verrebbe ad essere, così, ulteriormente rafforzato ed aumentato.

Se così fosse, si avrebbe un impoverimento della motivazione della sentenza, che si tradurrebbe nel momento finale del processo nel quale il giudice indica i risultati acquisiti (come se fosse un contabile del processo e li esponesse come un annunciatore televisivo, raccontandoli piuttosto che motivando, che è un’operazione assai più complessa e presuppone un’analisi delle risultanze non meramente espositiva, ma critica e ragionata) e li espone indicando come ha valutato il materiale, facendo dipendere la decisione finale dall’espressione del proprio libero convincimento sul materiale raccolto, spinto al suo massimo.

In realtà, analizzando meglio la norma, questa si rivela una prima impressione, forse frettolosa e errata, frutto di un’eccessiva attenzione alle parole ed ai termini giuridici usati (che invero il Legislatore maneggia con una certa disinvoltura e leggerezza).

Guardando meglio, nulla sembra essere davvero cambiato.

L’introduzione della “indicazione dei risultati acquisiti e dei criteri di valutazione della prova adottati” è un semplice rafforzativo, un pleonasmo, che si è voluto inserire a forza ma si appalesa del tutto inutile; non ha altro scopo che ribadire il libero convincimento del giudice nella valutazione della prova, che però, pur essendo discrezionale, non può mai essere “sganciato” dall’espressione ed indicazione dei criteri di valutazione della prova adottati e, quindi,  da una motivazione, che può essere pertanto sempre essere sottoposta allo scrutinio e ad un controllo volto a verificare e controllarne la adeguatezza, coerenza e logicità.

E se è scomparsa la tradizionale distinzione tra motivazione in positivo e negativo (ma la nuova formula pare equivalente, ed anche, più generica in quanto con l’espressione “risultati acquisiti” non si differenzia le risultanze probatorie in base alla loro provenienza, dalla parte pubblica o dalla difesa, risultando dunque più neutra), rimane inalterato l’obbligo di motivazione sull’inattendibilità delle prove c.d. “a discarico”.

Ciò consente di escludere, in concreto, un vulnus al diritto di difesa, considerato che, anche con il nuovo art. 546 comma 1 lett. e) c.p.p., la sentenza che sia priva di motivazione sulle prove a discarico continuerà ad essere nulla, ai sensi dell’art. 125 comma 3 c.p.p., e che tale vizio, dunque, potrà essere riproposto e fatto valere anche nel giudizio di legittimità, ex art. 606, comma 1, lett. d) ed e) c.p.p.

L’osservazione che può essere fatta, invece, dall’analisi del testo della norma, è che il Legislatore “riformatore” abbia inteso equiparare ed accomunare, sempre di più, la sentenza penale a quella civile, omologando a forza i due sistemi processuali, in realtà diversissimi e che tutelano differenti interessi e beni giuridici.

Tale conclusione (peraltro ovvia), si ricava dal fatto che l’espressione “concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione” ricalca – pedissequamente – l’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., che stabilisce il contenuto della motivazione della sentenza civile.

Altro indicatore della voluntas legis di equiparare i due modelli processuali, processo penale e civile, avvicinandoli sempre di più, è che si sia usata una puntuazione, per la verità superflua, delle circostanze di cui il giudice deve tener conto per adempiere all’obbligo di motivare l’inattendibilità delle prove contrarie, nella specie ai punti 1, 2, 3 e 4.

E’ un elenco pignolo, da lista della spesa, che appare del tutto inutile (sostenere che, quando il giudice è chiamato a confutare l’attendibilità delle prove a discarico, la motivazione debba riguardare le circostanze relative all’accertamento dei fatti di cui all’imputazione, alla loro qualificazione giuridica, alla punibilità e alla determinazione della pena e della misura di sicurezza, alla responsabilità civile derivante dal reato, ai fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali stabilite a pena di nullità o inutilizzabilità, è del tutto ovvio e lapalissiano in quanto tali elementi costituiscono già oggetto di prova ex art. 187 c.p.p. e non si vede pertanto come potrebbero essere pretermessi nella motivazione della sentenza penale oppure come potrebbe l’accertamento penale essere completo e la sentenza essere giusta –  e non nulla – se non se ne tenesse adeguatamente conto…), ma che però ricorda molto i capitoli di prova formulati nel processo civile.

Il Legislatore della riforma vuole, evidentemente, uniformare i due modelli processuali, civile e penale, omologandoli ed assimilandoli in una sua visione processuale “unitaria”, e tale processo già iniziato è ancora in corso.

L’omologazione però può avvenire tra cose e sistemi simili – ad avviso dell’autore – e non deve essere forzata, altrimenti, come si suol dire, “si generano mostri”.

Un’assimilazione del processo penale – e della motivazione della sentenza – al processo civile non è neppure auspicabile in concreto.

Infatti, il processo civile è un processo tra parti private nel quale le prove sono nella loro disponibilità e che dipende dalla loro iniziativa o attività nell’assolvere l’onere probatorio su di loro gravante (art. 2697 c.c.); tale processo non tende (e non ha come fine ultimo) la ricerca della verità, ma soltanto la ragionevole probabilità della fondatezza della domanda, che ne determina l’accoglimento entro i limiti della richiesta di parte, e si caratterizza per la presenza di filtri e limitazioni all’appello.

Il processo penale accusatorio, invece, non è rimesso completamente nelle mani delle parti, pur assicurando che le prove siano formate in contraddittorio tra di loro e dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale chiamato a valutarle e decidere, che potrà esercitare poteri ufficiosi non per supplire alle lacune o all’inerzia dell’una o dell’altra parte ma per ricercare la verità ed emettere una decisione al di là di ogni ragionevole dubbio quando la pena responsabilità dell’imputato sia certa (e non solo probabile) e si debba irrogare una pena per la violazione commessa, essendo in gioco – in tale processo – il bene fondamentale e più prezioso per l’individuo, la libertà personale.

Tali modelli processuali non potrebbero essere più diversi tra di loro ed un’assimilazione del processo penale a quello civile (per l’importanza e la rilevanza anche costituzione degli interessi in gioco e del bene protetto, la libertà personale dell’accusato, che si può limitare soltanto in casi e modi previsti dalla legge e con il rispetto di ben precise garanzie) non è per niente auspicabile perché equivarrebbe a realizzare una permuta ed uno scambio tra cose di diverso valore; una Mercedes (il processo penale) per una Fiat Panda (il processo civile).

Già la previsione di una “concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto della decisione” per la motivazione della sentenza penale (come quella civile) costituisce un vulnus alla completezza dell’accertamento penale e della decisione, che deve, invece, essere esaustivo ed aderente ai fatti e alle risultanze processuali, in modo che la sentenza sia “giusta” rappresentando il naturale epilogo del processo accusatorio.

E questo perché la motivazione della sentenza penale non deve (o meglio non dovrebbe) avere un’aggettivazione in termini di estensione, ma solo esserci (semmai l’unica qualifica che potrebbe avere dovrebbe essere “adeguata”), perché, in caso di mancanza, il provvedimento è nullo, ex art. 125 comma 3 cpp, in relazione all’art. 111 VI° co. Cost.

Ma questa è l’unica concessione che può essere ragionevolmente fatta se si vuole mantenere un processo penale giusto, senza ulteriori sconfinamenti nel processo civile che costituirebbero – ed implicherebbero – inevitabilmente una perdita ed un arretramento sul piano delle garanzie e guarentigie difensive.

Sotto questo profilo, la riforma non determina alcuna modifica sostanziale al contenuto della motivazione della sentenza penale, che rimane invariata nella sua funzione e valore di garanzia per l’imputato e, in generale, per il cittadino, il cui corretto esercizio potrà essere sindacato e verificato ampiamente in sede di appello per controllare legittimità e coerenza della sentenza e rimuovere eventuali errori giudiziari.

Esaurita l’analisi del nuovo (si fa per dire) art. 546 comma 1 lett. e c.p.p., occorre adesso passare ad esaminare le modifiche in materia di forma dell’impugnazione.

 

Il nuovo atto di appello (art. 581 C.P.P.)

IL RAFFORZAMENTO DELLA SPECIFICITA’ E DEL MECCANISMO DEVOLUTIVO DELL’IMPUGNAZIONE – IL FILTRO DI PREVENTIVO AMMISSIBILITA’ DELL’APPELLO COME RIMEDIO PER LA DEFINIZIONE DELL’ARRETRATO E PER IL SODDISFACIMENTO DELLE ISTANZE DI DEFLAZIONE DEL CONTENZIOSO – VERSO UN GIUDIZIO CARTOLARE DI APPELLO ED ANCHE NON PARTECIPATO ? – IL RUOLO DEL DIFENSORE NELLA REDAZIONE DELL’ATTO DI APPELLO ED IL SUO CONTENUTO – QUALI LE PROSPETTIVE DI CONCRETO ESERCIZIO DEI DIRITTI DELL’IMPUTATO NEL NUOVO PROCEDIMENTO DI GRAVAME ?

La Legge n° 103/2017 ha apportato modifiche, anche, al testo dell’art. 581 c.p.p., sulla forma dell’impugnazione.

Nella norma di nuovo conio risulta indubbiamente rafforzato il concetto di specificità che deve presentare l’appello.

La specificità deve caratterizzare a pena di inammissibilità dell’impugnazione tutti gli elementi essenziali dell’atto, per consentire la valida e regolare instaurazione del contraddittorio e del rapporto processuale nel giudizio di appello.

L’art. 581 c.p.p. prevede, infatti, l’enunciazione specifica, a pena di inammissibilità: “a) dei capi o dei punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione; b) delle prove delle quali si deduce l’inesistenza, l’omessa assunzione o l’omessa o erronea valutazione; c) delle richieste, anche istruttorie; d) dei motivi, con l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta”.

Il fatto che il concetto di specificità si riferisca a tutti gli elementi essenziali dell’atto – a pena di inammissibilità – non sembra, nel caso di specie, una svista o un’inutile ripetizione testuale (evitabile con l’utilizzo di una tecnica legislativa maggiormente raffinata ed evoluta).

Si è inteso, dunque, affermare (o, comunque, aprire la strada per una futura interpretazione giurisprudenziale della norma secondo il suo significato letterale, nel senso di una valutazione più pregnante ed incisiva del requisito della specificità delle impugnazioni penali) che l’atto è ammissibile non solo se non si risolve in una generica censura alle argomentazioni contenute nella sentenza di primo ma anche, e soltanto, se consiste in una critica specifica e precisa, in tutte le sue articolazioni necessarie, alle statuizioni della sentenza impugnata.

Partendo dal principio devolutivo dell’appello – senza specificazione non c’è devoluzione, nel senso che se la contestazione contenuta nell’appello è generica non può devolversi al giudice del gravame la possibilità di decidere sul capo o punto impugnato della sentenza, impedendosi la valida e regolare costituzione del rapporto processuale – l’art. 581 c.p.p. sembra aver voluto chiaramente estendere il requisito della specificità dai motivi agli altri elementi essenziali dell’atto richiesti a pena di inammissibilità e che devono essere contenuti nell’appello.

La via è aperta per l’applicazione di un filtro preventivo di ammissibilità delle impugnazioni penali, ben più stringente e rigoroso rispetto a quello odierno, a maglie molto più larghe e che lascia passare anche appelli alquanto generici e meramente ripropositivi di censure già respinte in modo argomentato e convincente al primo giudice, anche in virtù di una malintesa accezione del principio del favor impugnationis.

Tutto dipenderà, naturalmente, dall’interpretazione (restrittiva o permissiva) della norma di cui all’art. 581 c.p.p. che si intenderà seguire ed applicare nelle Corti Distrettuali.

Ad esempio, sarà ritenuto ammissibile un appello che non contenga un’enunciazione specifica dei capi o punti della sentenza impugnata, ma solo una critica e censura motivata della sentenza impugnata? O soccorrerà un’interpretazione e valutazione dell’atto, letto nel suo complesso (per giungere a stabilire che soddisfi i requisiti per la valida costituzione del rapporto processuale in appello)?

Sarà considerato idoneo un appello che censuri la sentenza di primo grado, indicando motivi di diritto ed elementi di fatto a sostegno, ma che non formuli richeste, anche istruttorie (un atto che non concluda, per esempio, è ammissibile?)?

Sarà ammissibile, infine, un atto con un motivo che non contenga l’enunciazione specifica delle prove di cui si contesta la mancanza, l’omessa o l’erronea valutazione, ma che, ad esempio, si limiti a riassumere il contenuto delle disposizioni senza fare riferimento alla verbalizzazione delle deposizioni ed alle fonoregistrazioni o senza allegare i verbali di prova del cui contenuto si contesti l’omessa valutazione o il travisamento? A questo proposito, sarà interessante cercare di comprendere che cosa si vuole – e fino a dove sia legittimo spingersi, nel giudizio di specificità – per ritenere assolto l’onere di enunciazione gravante sull’appellante; se, ad esempio, basti il richiamo al contenuto/sostanza del verbale di prova travisato o la cui considerazione sia stata omessa, oppure se, invece, occorra riportarne pedissequamente il contenuto o addirittura allegare l’atto processuale, finendo, dunque, per imporre, più che la specificità, il rispetto del principio di autosufficienza anche in appello.

Al di là dei problemi applicativi che si porranno (e delle possibili applicazioni della norma de qua contra reum), una conclusione può sicuramente trarsi senza timore di smentita.

Il Legislatore della riforma (ma anche la Cassazione Sezioni Unite, con la sentenza 22 febbraio 2017 n. 8825, analizzando il DDL Orlando/D’Ascola/Ferranti e le intenzioni del legislatore “riformatore”, è pervenuta a tale conclusione) ha ritenuto che l’atto di appello ed il ricorso per cassazione debbano avere un contenuto ed una struttura comune e sostanzialmente assimilabile (al di là delle differenze dei rispetti giudizi che ancora permangono, e non potrebbe essere altrimenti).

Partendo da una simile premessa, l’applicazione del nuovo art. 581 c.p.p. non potrà che essere improntata a maggior rigore nella valutazione del requisito della specificità e, quindi, della ammissibilità dell’impugnazione.

Le conseguenze pratiche non sono di poco conto.

Le Corti d’appello, facendo leva sulla necessità di enunciazione specifica che deve caratterizzare gli elementi essenziali dell’appello, potrebbero dichiarare inammissibili tutti, o gran parte, gli atti di appello che non rispettino tali stringenti requisiti ed indicazioni, PROCEDENDO D’UFFICIO CON ORDINANZA IN CAMERA DI CONSIGLIO NON PARTECIPATA, EX ART. 591 C.P.P., ED ORDINANDO L’ESECUZIONE DELLA SENTENZA IMPUGNATA (è evidente che, per fare questo, presso ogni Corte d’appello prima dovrebbe essere costituita una Sezione ad hoc incaricata espressamente di operare tale filtro e controllo preventivo di ammissibilità, un po’ come la Sezione VII della Cassazione).

A quel punto, il giudizio di appello – già di natura cartolare, in cui l’espletamento di attività istruttoria riveste carattere eccezionale – sarebbe privato anche della partecipazione del difensore dell’imputato.

Quest’ultimo – e l’imputato – riceverebbero soltanto (ma successivamente) la notifica dell’ordinanza dichiarativa dell’inammissibilità, potendo disporre dei soli termini per proporre ricorso per Cassazione avverso la pronuncia ed avendo già perso il secondo grado del giudizio di merito (che potrebbe essere “recuperato” soltanto con un accoglimento del ricorso e in caso di annullamento con rinvio da parte della Suprema Corte).

Il filtro e controllo stringente di ammissibilità – in via preventiva – degli appelli permetterebbe di tagliare, a monte, il contenzioso penale in appello e di evitare sopravvenienze (limitando le trattazioni agli appelli ritenuti sufficientemente specifici), rispondendo a precise e pressanti esigenze ed istanze di deflazione; consentirebbe, anche, di scongiurare la maturazione di cause di estinzione del reato come la prescrizione (invero assai frequente), in tale fase e grado.

Queste potrebbero essere alcune delle conseguenze, in malam partem, di un’interpretazione letterale rigorosa del nuovo art. 581 c.p.p., che potrebbe farlo assurgere ad un vero e proprio filtro di ammissibilità delle impugnazioni penali destinato ad operare come nel processo civile.

Essa, però, deve essere evitata perché si rivelerebbe lesiva del diritto di difesa dell’imputato e del principio del favor impugnationis, laddove – invece – il requisito di specificità deve essere inteso non come filtro preventivo e forma di dissuasione dall’impugnazione, ma come contenuto minimo (da interpretare in bonam partem) che deve possedere l’atto ed è normativamente fissato per garantire la corretta e valida instaurazione del contraddittorio.

A questo punto, appare possibile rassegnare delle conclusioni, assolutamente provvisorie, sul contenuto della riforma oggetto di commento.

 

Conclusioni

Le conclusioni che possono trarsi, dall’analisi delle norme in commento, sono sostanzialmente neutre, per quanto riguarda la motivazione della sentenza penale.

Al di là, infatti, della formulazione legislativa non proprio felice (un ‘copia ed incolla’ in parte dell’art. 192 comma 1 c.p.p.; in parte, una puntualizzazione ed elenco delle circostanze su cui è imposto l’obbligo di motivare in negativo eccessivamente pedante e in buona misura superfluo) dell’art. 546 comma 1 lett. e) cpp, il contenuto e la sostanza della motivazione della sentenza non è mutato e neppure il suo valore e funzione di “garanzia” per l’imputato.

Il “verdetto” (ci venga passato l’utilizzo di questo termine, quanto mai calzante, nel caso di specie) è, invece, negativo per le modifiche apportate all’art. 581 c.p.p.

Il rafforzamento della specificità –  estesa a tutti gli elementi essenziali dell’appello – può portare (se interpretato in modo eccessivamente rigido e rigoroso, quasi granitico) alla declaratoria di inammissibilità di molti, o gran parte, degli appelli penali, operando come filtro in via preventiva, trasformando il giudizio di appello in un procedimento oltre che cartolare anche non partecipato, nel quale non c’è contraddittorio con la difesa (se non differito, soltanto in Cassazione) sul merito della impugnazione.

Le istanze di deflazione (pur comprensibili e sempre più pressanti) non possono essere risolte in questo modo, privando l’imputato del secondo grado di giudizio di merito e della possibilità di partecipare al giudizio in forma partecipata e di assistere al procedimento che lo riguarda prima che sia adottata la decisione finale.

Neppure l’esigenza di evitare la maturazione di cause di estinzione del reato (come la prescrizione), in appello, può giustificare una simile compressione del diritto di difesa dell’imputato, che ha diritto a partecipare all’udienza relativa al procedimento penale che lo riguarda ed al giudizio d’impugnazione esercitando in modo concreto ed effettivo il proprio diritto di difesa (tutelato in ogni fase e grado ex art. 24 Cost.), non dovendosi dimenticare la delicatezza della fase di appello e la sua finalità di correggere/eliminare errori giudiziari eventualmente compiuti, pur nella massima e completa buona fede, nel primo grado di giudizio, che risponde allo scopo di evitare una condanna ingiusta per l’imputato che l’abbia subita ed abbia visto pregiudicati i propri diritti (e che ha indiscutibilmente il diritto al ripristino del proprio onore e reputazione, inevitabilmente e negativamente incisi dalla ingiusta o errata sentenza di condanna di primo grado).

Altrimenti, se il nuovo art. 581 c.p.p. venisse usato come filtro per rilevare l’inammissibilità delle impugnazioni penali, per le ragioni sopra indicate (di deflazione), sarebbe come se, per garantire cure migliori ai malati, si limitasse l’accesso ai pazienti facendo selezione all’ingresso per ridurre il numero.

Così facendo però non si risolvono i problemi o si correggono gli errori; si ignora il ragionevole dubbio nascondendolo sotto il tappeto senza superarlo ed affrontarlo, in danno dell’imputato e del suo diritto alla presunzione di innocenza ed a un processo giusto.

Questo non può – e non deve avvenire – costituendo un inaccettabile ed ulteriore sconfinamento sul piano delle garanzie, ma anche un inequivocabile segnale di resa del nostro sistema processuale di fronte ad esigenze utilitaristiche e statistiche.

 

Poggibonsi/Siena, lì 21.07.2017

Avv. Dainelli Riccardo

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