L’abuso dello strumento del reclamo avverso la sentenza di fallimento
L’art. 18 del R.D. 267/1942 consente a chiunque ne abbia interesse di proporre reclamo dinanzi alla Corte d’Appello avverso la sentenza di fallimento emessa all’esito del procedimento di cui all’art. 15 del R.D. cit..
Ebbene, quando a fallire è una società di capitali, spesso si assiste ad un uso distorto di tale mezzo di impugnazione, con conseguente conferma della sentenza di fallimento ed ingiusto incremento dello stato passivo per un importo pari ai compensi professionali del difensore a cui la curatela ha dato mandato di rappresentanza e difesa in giudizio.
Il punto è, all’esito del reclamo, in caso di conferma della sentenza di fallimento, può in qualche modo ottenersi la condanna del legale rappresentante – che di fatto ha proposto la domanda giudiziale – al pagamento delle spese di lite?
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Il processo cautelare
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Andrea Sirotti Gaudenzi (a cura di), Dario Lupo | 2020 Maggioli Editore
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Distinzione: società di persone, società di capitali
Al riguardo è opportuno innanzitutto chiarire che tale problematica non affligge i reclami proposti avverso il fallimento di società di persone. Infatti, laddove il fallimento riguardi una società di persone, il reclamo avverso la relativa sentenza può essere proposto dai soci nella loro qualità di legali rappresentanti della società e/o dai soci in proprio (in quanto dichiarati a loro volta falliti e comunque perché illimitatamente responsabili con al società per le obbligazioni da questa assunte quando era in bonis). Con la sentenza di rigetto la Corte d’Appello condannerà quindi la società in solido con i soci alla refusione delle spese di lite in favore della curatela fallimentare.
In tali casi, pertanto, la curatela potrà rivalersi verso i soci per le spese legali sostenute per l’attività difensiva costretta a svolgere, e quindi nulla quaestio.
Ben altro scenario è invece quello del fallimento che riguardi una società di capitali. Qui, infatti, il ricorso è necessariamente proposto dalla società (dichiarata fallita) in persona dei suoi legali rappresentanti, i quali continuano a godere dello scudo della responsabilità limitata. Ebbene, sovente accade che all’esito del reclamo le Corti d’Appello si limitino a disporre la compensazione delle spese di lite, ciò perché l’eventuale condanna della società, oltre che inutile, genererebbe un corto circuito per il quale la curatela non potrebbe che chiedere a se stessa il rimborso delle spese sostenute per l’attività difensiva. Non ci sono infatti soci illimitatamente responsabili verso cui agire, quindi la curatela della società Alfa non potrà che chiedere alla società Alfa di pagare quanto dovutole.
Ciò, oltre che assurdo, è peraltro impossibile che avvenga atteso che il credito derivante dalla condanna alle spese di lite, essendo successivo al fallimento, è sottratto al concorso e che quindi lo stesso potrebbe farsi valere contro il fallito solo ove questo tornasse in bonis. Tale circostanza non si verificherà mai, posto che all’esito della procedura concorsuale la società fallita sarà cancellata dal registro delle imprese con sua conseguente irreversibile estinzione.
E’ quindi evidente che questo espone la curatela ad azioni giudiziarie defatiganti (se non temerarie) e dannose per il ceto creditorio, che vedrà ridursi l’attivo fallimentare degli importi da corrispondere in prededuzione per l’attività di assistenza e rappresentanza in giudizio.
Può ottenersi la condanna del legale rappresentante al pagamento delle spese di lite?
In tali casi, può legittimamente ipotizzarsi la condanna al pagamento delle spese di lite del o dei legali rappresentanti reclamanti in nome della società?
Per rispondere a tale domanda, va illustrato che il legale rappresentante di società di capitali, in sede di opposizione alla sentenza di fallimento non agisce a tutela della società, ma esclusivamente nel proprio personale interesse in relazione agli effetti del fallimento nei suoi confronti, “essendo l’opposizione volta a rimuovere gli effetti riflessi – ovvero, responsabilità in sede penale/civile e restrizioni ex art. 49, in relazione all’art. 146 L.F.– che possono derivare a danno di lui dal fallimento”[1]. E’ dunque ragionevole che questi, in quanto soccombente, sopporti le spese sostenute dalla controparte costituita che ha costretto inutilmente a difendersi, spese che altrimenti non sarebbero recuperabili[2].
La condanna può disporsi anche ex art. 94 c.p.c.
Peraltro, la condanna in proprio del legale rappresentante che ha agito in giudizio può essere altresì giustificata dall’art. 94 c.p.c., il quale contempla la condanna alle spese di lite nei confronti dell’avversario vincitore non solo della parte (soccombente) rappresentata, ma anche del soggetto che la rappresenti (e, quindi, come nella specie, anche dell’amministratore di una società), ciò in quanto quest’ultimo, “pur non assumendo la veste di parte nel processo, esplica purtuttavia, anche se in nome altrui, un’attività processuale in maniera autonoma, conseguendone l’operatività del principio della soccombenza”[3].
Secondo il dettato dell’art. 94 c.p.c., tale condanna postula tuttavia la ricorrenza di gravi motivi che spetta al giudice individuare e che consistono nella violazione del dovere di lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c., ovvero nella mancanza della normale prudenza processuale che caratterizza la responsabilità processuale aggravata di cui all’art. 96, co. 2, c.p.c.. Peraltro, mentre la condanna ex art. 96, co. 2 c.p.c. può conseguire solo da una espressa richiesta avanzata dalla parte, l’operatività del disposto dell’art. 94 c.p.c. prescinde da tale impulso di parte e può anche essere disposta d’ufficio dal giudice purché, come detto, sussistano i gravi motivi che la norma richiede.
In proposito, non può non evidenziarsi che la violazione del dovere di lealtà e probità che integra i gravi motivi ex art. 94 c.p.c. è rinvenibile nella imprudente valutazione da parte dell’attore dei possibili esiti della controversia e, conseguentemente, nel danno che la stessa ha provocato alla parte resistente, ovvero il pagamento di inutili ed evitabili esborsi[4].
Il raddoppio del contributo unificato
Oltre che al pagamento delle spese di lite, il legale rappresentante che ha proposto reclamo avverso la sentenza che ha dichiarato il fallimento della propria società, in caso di rigetto può essere altresì condannato al pagamento di un ulteriore importo pari a quello già corrisposto per la proposizione del ricorso.
Sussistono infatti i presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, in virtù del quale in caso di integrale rigetto o declaratoria di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.
Conclusione
Tanto chiarito, può concludersi che nei casi di rigetto di reclami ex art. 18 L.F. proposti da società di capitali, sarà legittimo chiedere ed attendersi la condanna del legale rappresentante che ha agito in giudizio al pagamento delle spese di lite in solido con la società da lui rappresentata.
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[1] Cfr. Cass. 9491/2002.
[2] Ex plurimis Corte d’Appello di Firenze sent. n. 2351/2019; Corte d’Appello di Firenze, sent. n. 2744/2018; Corte d’Appello di Firenze sent n. 2582/2017; Corte d’Appello di Firenze sent. n. 2157/2015.
[3] Corte d’Appello di Firenze sent. cit.; Cass. 20878/2010
[4]Corte d’Appello di Firenze sent. n. 2351/2019.
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