Il primo articolo inascoltato durante il rito e disapplicato nella realtà è l’art. 143 cod. civ. “Diritti e doveri reciproci dei coniugi” che, rispetto al testo previgente, precisa anche i diritti reciproci, presenta tre commi e non solo uno, e altre differenze normative rilevanti. L’essenza dell’art 143 è la reciprocità che è ben altra cosa dello scendere a compromessi come si suole dire o pensare nell’immaginario collettivo, non è nemmeno equilibrio perfetto né suddivisione perfetta. È ricerca dell’equilibrio, è avvicinarsi all’altro, cercare e cercarsi insieme.
Il significato di coniugio
Coniugio è portare lo stesso giogo ma senza pesare su chi il giogo grava di più, perché conta percorrere la stessa strada e perseguire lo stesso obiettivo. E la reciprocità è il fulcro, il segreto dell’amore, come si legge pure nelle parole dello scrittore Aldo Nove: “L’amore è come la bilancia, messa alla prova ogni momento, e sempre sta per rompersi se non si riequilibra, e quella cura che richiede è la sua storia, ed è una storia fatta di continui giochi di contrappesi e dunque tra gli uomini di avvicinamenti, di spiegazioni, di sguardi che convergono nel tempo, e si adattano, tra slancio e discriminazione, come il tempo e la saggezza insegnano”.
E così l’amore coniugale trova nei doveri reciproci dell’art. 143 cod. civ. non tanto dei limiti quanto delle indicazioni per il “per-corso” quotidiano. Perché, scrive il teologo belga Jean Galot: “Se voglio amare l’altro, devo stimarlo, accettarlo com’è, e non esigere che sia più di quello che è, né che sia diverso, adatto ai miei gusti… Se voglio amare l’altro, devo scoprirlo, e saper svelare, anche sotto i difetti, le qualità profonde, i doni e i talenti, la nobiltà dell’anima”.
Reciprocità che sottintende, perciò, vedere l’altro come soggetto del proprio amore e non come oggetto del proprio amore, reciprocità in cui si è entrambi soggetti degli stessi diritti e degli stessi doveri. Solo così si esercitano e si adempiono quotidianamente i diritti e doveri reciproci dei coniugi senza incorrere negli abusi familiari che si manifestano con grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente (art. 342 bis cod. civ.) o con esiti nefasti.
Lo psichiatra Eugenio Borgna esplica: “Che cosa è questa parola ambivalente, «comunicazione», questa parola-valigia che entra in gioco in ogni forma di discorso e in ogni forma di vita? Significa entrare in relazione con la nostra interiorità e con quella degli altri. Nella convinzione che «comunicazione» sia sinonimo di cura”[1]. Reciprocità che si traduce in comunione spirituale e materiale e in comunicazione che sono il contenuto degli obblighi elencati nel secondo comma dell’art. 143.
L’obbligo reciproco alla fedeltà (divenuto il primo dopo la riforma del diritto di famiglia del 1975 nell’art. 143 comma 2 cod. civ.) non riguarda solo la sfera sessuale, ma innanzitutto quella intima (etimologicamente “ciò che sta molto dentro”), quella della vera conoscenza. Obbligo di fedeltà non previsto nelle cosiddette unioni civili (legge 20 maggio 2016 n. 76) e che si è proposto di eliminare anche nel matrimonio (in un disegno di legge del 2016). Fedeltà che è frutto dello scegliersi e fonte delle scelte successive, che si manifesta nell’unirsi in un patto e mantenere fede a quel patto, nel promettersi di esserci l’uno per l’altra e nell’impegnarsi in tal senso.
Amarsi è anche ricordarsi tutto quello che si è detto a luce spenta e comunicarsi quello che non si è detto a luce spenta ma scambiandosi uno sguardo vivo d’amore e, quando è necessario, anche un silenzio ricco d’amore. Silenzio: affinità, complicità, essenzialità, serenità, sincerità. Raggiungerlo è il massimo, mantenerlo è l’apice: anche questo è il significato dell’obbligo di assistenza morale e materiale cui si è tenuti nella vita di coppia ai sensi dell’art. 143 cod. civ. e che, non a caso, segue all’obbligo di fedeltà. La reciprocità nell’amare è pure saper chiedere e prendere l’amore e il calore dall’altro e dell’altro.
La studiosa Giuseppina De Simone precisa: “Le parole, i gesti, che nell’assoluta semplicità rendono visibile e percepibile l’amore nella vita delle famiglie, dicono di una relazione che si fa cura. Essi danno sapore ai giorni nel loro scorrere talvolta sempre uguale, intensità di luce ai momenti speciali, respiro e orizzonte al buio delle fatiche o delle sofferenze più laceranti”[2].
L’aver cura, e non la giuridicità, è il contenuto essenziale dei doveri reciproci coniugali, del contribuire ai bisogni della famiglia (art. 143 cod. civ.), dell’obbligo di assistere moralmente i figli (art. 147 cod. civ.). Quella cura richiamata espressamente nell’art. 337 ter cod. civ. nei provvedimenti riguardo ai figli in caso di separazione e altre vicende.
In una coppia non deve esistere soltanto l’intesa sessuale, ma soprattutto quella morale e spirituale che si concretizza nel concordare l’indirizzo della vita familiare (art. 144 cod. civ.): non solo dormire nello stesso letto, ma potersi addormentare mentre l’altro veglia, dormire anche negli stessi sogni (naturalmente non tutti, perché è bene conservare i propri sogni). Lo scrittore Simone Perotti argomenta: “I sogni devono essere ambiziosi, ma al tempo stesso devono essere realizzabili per noi, alla nostra portata. I sogni irrealizzabili non vanno sognati. Sono una scusa che ci proietta nell’utopia e ci fa fuggire dalla realtà.
I sogni buoni chiedono invece di essere perseguiti e meritano tutti gli sforzi possibili per realizzarli. Quando si avverano, se erano effettivamente sogni adatti a noi, ci rendono molto, ma molto, ma molto felici. Se non ci rendono felici vuol dire che avevamo sbagliato sogni, oppure che abbiamo tralasciato qualcosa nel processo di avvicinamento. Una volta realizzati, i sogni aprono spazio e opportunità per nuovi sogni (realizzabili)”. “Sogno” deriva da “sonno”, perché solitamente si sogna quando si dorme. Dormire insieme, trovare riposo e armonia con l’altro, nell’altro: l’intimità è una componente della coppia che dà unione e comunione. Quell’intimità in cui si concepisce e custodisce un figlio.
Non è importante e costruttivo solo dormire insieme o sotto lo stesso tetto, ma ritrovarsi, ristorarsi anche attorno alla stessa tavola. Lo studioso gesuita Jean-Paul Hernandez descrive: “Non dimentichiamo che il rapporto con il cibo è prima di tutto relazione con chi ha preparato da mangiare. Le generazioni degli ultimi anni sono le prime della storia in cui si è perso il legame tra chi mangia e chi ha preparato il cibo. La mamma che fa da mangiare per i suoi figli mette sul piatto non soltanto una materia organica, ma una mattinata della sua vita: ha pensato che cosa avrebbe fatto loro piacere, ma anche che cosa avrebbe fatto loro del bene; è andata a fare la spesa; ha cucinato. Quella madre ha offerto il suo tempo come cibo per i figli.
Quando noi mangiamo, allora, mangiamo innanzitutto il tempo dell’altro”. Occorre recuperare la rilevanza della convivialità e dell’educazione alimentare anche per prevenire i crescenti disturbi del comportamento alimentare dei giovanissimi e per la salute stessa dei figli. Ciò rientra nei doveri dei genitori verso i figli espressi nell’art. 147 cod. civ., in particolare in quello di mantenerli, e nel senso stesso di famiglia di mettersi l’uno al servizio dell’altro.
Mangiare insieme consente anche di parlare e parlarsi, sentire e sentirsi, d’imparare il linguaggio dell’amore e della vita. Le parole sono fonte ed espressione di vita; si tenga conto pure del significato etimologico di “padre”, “colui che nutre, sostiene”, e “madre”, “colei che prepara, ordina” e dell’origine onomatopeica e fanciullesca di “papà” e “mamma”. Lo scrittore Erri De Luca richiama: “Come fa un bambino a credere alle proprie parole? Facile: non sono ancora sue. Vengono da un’altra parte della vita e si affacciano con un anticipo improvviso. I bambini trafficano in profezie con se stessi e non tremano quando sono atroci”[3].
La valorizzazione dei figli
I bambini sono profeti di se stessi: i genitori devono abbandonare ogni aspettativa o etichettamento e considerare le capacità, le inclinazioni naturali e le aspirazioni dei bambini. Mangiare insieme senza televisione o altra interferenza e almeno un pasto con la figura paterna dovrebbe rientrare nell’indirizzo della vita familiare di cui all’art. 144 cod. civ. in modo tale da rilevare e rispondere meglio alle esigenze della famiglia stessa. Si pensi alle conseguenze delle deprivazioni alimentari e/o affettive sui bambini, come il nanismo psicosociale o altre sindromi.
“Di certo, non possono rispondere alle nuove esigenze educative gli “adultescenti” – scrive il giornalista Paolo Perazzolo –: padri e madri che privilegiano un rapporto fin troppo amichevole e complice con i propri figli, rinunciando al ruolo di guida e alla trasmissione di una narrazione di senso. A complicare ulteriormente il quadro, è la conclamata crisi del padre, una generazione di uomini dall’identità fragile, incerti sul loro ruolo di mariti, prima ancora che di padri, tanto da provocare in alcuni casi un annullamento della differenza fra maschile e femminile, elemento centrale di una sana relazione educativa. […] le ricerche scientifiche, laddove non siano piegate alle ideologie, confermano la necessità di un padre e di una madre come garanzia di uno sviluppo armonioso dei figli”.
Tutti i vocaboli al plurale usati nella formulazione dell’art. 147 cod. civ., “Doveri verso i figli” (dove non compare più il nome collettivo “prole”), evidenziano che occorre educare alle differenze nelle differenze, tra i genitori, tra genitori e figli e tra i figli stessi (altresì e soprattutto in vista della dimensione della c.d. famiglia allargata); coerenza e coesione educativa, ma non omologazione (o altro ancora).
Quelle differenze personali e interpersonali che fanno crescere il figlio e che problematizzano l’età adolescenziale. “Crescere”, letteralmente “andare formandosi”, “aumentare di massa o di estensione in qualsivoglia verso e specialmente in altezza”: “Il figlio ha diritto di crescere in famiglia” (art. 315 bis comma 2 cod. civ.). Non deve essere né abbandonato a se stesso né avviluppato. “Proprio questa è la fatica di avere un figlio adolescente – spiega lo psicologo e psicoterapeuta Fabrizio Fantoni –. Stare in costante equilibrio tra accompagnamento educativo e autonomia. Stargli addosso e prendere le distanze.
Qualche volta viene il capogiro, perché è un equilibrio faticoso, mai raggiunto una volta per tutte. […] Primo: è un lavoro così difficile che è meglio non farlo da soli, ed essere almeno in due. Con stili e modalità di intervento differenziati, perché si è donna e uomo. Quindi coinvolgendo l’altro genitore e accettando che talvolta faccia in modo diverso da come avremmo fatto noi. E cercando alleanze con gli altri educatori adulti esterni alla famiglia. Secondo: osservare la maturazione del figlio nella sua interezza. Non solo a scuola, quindi, ma anche negli altri ambiti: lo sport, il tempo libero, le altre attività. E la presenza in casa.
Dal risveglio al mattino alla sera, come il ragazzo gestisce i suoi impegni, in casa e fuori? Terzo: in certi momenti, soprattutto all’inizio dell’anno o in prossimità delle valutazioni decisive, si può intervenire in modo deciso e forte. Magari anche chiedendo conto di inadempienze e mettendo alle strette”. Durante l’adolescenza dei figli i genitori sperimentano ancor di più le difficoltà dei doveri genitoriali, i cosiddetti compiti evolutivi dei genitori: perciò nell’art. 147 cod. civ. si passa dall’obbligo di mantenerli, “tenerli per mano” a quello di assisterli, “stare presso, accanto”.
Nell’art. 337 ter, relativo ai provvedimenti riguardo ai figli a seguito di separazione e altro, si specifica che il figlio minore ha il diritto di ricevere assistenza morale: attenzioni e gesti verso il figlio devono, in ogni caso, essere diretti e orientati. Che non si dica: “Cosa ho fatto di male!” o “Che cosa gli ho fatto mancare?”.
Padre Angelo Benolli, antropologo e educatore, sostiene: “Giustamente Freud dice che una persona è matura se sa ben lavorare e ben amare. La libido e l’aggressività crescono non tanto per la buona intelligenza o la buona volontà, quanto per le buone relazioni d’amore. Nessuno sa ben amare e ben lavorare se non ha, nel tempo giusto e nel modo giusto, giuste relazioni d’amore. Solo l’amore matura e solo la mancanza d’amore impedisce alla libido e all’aggressività di svilupparsi”.
Il tempo giusto e il modo giusto delle giuste relazioni d’amore genitoriale che si perseguono e si provano nell’esplicazione dei doveri verso i figli (art. 147 cod. civ.), soprattutto nell’assisterli moralmente e nel rispetto dei tratti della loro personalità. Quella pratica dell’amore genitoriale che è disciplinata nell’art. 316 cod. civ., anche in caso di contrasto tra i due genitori (nell’attuale formulazione dell’art. 316 si dice “nell’interesse del figlio e dell’unità familiare” usando la congiunzione “e” e non più la “o”).
L’accettazione (come l’accoglienza) dell’altro è alla base della vita di coppia, dal rapporto sessuale all’arrivo di un figlio. È anche questa l’evoluzione della vita coniugale, insita nei tre articoli codicistici affinché divengano codice personalizzato e introiettato di vita insieme, fondamentale per la vita di tutti e con tutti, convinti che la famiglia sia nucleo fondamentale della società e ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti i suoi membri, come si ricava dal Preambolo della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia.
[1] E. Borgna in “Parlarsi. La comunicazione perduta”
[2] G. De Simone in “La fedeltà dell’aver cura. Essere famiglia oggi”, Editrice AVE, gennaio 2016
[3] E. De Luca da “Lo spazio di nessuno” di Erri De Luca in “Il più e il meno”
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