Rilascio e revoca del certificato di titolo esecutivo europeo ed esecuzione forzata in Italia delle decisioni secondo il Regolamento n. 805/2004 – Prima parte

Redazione 18/11/19
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di Marco Farina*

* Professore a contratto di Diritto Processuale Civile presso l’Università LUISS di Roma

Sommario

1. La competenza per il rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo

2. Il procedimento di rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo nel Reg. 805/2004

3. La revoca del certificato di titolo esecutivo europeo. Premesse generali.

4. La revoca del certificato di titolo esecutivo europeo. I motivi che possono essere fatti valere con l’istanza di revoca.

5. La revoca del certificato di titolo esecutivo europeo. Natura e forma del procedimento.

6. La revoca del certificato di titolo esecutivo europeo. L’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione.

1. La competenza per il rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo

Dal punto di vista procedimentale, la disciplina dettata dal Reg. 805/2004 per il rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo è assai lacunosa. In relazione all’organo deputato a rilasciare il certificato si prevede che esso coincida con «il giudice o organo giurisdizionale incaricato del procedimento nel momento in cui ricorrono le condizioni di cui all’art. 3, paragrafo 1, lettere a), b) o c)». Tale conclusione deriva dal combinato disposto degli articoli 6, paragrafo 1, del regolamento in esame – il quale, infatti, prevede, che «una decisione giudiziaria relativa ad un credito non contestato pronunciata in uno Stato membro è certificata, su istanza presentata in qualunque momento al giudice di origine, come titolo esecutivo europeo» – e 4, paragrafo 6, il quale somministra la definizione di «giudice di origine» così come appena riportata nel precedente capoverso.

Non essendo stata dettata per l’Italia alcuna disposizione di attuazione è da ritenere che, nel nostro ordinamento, l’istanza per il rilascio del certificato vada non solo presentata al giudice incaricato del procedimento nel momento in cui si è verificata la singola fattispecie di non contestazione, ma da questi dovrà anche essere decisa. Per esemplificare, “competente” ad emettere il certificato di titolo esecutivo in relazione ad un decreto ingiuntivo divenuto definitivamente esecutivo per mancata opposizione sarà il giudice che ha emesso il provvedimento monitorio in quanto giudice cui è demandato il potere, una volta scaduto inutilmente il termine per proporre opposizione, di pronunciarsi sull’esecutività del decreto stesso e che per questo può dirsi incaricato del procedimento al momento in cui si è verificata la singola ipotesi di non contestazione prevista, in questo caso, dalla lettera b) dell’art. 3 (quindi anche il giudice di pace, relativamente ad un decreto ingiuntivo non opposto da questi emesso).

Una volta individuato l’organo che dovrà provvedere a rilasciare il certificato di titolo esecutivo europeo occorre soffermarsi sulle modalità necessarie a stimolare siffatta attività[1].

[1] Per la necessità che il rilascio del certificato debba spettare ad un organo giurisdizionale, non risolvendosi detta attività in una «mera certificazione amministrativa» v. Corte di Giustizia, 17 dicembre 2015, C-300/14, che distingue la decisione relativa alla certificazione – che è un provvedimento di natura giurisdizionale che deve essere riservata ad un giudice – dall’attività di rilascio del certificato (che può evidentemente essere rimessa al cancelliere) ed affermando conclusivamente che “la certificazione propriamente detta richiede un esame giurisdizionale delle condizioni previste dal regolamento 805/2004“; nello stesso senso già Trib. di Milano, 23 aprile 2008 (in Foro.it., 2009, 936, che aveva ritenuto invalido il rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo da parte del Cancelliere.

2. Il procedimento di rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo nel Reg. 805/2004

L’articolo 6 prevede esclusivamente che il certificato è rilasciato «su istanza presentata in qualunque momento». Le uniche indicazioni certe che si possono trarre dalla norma sono, da un lato, che è precluso al giudice di origine rilasciare il certificato ex officio, essendo al contrario necessaria un’apposita richiesta da parte del creditore in cui favore è stata emessa la decisione, dall’altro, che tale iniziativa del creditore non incontra preclusioni o decadenze di sorta potendo essere avanzata in qualsiasi momento, e quindi sia contestualmente alla richiesta di emissione del provvedimento destinato alla certificazione sia successivamente alla pronuncia dello stesso, e ciò in quanto il carattere transfrontaliero dell’esecuzione forzata della decisione non può, d’ordinario, essere sempre ravvisata giànel momento in cui il diritto di credito è giudizialmente fatto valere giudizialmente.

Per quanto riguarda le modalità di presentazione dell’istanza e, soprattutto, sulla necessità che di essa venga reso edotto il debitore al fine di permettergli di fare le sue osservazioni in merito alla ricorrenza dei requisiti previsti dall’art. 6 il regolamento tace del tutto cosicché spetta all’interprete tentare di ricostruire, su basi a dire il vero un po’ contraddittorie, la natura della certificazione di cui agli artt. 6 e 9 del regolamento in esame.

Il controllo che fa carico al giudice competente a rilasciare il certificato di titolo esecutivo europeo è, indubbiamente, ampio e penetrante dovendo egli verificare, in ordine alla decisione destinata alla certificazione negli auspici del creditore, se sussistono i requisiti previsti dall’art. 6, paragrafo 1, lettere a), b), c) e d). L’effetto che, poi, consegue al rilascio di un certificato di titolo esecutivo europeo in relazione ad una determinata decisione è quello, descritto nell’art. 5, di eliminare, da un lato, la necessità di qualsiasi procedimento intermedio nello Stato membro in cui si ha intenzione di eseguire forzatamente la decisione stessa e, dall’altro, di rendere incontestabilein qualsiasi Stato membro diverso da quello in cui la decisione è stata resa il riconoscimentodella decisione stessa.

In sostanza una volta emesso il certificato la situazione che si presenta in tutti gli Stati membriè uguale a quella che si presentava nel singolo Stato membro in cui fosse stata ottenuta una dichiarazione di esecutività di una decisione resa altrove ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 38 e ss. del regolamento 44/2001.

Vi era, perciò, un certo parallelismo (di effetti) tra la certificazionecome titolo esecutivo europeo di una decisione da parte del giudice dello Stato membro di origine e la dichiarazione di esecutività concessa secondo le pertinenti disposizioni del Regolamento n. 44/2001.

A nostro avviso tale parallelismo conduceva e conduce tuttora ad una ricostruzione del procedimento di certificazione che, tenendo conto sia del fatto che il rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo non è soggetto ad alcun mezzo di impugnazione (arg. ex art. 10, paragrafo 4, Reg. n. 805/2004), sia della circostanza che il regolamento prevede espressamente la possibilità per il debitore di instare per la revoca del certificato illegittimamente concesso (arg. ex art.10, paragrafo 1, lett. b, reg. 805/2004), può essere così sinteticamente delineata.

L’istanza volta ad ottenere la certificazione come titolo esecutivo europeo dà luogo ad un procedimento unilaterale al quale non può e non deve essere chiamato a partecipare anche il soggetto nei cui confronti la decisione da certificare è stata resa. In questa fase, l’organo deputato al rilascio del certificato verificherà la sussistenza o meno dei requisiti di cui all’art. 6, limitandosi, tuttavia, ad accertare in modo, diciamo così, provvisorio un vero e proprio effetto giuridico di natura schiettamente processuale, ossia l’automatica, uniforme ed incontestabile (salva, ovviamente, la revoca del certificato, su v. infra) vigenza dell’accertamento giudiziale e (o anche solo) del titolo esecutivo in tutti gli altri Stati membri. Il certificato di titolo esecutivo europeo, dunque, costituisce nulla più che una rappresentazione documentale dell’avvenuto accertamento di quell’effetto (o meglio, dell’avvenuto accertamento delle circostanze che giustificano la produzione di quell’effetto, ossia i requisiti di cui all’art. 6 Reg. n. 805/2004) ad opera del giudice d’origine.

Siffatta iniziale unilateralità del procedimento certificativo si giustifica poi, sul piano delle garanzie difensive del debitore, con la possibilità per quest’ultimo di chiedere la revoca del certificato di titolo esecutivo europeo quando esso risulti «manifestamente concesso per errore, tenuto conto dei requisiti stabiliti nel presente regolamento».

Così come nel cessato regime di Bruxelles I si assisteva ad una inversione dell’onere del contenzioso a carico del soggetto nei cui confronti era stata resa la decisione destinata alla circolazione infracomunitaria, allo stesso modo nel sistema del regolamento n. 805/2004 la possibilità concessa al debitore di chiedere la revoca del certificato rilasciato per errore, vale a dire senza che ne sussistano i presupposti, giustifica e, in qualche misura, impone la così ritenuta unilateralità del procedimento di certificazione in questa sua prima fase.

Insomma, a nostro avviso, il rilascio del certificato da parte del giudice dello stato membro di origine è assimilabile, mutato quel che vi è da mutare, alla dichiarazione di esecutività che era emessa inaudita altera parte dal giudice e/o dall’autorità competente dello stato membro di esecuzione e/o di riconoscimento secondo le pertinenti disposizioni dell’oramai abrogato reg. 44/2001, mentre la richiesta di revoca del certificato è assimilabile, anche qui mutatis mutandis, all’opposizione che il debitore era onerato di proporre nei casi in cui una decisione resa nei suoi confronti fosse stata dichiarata esecutiva ex art. 38 e ss. reg. n. 44/2001.

E non sono rilevanti, a nostro parere, per escludere la ritenuta unilateralità del procedimento di certificazione né la circostanza per cui il certificato di titolo esecutivo europeo può essere rilasciato solo dopo una verifica ufficiosa della sussistenza dei requisiti di cui all’art. 6, né la circostanza per cui il regolamento 805/2004 non prevede espressamente l’assenza di contraddittorio nell’iniziale fase di certificazione.

A tale ultimo proposito può infatti rilevarsi come l’iniziale unilateralità del procedimento deriva dalla riconosciuta possibilità per il debitore di proporre successivamente una domanda di revoca del certificato concesso inaudita altera parte, ossia di valersi di un rimedio giurisdizionale attraverso il quale si potrà liberamente contestare l’esistenza dei requisiti necessari affinché quel medesimo provvedimento possa essere concesso; se il debitore dovesse e potesse partecipare anche alla fase attinente il rilascio del certificato non si capirebbe, invero, il perché di questa ulteriore possibilità di difesa.

In altri termini può dirsi che la possibilità per il convenuto-debitore di instare per la revoca del certificato allorché questo sia stata rilasciato in assenza dei richiesti presupposti – ossia di agire giudizialmente per ottenere l’accertamento della mancata integrazione della fattispecie che consente l’incontestabile dispiegarsi dell’efficacia di accertamento ed esecutiva della decisione extra territorium judicantis – consente di “recuperare” la mancanza di contraddittorio nella fase relativa al rilascio del certificato rendendo così legittima la (limitata) compressione delle facoltà difensive del convenuto-debitore medesimo[2].

[2] In Germania l’unilateralità del procedimento relativo al rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo è stata sancita dal § 1080 Z.P.O. il quale prevede che la decisione sull’istanza presentata dal creditore sarà assunta “ohne Anhörung der Schuldners”, ossia senza che sia sentito il debitore.

3. La revoca del certificato di titolo esecutivo europeo. Premesse generali.

A questo punto è opportuno soffermarsi sulle forme e sull’oggetto del procedimento instaurato mediante l’istanza di revoca di cui all’art. 10, paragrafo 1, lett. b) del regolamento in esame.

A nostro parere per individuare l’oggetto del giudizio di revoca nonché le forme procedimentali che esso deve seguire non può non tenersi conto di quel parallelismo che abbiamo ritenuto di poter intravedere tra l’istanza di revoca del certificato di titolo esecutivo europeo ed il ricorso che il debitore era onerato di proporre ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 43 del regolamento 44/2001 contro la dichiarazione di esecutività emessa inaudita altera parte.

La precedente considerazione ci induce, infatti, a ritenere che l’istanza di revoca debba essere esaminata e decisa secondo le norme di un procedimento in contraddittorio – in cui, cioè, devono essere sentiti tanto il debitore istante quanto il creditore che ha ottenuto il rilascio del certificato- destinato a concludersi con una decisione che accerterà l'(in)esistenza di quella fattispecie, descritta nei suoi elementi costitutivi dall’art. 6 del reg. 805/2004 ed ulteriore rispetto alla mera esistenza e validità della decisione nello Stato membro di origine, idonea a produrre gli effetti, qualora formalmente attestatae documentalmente rappresentata nel certificato di titolo esecutivo europeo, di cui all’art. 5 del reg. 805/2004.

Sarebbe stato, pertanto, assai opportuno che il regolamento, anziché rimettere ai singoli diritti nazionali la disciplina delle modalità di svolgimento tanto del procedimento relativo al rilascio del certificato, quanto di quello relativo alla revoca del certificato stesso, avesse previsto una procedura uniforme al fondo omologa e del tutto simile a quella al tempo disciplinata dal regolamento 44/2001 con le sole, ma assai rilevanti, differenze costituite (a) dallo spostamento del controllo circa l’integrazione di quella fattispecie descritta nei suoi elementi costitutivi dall’art. 6 del reg. 805/2004 ed ulteriore rispetto alla mera esistenza e validità della decisione nel territorio in cui è stata pronunciata, dalle autorità dello Stato membro di esecuzione alle autorità dello Stato membro di origine; (b) dalla immediata esecutività attribuita al provvedimento (nel nostro caso, al certificato di titolo esecutivo europeo) emesso nella fase inaudita altera parte; (c) dalla illimitata espansione su tuttoil territorio dell’Unione dell’efficacia di accertamento edi titolo esecutivo della decisione resa in un singolo Stato membro ed ivi certificata.

Così non è stato in quanto, come già rilevato, il regolamento in esame, da un lato, non disciplina specificatamente la procedura relativa al rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo – così lasciando spazio all’applicazione della legge nazionale – e, dall’altro, rinvia espressamente alla legislazione dello Stato membro di origine per quanto riguarda il rimedio della revoca (arg. ex art. 10, paragrafo 2 e art. 30, paragrafo 1, lett. a)[3].

[3] Sintomatico delle enormi difficoltà, non solo di ordine concettuale ma anche meramente pratico, che il rinvio alle singole discipline municipali può causare è il fatto che quasi ogni singolo stato membro ha ritenuto di poter dettare assai differenti regole di attuazione del precetto comunitario. E così se, ad esempio, in Germania e in Polonia è stato previsto che la revoca possa essere richiesta solo entro un dato termine (cfr. § 1081 ZPO che stabilisce che l’istanza di revoca debba essere proposta entro un mese dalla notificazione del certificato di titolo esecutivo europeo – notificazione che avviene d’ufficio ex § 1080 ZPO – se la notificazione debba essere effettuata in Germania, oppure entro due mesi se la notificazione debba avvenire all’estero; sarà qui agevole notare che detta scansione temporale coincide con quella che era appunto apprestata dall’articolo 43 del Reg. 44/2001), in quasi tutti gli altri Stati membri non si prevede alcun termine di decadenza per la proponibilità dell’istanza di revoca. E ancora con riferimento alla possibilità di impugnare il provvedimento di revoca si notano significative differenze di disciplina posto che, ancora una volta, in Germania appare possibile impugnare solo la decisione di accoglimento e non anche quella di rigetto (arg. ex § 1081 che rinvia ai commi 2 e 3 del § 319 ZPO in tema di correzione delle sentenze), mentre, ad esempio, nei Paesi Bassi è possibile impugnare tanto la decisione di rigetto quanto quella di accoglimento con appello e poi con ricorso per cassazione.

4. La revoca del certificato di titolo esecutivo europeo. I motivi che possono essere fatti valere con l’istanza di revoca.

Da un punto di vista dei limiti oggettivi del giudizio di revoca del certificato è persino ovvio osservare che con esso non si potranno far valere eventuali profili di invalidità o ingiustizia della decisione certificata. La revoca, in effetti, ha ad oggetto il certificato e non la decisione, di modo che ad essa si potrà ammissibilmente aspirare solo allorché vengano dedotte censure che riguardino la (in)esistenza dei requisiti «per la certificazione come titolo esecutivo europeo» di cui vi è menzione nell’articolo 6 e che, come detto, possono anche non coincidere (e, per solito, non coincidono) con altrettanti requisiti di validità ed esistenza della decisione nel foro[4].

Al di là di queste agevoli notazioni, deve poi ribadirsi che seppure l’articolo 10 si esprima nel senso per cui il certificato deve essere «revocato se risulta manifestamente concesso per errore, tenuto conto dei requisiti stabiliti nel presente regolamento», esso finisce comunque per dare rilevanza ad un vizio della certificazione consistente nella dedotta mancanza di uno o più dei requisiti stabiliti dall’articolo 6 senza che a nulla rilevi, al fine di restringere l’ambito oggettivo delle contestazioni che possono farsi valere con l’istanza di revoca, la circostanza per cui la mancanza di un requisito della certificazione possa anche coincidere, in astratto, con un vizio intrinseco di invalidità della decisione atteso che il positivo riscontro di tale carenza rileverebbe, come detto, non ai fini di un giudizio di invalidità tout court della decisione ma, diversamente, esclusivamente al fine di negare alla decisione (che rimane valida ed esistente nel foro) la sua certificabilità come titolo esecutivo europeo, ossia al fine di negare che rispetto a tale decisione possa dirsi perfezionato l’effetto giuridico di cui all’art. 5 del reg. 1215/2012.

A tal proposito deve quindi precisarci che l’utilizzo dell’avverbio “manifestamente” utilizzato dall’art. 10, lett. b), non è in grado di restringere l’ambito del sindacato rimesso al giudice di origine. Esso serve, semmai, esclusivamente a sostenere un’interpretazione restrittiva delle norme del regolamento in esame che riguardano, in un modo o nell’altro, i requisiti di certificabilità. In effetti l’errore, manifesto o meno, si concreterà in ogni caso nella mancanza di uno dei requisiti necessari alla certificazione di cui all’art. 6[5].

[4] Ma se anche coincidessero (ad es., il mancato rispetto delle norme di competenza esclusiva, oppure il mancato rispetto delle norme minime di procedura qualora da ciò possa conseguire anche una nullità della decisione secondo la lex loci processus e fatta salva, beninteso, la possibilità di una loro sanatoria ex art. 18 anche ai fini della certificazione) la loro dedotta inesistenza nell’ambito del (solo) giudizio di revoca sarebbe, comunque, ammissibile in quanto una tale deduzione sarebbe certamente irrilevante ai fini della validità ed esistenza della decisione nel foro e conserverebbe rilevanza unicamente ai fini della sua eventuale circolazione infracomunitaria nelle agevolate e semplificate forme della certificazione come titolo esecutivo europeo. Sul punto v. anche meglio infra.

[5] Se un voluto restringimento dei motivi ostativi alla circolazione infracomunitaria delle decisioni può aver senso, ad es., con riferimento a quelli che danno rilievo a clausole “generali” (v., infatti, quanto avviene con la nozione di ordine pubblico nel reg. 1215/2012), non sembra, al contrario, così ragionevolmente comprensibile qualora si abbia a che fare con requisiti procedurali (vale a dire, attinenti allo svolgimento del processo che ha condotto alla decisione certificata) analiticamente delineati dal legislatore comunitario e che, quindi, per loro stessa natura, diremmo, non sembrano possano prestarsi a late “interpretazioni” non strettamente aderenti alla lettera ed alla ratio che ispira il regolamento. Dovendosi anche notare che l’accentramento in capo ai giudici dello Stato di origine del controllo (iniziale e, poi, successivo in via di revoca) circa l’integrazione o meno della norma processuale che produce l’effetto di cui all’art. 5 già di per sé costituisce, diciamo così, un argine ad ampie e generose interpretazioni volte a negare, a tutti i costi, l’automatica ed uniforme circolazione della decisione.

5. La revoca del certificato di titolo esecutivo europeo. Natura e forma del procedimento.

Dal punto di vista del trattamento processuale da riservare a siffatto giudizio di revoca occorre far riferimento, per quanto riguarda il nostro ordinamento interno, alla comunicazione effettuata dello Stato italiano ai sensi dell’articolo 30 secondo la quale «il procedimento di revoca del certificato di titolo esecutivo europeo di cui all’articolo 10, paragrafo 2, ai sensi della legge italiana è la revoca in camera di consiglio».

Si tratta, come ben si intende, di una indicazione per nulla perspicua e che necessita, a parer nostro, di alcune importanti ed opportune precisazioni.

In primo luogo, può osservarsi che con l’aver fatto riferimento alla «revoca in camera di consiglio» potrebbe sembrare che si sia così voluta evocare la revoca di cui all’art.742 c.p.c. di un precedente decreto anch’esso emesso in camera di consiglio. Se così fosse, ne dovrebbe derivare che anche la fase (anteriore) del rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo dovrebbe, allora, seguire le forme procedimentali di cui agli artt. 737 e ss. c.p.c. con tutte le conseguenze che ne deriverebbero sia con riguardo alla struttura di questa prima “fase” del procedimento di certificazione[6], sia in relazione alla competenza[7], sia, infine, in punto di stabilità del provvedimento medesimo[8].

Tuttavia, è possibile, e financo dovuta a nostro avviso, un’altra e diversa lettura del riferimento «alla revoca in camera di consiglio»contenuto nella comunicazione dello Stato italiano alla Commissione.

Detto riferimento, a nostro modo di vedere, non può costituire un elemento da cui poter trarre decisivi argomenti in ordine alla individuazione della esatta natura della funzione giurisdizionale esercitata tanto nella fase del rilascio del certificato, quanto nella successiva (ed eventuale) fase della sua revoca ma, al contrario, deve essere inteso quale mero rinvio alle formedei procedimenti in camera di consiglio rese, così, applicabili alla trattazione di un ricorso (volto alla revoca) da esaminarsi «secondo le norme sul procedimento in contraddittorio» e sul quale il giudice competente dovrebbe potersi pronunciare «senza indugio»[9].

La comunicazione italiana alla Commissione attiene, pertanto, alle forme del procedimento di revoca e non, invece, al suo oggetto dovendosi ritenere che l’istanza di revoca del certificato di titolo esecutivo europeo dia luogo ad un giudizio di natura contenziosa avente ad oggetto l’accertamento della (in)esistenza di un vero e proprio effetto giuridico (seppure di mera e schietta consistenza processuale) disputato (o disputabile) nella sua esistenza tra le parti. Poiché la certificazione attesta documentalmente l’avvenuto accertamento da parte del giudice di origine della integrazione della fattispecie di cui all’art. 6 (fattispecie rispetto alla quale i requisiti di certificazione sono altrettanti fatti costitutivi) e, quindi, del prodursi dell’effetto giuridico di cui all’art. 5, la revoca tende, all’esito di un giudizio in contraddittorio, ad annullare e/o confermare l’accertamento della produzione di tale effetto giuridico mediante una contestazione relativa, in generale, alla mancata integrazione della fattispecie posta dalla norma sul riconoscimento dettata dall’art. 5 e, in particolare, alla dedotta mancanza di uno o più dei fatti costitutivi di tale fattispecie (ossia, uno o più dei requisiti della certificazione).

A nostro modo di vedere, dunque, l’attività del giudice di origine che rilascia il certificato di titolo esecutivo europeo o, successivamente e su istanza del debitore, lo revoca o ne conferma la vigenza,non può essere di certo ascritta all’esercizio di funzioni giurisdizional-volontarie. In realtà, tanto l’attività compiuta dal giudice di origine al momento del rilascio del certificato, quanto quella compiuta dallo stesso al momento della sua revoca, costituiscono esercizio di attività giurisdizionale di cognizione incidente su contrapposte posizioni di diritto soggettivo (sebbene di consistenza meramente processuale, ossia strumentali alla realizzazione del diritto sostantivo accertato nella decisione da riconoscere e/o da eseguire) e, quindi, quando si agisce per la revocadi un certificato di titolo esecutivo europeo precedentemente rilasciato si è alla presenza di un giudizio che, puramente, segue le forme camerali ed è, perciò, destinato a concludersi con un decreto che, a nostro avviso, deve considerarsi ricorribile per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma settimo, Cost..

Riepilogando quando siamo andati dicendo nel testo, quindi, sembrerebbe doversi concludere nel senso che: (i) l’istanza di revoca deve essere proposta con ricorso al Tribunale competente[10] ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 737 e ss. c.p.c.; (ii) il ricorso così proposto e depositato introdurrà un giudizio da trattarsi nelle forme (semplificate) di cui agli artt. 737 e ss. c.p.c. e che si concluderà con un decreto pronunciato dal Tribunale in composizione collegiale che potrà divenire oggetto di un reclamo alla Corte d’Appello exart. 739 c.p.c.

[6] Che, in effetti, se così congegnato non potrebbe non prevedere la necessaria preventiva audizione del debitore che da tale decreto verrebbe ad essere “inciso”. Per la conclusione, invece, circa la dovuta unilateralità di questa prima fase v. quanto abbiamo precedentemente osservato nel testo e nelle p>

[7] Dovendosi, allora, ritenere che il rilascio del certificato dovrebbe avvenire sempre e comunque ad opera del Tribunale in composizione collegiale, e ciò anche quando, ad es., «il giudice o l’organo giurisdizionale incaricato del procedimento nel momento in cui ricorrono le condizioni di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere a), b) o c)» coincida con il giudice di pace (come pur possibile nei casi in cui il decreto ingiuntivo non opposto sia stato emesso proprio da quest’ultimo organo giurisdizionale).

[8] Se il riferimento alla «revoca in camera di consiglio» contenuto nella comunicazione effettuata dall’Italia alla Commissione ai sensi dell’art. 30, paragrafo 1, lett. a), Reg. n. 805/2004 fosse veramente da intendersi alla stregua di un richiamo, puro e semplice, alla revocadi cui all’art. 742 c.p.c, dovrebbe infatti sicuramente negarsi la ricorribilità in cassazione del decreto che accordi o neghi la revoca del certificato. Ed infatti, la revoca del certificato di titolo esecutivo sarebbe, a questo punto, una vicenda attinente la libera modificabilità e revocabilità di un provvedimento (vale a dire, l’originario rilascio del certificato) ascrivibile, seguendo tale ottica, all’esercizio di una funzione giurisdizional-volontaria. Poiché la revoca di un (precedente) decreto camerale giurisdizional-volontario si realizza mediante un procedimento che ripercorre il medesimo oggetto sul quale si era esercitato il primo potere decisorio e destinato a concludersi in un decreto che sostituisce quelle precedente, pur nella eventualità che ne riaffermi il contenuto ne dovrebbe, allora, derivare che il provvedimento conclusivo del giudizio di revoca è, a sua volta, sempre liberamente (modificabile e) revocabile con conseguente esclusione del ricorso straordinario per cassazione per difetto del requisito della definitività).

[9] Come è agevole intuire, nel testo ci siamo serviti delle disposizioni di cui all’articolo 43, paragrafo 3, ed all’articolo 45, primo paragrafo, ultimo periodo, dell’oramai abrogato Reg. n. 44/2001. Ciò non perché, ovviamente, dette disposizioni fossero, al tempo in cui coesistevano con quelle del reg. 805/2004, in qualche misura direttamente applicabili ma perché, come detto in precedenza, a noi è sembrato di poter scorgere un significativo parallelismo tra la scansione “dichiarazione di esecutività inaudita altera parte-opposizione ex art. 43 Reg. n. 44/2001″ e quella “rilascio del certificato-revoca ex art. 10 Reg. n. 805/2004″.

[10] Ossia al tribunale che ha rilasciato il certificato in quanto giudice incaricato del procedimento nel momento in cui si è verificata la fattispecie di non contestazione volta a volta rilevante, oppure al tribunale del luogo in cui ha sede il giudice di pace che ha rilasciato il certificato in quanto giudice incaricato del procedimento nel momento in cui si è verificata la fattispecie di non contestazione volta a volta rilevante. La competenza, in ogni caso, del Tribunale sul giudizio di revoca del certificato ancorché esso sia stato rilasciato dal giudice di pace sembra imporsi per effetto del richiamo alle forme camerali del procedimento che, come noto, impongono la decisione del Tribunale in composizione collegiale ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 50-bis c.p.c..

6. La revoca del certificato di titolo esecutivo europeo. L’ammissibilità del ricorso straordinario per cassazione.

In ordine alla ricorribilità per cassazione del decreto emesso dalla Corte d’Appello all’esito del reclamo di cui all’art. 739 c.p.c. noi crediamo che questa debba essere ammessa, e ciò sia che il decreto sia di accoglimento (nel senso che pronunci la revoca del certificato precedentemente emesso), sia nel caso in cui esso rigetti il ricorso (“confermando la “vigenza” del certificato, ossia dell’effetto processuale descritto nell’articolo 5 del Regolamento n. 805/2004).

Sia nel caso di rigetto che di accoglimento della istanza di revoca, quindi, noi crediamo che il provvedimento debba considerarsi sia definitivo che decisorio in quanto avente ad oggetto la dichiarazione di (in)esistenza di un vero e proprio effetto giuridico, seppur di mera consistenza processuale, dichiarazione non altrimenti impugnabile, né in altra sede più contestabile, revocabile o modificabile.

Ad ostacolare l’ammissibilità in tal caso del ricorso straordinario per cassazione non potrebbe essere, del resto, la circostanza per cui l’effetto giuridico dichiarato come (in)esistente dal giudice ha, come più volte detto, consistenza meramente processuale. Ed infatti può osservarsi, in via di estrema sintesi, che quell’orientamento giurisprudenziale di legittimità che restringe l’ammissibilità del ricorso straordinario alle sole statuizioni di consistenza “sostanziale” vale, evidentemente, solamente laddove il tema processuale non costituisca, come nella specie (e come accade tipicamente proprio nei giudizi aventi ad oggetto l’accertamento della avvenuta integrazione o meno della fattispecie posta dalla norma sul riconoscimento delle decisioni straniere), il “merito” della lite, ossia ciò su cui il giudice è chiamato a decidere in quanto quid controverso fra le parti[11].

In ragione di quanto detto non ci sembra di poter condividere la diversa conclusione attinta da Cass. civ., sez. III, 22 maggio 2015, n. 10543 che ha negato l’ammissibilità del ricorso straordinario ex art. 111 Cost. avverso il decreto reso dalla Corte d’Appello all’esito del giudizio di reclamo ex art. 739 c.p.c. proposto avverso il rigetto della originaria istanza di revoca del certificato di titolo esecutivo europeo ai sensi dell’art. 10 Reg. 805/2004.

La non ricorribilità del provvedimento che decide sulla revoca, per Cass. 10543/2015, deve argomentarsi in base al rilievo per cui il certificato di titolo esecutivo “non è di per sé stesso decisorio, perché la tutela delle posizioni giuridiche relative alla violazione del diritto di difesa nel procedimento concluso con il titolo è riservata ad altri ambiti processuali, sol che il debitore se ne avvalga correttamente“; stando a quanto rilevato nella motivazione di Cass. 10543/2015, infatti, “il sistema di impugnazione del complesso provvedimento in cui si articola il titolo esecutivo europeo (titolo domestico più certificato), impone di circoscrivere l’oggetto della revoca alla sola carenza evidente dei requisiti formali di rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo, tanto da limitarla ad un errore manifesto sulla sussistenza dei requisiti formali di rilascio e quindi del procedimento proprio e specifico di richiesta-esame-rilascio del certificato medesimo; qualunque ulteriore contestazione sul rito della formazione del titolo esecutivo, implicante la compressione del diritto del debitore di contestare il debito, ma pure sul merito della pretesa e per il caso sia ritenuta fondata l’indispensabile preliminare contestazione in rito, va ricondotta all’ambito di operatività dell’art. 19 del Regolamento 805 e, quindi, all’esperimento, se ancora possibile, degli strumenti straordinari di revisione del titolo in sé considerato“.

Poiché, in conclusione e secondo il ragionamento della Suprema Corte, l’istituto della revoca non involge alcun diritto del debitore relativo al merito della pretesa o alla correttezza del rito seguito per l’emanazione del provvedimento costituente il titolo esecutivo si deve, dunque, ritenere che, esistendo una sede propria in cui far valere le contestazioni relative alle violazioni procedurali idonee ad inficiare la possibilità per il debitore di contestare il credito (ossia, sempre secondo quanto rilevato dai giudici di legittimità, il procedimento di riesame di cui all’art. 19 Reg. 805/2004), “il provvedimento della corte d’appello che definisce il reclamo avverso il diniego di revoca ai sensi dell’art. 10 del Regolamento non è suscettibile anche di ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111, co. 7, Cost.“.

A noi sembra che rispetto a tale decisione siano necessarie le seguenti puntualizzazioni.

La decisione si fonda sul presupposto per cui tutte le volte che una determinata contestazione del creditore riguardi un profilo di invalidità o di ingiustizia della decisione, allora essa sarà irrimediabilmente preclusa nel giudizio di revoca del certificato dovendo quelle contestazioni indirizzarsi contro la decisione in sé e non contro il certificato utilizzando, se del caso, il rimedio concesso dalla legislazione dello Stato membro di origine per ottenere un riesame in casi eccezionali.

Che con la revoca non possano dedursi vizi di invalidità e/o di ingiustizia della decisioni in quanto tali è certamente vero: ciò però non significa che le volte in cui la ragione di contestazione fatta valere con l’istanza di revoca coincida con un requisito di validità della decisione, allora l’istanza sarà per ciò solo inammissibile.

Come più volte detto, il reg. 805/2004 si muove ancora entro le coordinate sistematiche del riconoscimento delle decisioni: una decisione interna può aspirare alla circolazione infracomunitaria se emessa nel rispetto di determinati requisiti che costituiscono altrettanti fatti costitutivi di una fattispecie – posta dalla norma processuale sul riconoscimento che viene di volta in volta in rilievo – distinta ed ulteriore rispetto a quella che consente l’efficacia e la vigenza della decisione nel foro.

Qualora uno dei fatti costitutivi della fattispecie posta dalla norma sul riconoscimento coincida con un profilo che potrebbe costituire, allo stesso tempo, anche un vizio di invalidità della decisione in sé, la circostanza per cui tale vizio non sia stato dedotto con i rimedi impugnatori messi a disposizione dalla legislazione dello Stato membro di origine non rileva in linea di principio (e fatte salve specifiche disposizioni, quale quella ad es. dettata dall’ultimo comma dell’art. 18 del reg. 805/2004 o dall’art. 45, lett. b), Reg. 1215/2012) al fine di poter negare rilevanza ad una contestazione siffatta nell’ambito del giudizio in cui si controverta della mancata produzione dell’effetto giuridico che segue la integrazione della fattispecie sul riconoscimento.

Ad es., il decreto ingiuntivo non opposto, regolarmente notificato e rispettoso di tutti i requisiti di forma previsti dalla legislazione interna e delle norme minime di procedura di cui al capo III del reg. 805/2004 può essere certificato come titolo esecutivo europeo solo se nel pronunciarlo il giudice italiano non abbia violato una delle competenze esclusive di cui all’art. 24 del Reg. 1215/2012. Se il decreto ingiuntivo non opposto emesso dal giudice italiano relativamente a canoni di locazioni dovuti in esecuzione di un contratto di locazione avente ad oggetto un immobile situato in Germania viene (erroneamente) certificato come titolo esecutivo europeo, il debitore potrà ammissibilmente e fondatamente chiedere la revoca del certificato (o, il che è lo stesso, agire in giudizio per ottenere l’accertamento della mancata integrazione della fattispecie posta dalla norma processuale sul riconoscimento) anche se, come ovvio, egli avrebbe ben potuto dedurre questa circostanza come vizio di rito idoneo a cagionare la nullità del decreto ingiuntivo all’esito della opposizione tempestivamente promossa.

Lo stesso vale, peraltro, anche per altri vizi di rito che pure possono colpire la decisione interna e rimanere, però, irrilevanti ai fini di un suo annullamento nello stato membro di origine in quanto non tempestivamente fatti valere con il rimedio impugnatorio a disposizione: se la violazione procedurale che cagiona uno di questi vizi di rito – oramai irrilevanti nello stato membro di origine al fine di determinare ivi l’annullamento tout court della decisione – configura, allo stesso tempo, un requisito ostativo per il riconoscimento e l’esecuzione della decisione, essa potrà certamente essere dedotta nel giudizio di revoca a prescindere dal fatto che non sia stata tempestivamente fatta valere nel procedimento di formazione del titolo (salvo, beninteso, l’operare di meccanismi di sanatoria somministrati dalla stessa norma processuale sul riconoscimento).

Non appare, pertanto, convincente la tesi sostenuta dalla Suprema Corte in ordine alla mancanza di decisorietà e definitività del provvedimento che decide sul reclamo proposto alla Corte d’Appello avverso il diniego di revoca: al contrario quel provvedimento è decisorio in quanto accerta l’integrazione di una fattispecie diversa ed ulteriore rispetto alla mera vigenza nel foro della decisione da cui deriva un nuovo e ben individuato effetto che coincide con il sorgere di un diritto pur di schietta consistenza processuale in dipendenza del quale il creditore può agire in qualsiasi stato membro ed il debitore non potrà in alcun modo opporsi al riconoscimento, nonché definitivo in quanto – per le ragioni anzidette – deve escludersi una concorrenza di rimedi nel senso che, seppure le deduzioni che danno fondamento alla revoca possono (o avrebbero potuto) anche essere dedotte con un mezzo di impugnazione della decisione, ciò non potrà impedire di dare ad esse rilevanza all’esclusivo fine di ottenere un provvedimento che accerti l’erroneità della certificazione (ferma, quindi, la continuata efficacia ed irrevocabilità della decisione nel foro).

[11] Se così fosse dovrebbe, allora, negarsi la ricorribilità in Cassazione della ordinanza ex art. 702-ter (ossia di un provvedimento diverso dalla sentenza) con cui la Corte di Appello accoglie o rigetta la domanda di accertamento dei requisiti per il riconoscimento in Italia di una decisione proveniente da uno Stato terzo ai sensi degli artt. 64 e 67 L. 218/1995. Anche qui, in effetti, il provvedimento non ha ad oggetto né il merito della pretesa, né un vizio di rito nella formazione della decisione ma si limita ad accertare l'(in)esistenza di un effetto di natura processuale prodotto dalla integrazione della fattispecie posta dalla norma sul riconoscimento contenuta nell’art. 64 L. 218/1995. Come noto, però, tali ordinanze sono ritenute pacificamente ricorribili per cassazione ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost.

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