SOMMARIO 1. Premesse sul caso in rassegna 2. Tatuaggi e forze dell’ordine: un inquadramento 3. Il caso: l’apposizione di tatuaggi di notevoli dimensioni in parte del corpo potenzialmente esposta alla vista d’altri 4. Disciplina applicabile 5. Sindacabilità della valutazione disciplinare 6. Tatuaggi “deturpanti” e sanzione interruttiva del rapporto di servizio: il problema della proporzionalità 7. Circostanze rilevanti in ordine alla gravità della condotta 8. Diffusione di fotografie ritraenti i tatuaggi a mezzo dei social media
Nell’ambito delle forze armate, la giurisprudenza si è confrontata più volte e sin da tempi meno recenti con la questione dei tatuaggi e del loro eventuale rilievo ai fini tanto dell’arruolamento quanto della permanenza in servizio.
Nel caso che verrà qui sinteticamente esaminato e che è stato recentemente deciso dalla sezione Prima del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna, sede di Bologna, con la sentenza 29 giugno 2020, n. 432, si è discussa la legittimità di un provvedimento disciplinare di perdita del grado conseguente alla presenza in parti potenzialmente esposte del corpo di vistosi tatuaggi e alla connessa condotta di ritrarli in fotografie poi diffusi sui social media.
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Premesse sul caso in rassegna
Nel caso in rassegna il ricorrente, appuntato scelto dei Carabinieri, in precedenza destinatario di valutazioni di condotta sempre più che positive, è stato attinto dalla sanzione disciplinare della perdita del grado[1], motivata proprio in ragione di due distinte e concorrenti circostanze, tra loro intimamente connesse: la presenza, sugli avambracci, di tatuaggi di considerevole ampiezza, nonché la diffusione per il tramite di piattaforme di social media di fotografie ritraenti gli stessi tatuaggi.
La Direzione Generale per il personale militare, competente all’inflizione della sanzione, ha ritenuto le condotte contrarie ai doveri di rettitudine scaturenti dal giuramento e interferenti con il rapporto fiduciario di servizio. Giova ribadirlo, la sanzione giunge nell’ambito di un curriculum sempre più che gratificante, con valutazioni non soltanto positiva, ma anche gratificanti e superiori rispetto alla media, sicché costituisce un evento distonico rispetto alla morfologia ordinaria del profilo individuale del candidato.
Va premesso che le due circostanze dedotte in sede disciplinare, seppur intimamente saldate, devono essere per economia espositiva esaminate distintamente.
Tatuaggi e forze dell’ordine: un inquadramento
Quanto alla prima condotta contestata, ossia la realizzazione di tatuaggi anche di ampiezza estesa sugli avambracci, va sin d’ora premesso che alcuna norma proibisce espressamente per gli arruolati nell’Arma la decorazione pittorica della pelle. Più che altro, profili di criticità potrebbero ben emergere ove sia il soggetto rappresentato dal tatuaggio a esprimere sentimenti, intenzioni o messaggi incompatibili con il giuramento prestato o con il rapporto fiduciario intercorrente nei confronti dell’Amministrazione.
Si ricordi che, in epoca non recente, in sede concorsuale per l’accesso alle forze armate, la presenza di tatuaggi sulla pelle era stata talvolta considerata sfavorevolmente, in particolare dalle commissioni mediche. Talvolta, la presenza di tatuaggi era stata qualificata, in sede di visita medica, come alterazione permanente dell’epidermide di carattere anche potenzialmente patologico con potenziali conseguenze nocive[2]. Talvolta tale tesi era stata ancorata alla presenza di inchiostri e alla potenziale infiltrazione delle relative sostanze nocive con effetti patologici.
Tali preoccupazioni sono state progressivamente superate dalla giurisprudenza[3] che ha escluso qualsiasi rilevanza patologica dell’alterazione della pelle mediante tatuaggio, riconoscendone un potenziale rilievo ostativo all’arruolamento esclusivamente nel caso in cui per dimensioni contenuto e natura possano essere lesivi della dignità e del decoro.
A livello di regolamentazione specifica, la stessa disciplina delle uniformi sconsiglia ma non vieta la realizzazione di tatuaggi.
Il caso: l’apposizione di tatuaggi di notevoli dimensioni in parte del corpo potenzialmente esposta alla vista d’altri
In disparte l’utilizzabilità delle divise “a maniche lunghe”, nel caso esaminato dal T.A.R. Bologna qui in commento, si trattava di tatuaggi di ampie dimensioni potenzialmente esposti alla vista d’altri in quanto collocati sugli avambracci, che lo stesso giudice ha ritenuto “suscettibili di percezione visiva indossando uniforme a maniche corte”.
Questo profilo è di certo interesse, perché – come anticipato – il rilievo dei tatuaggi è intimamente connesso ai profili del decoro e della reputazione dell’Arma, sicché la visibilità con la divisa, anche soltanto quella a maniche corte, rende necessaria e attuale una valutazione più stringente del contenuto pittorico del tatuaggio. Nel diverso caso di tatuaggio collocato in parte recondita del corpo, certamente coperta dalla divisa anche a maniche corte, tale valutazione si blandisce considerata l’impossibilità per i terzi di percepire la rappresentazione.
Disciplina applicabile
Ai sensi del Regolamento sulle uniformi per l’Arma dei Carabinieri e del d.P.R. 15 gennaio 2010 n. 90 (Testo Unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare), l’incisione di tatuaggi può rappresentare una condotta disciplinarmente rilevante per il Carabiniere, ma esclusivamente ove per dimensioni e contenuto rappresentino una deturpazione della persona e del suo aspetto tale da rendersi “indice di personalità abnorme”[4].
La normativa non attribuisce quindi rilievo disciplinare in sé all’incisione del tatuaggio, condotta che dunque appare intrinsecamente neutra[5] e che si colora invece spregiativamente in ragione del contenuto e dell’estensione della raffigurazione prescelta, ancora una volta non per la raffigurazione in sé considerata, ma per l’abnormità della personalità che può sottendere, implicare o testimoniare.
Oggetto di valutazione, dunque, in sede disciplinare, deve essere non tanto il tatuaggio in sé, ma la personalità del militare per come desumibile e ricostruibile anche – ma non solo – in ragione del tatuaggio medesimo.
Sindacabilità della valutazione disciplinare
È evidente che la valutazione circa l’opportunità del singolo tatuaggio, la lesività del suo contenuto per il decoro e il prestigio dell’Arma o comunque la sua incompatibilità con il giuramento prestato implica valutazioni discrezionali che competono all’autorità disciplinare. A maggior ragione discrezionali appaiono le valutazioni in ordine alla qualificabilità del singolo tatuaggio come atto di deturpazione testimoniante l’abnormità della personalità.
Tali valutazioni, peculiarizzate da una strutturale discrezionalità che contraddistingue in realtà i procedimenti disciplinari dei pubblici dipendenti in generale, tendono a rifuggire il sindacato del giudice amministrativo. Parimenti lo rifugge l’attività ulteriore della graduazione della sanzione, ossia la determinazione della punizione proporzionale all’offesa, giudizio che si incardina sulle conclusioni della valutazione in ordine alla responsabilità richiedendo però un ulteriore approfondimento discrezionale di quantificazione.
Entrambe le valutazioni, nei propri segmenti di discrezionalità, soffrono un sindacato del giudice amministrativo limitato ai soli casi di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà.
Tatuaggi “deturpanti” e sanzione interruttiva del rapporto di servizio: il problema della proporzionalità
Nel caso di specie, la sentenza ha confermato che la presenza di ampi tatuaggi sugli avambracci, di estensione tale da percepirsi nitidamente con la divisa “a maniche corte” è obiettivamente deturpante per l’aspetto, nei sensi dianzi precisati.
La condotta in sé potrebbe persino qualificarsi in termini disciplinarmente rilevanti, ma con le meditazioni che seguono.
Pur trattandosi di tatuaggio ritenuto anche dal giudice obiettivamente deturpante per l’aspetto della persona, la pronuncia accorda favorevole considerazione al ricorso, sull’assunto che la semplice deturpazione per la dimensione del tatuaggio non comporta ex se una compromissione del rapporto fiduciario con l’Amministrazione tale da giustificare l’applicabilità della sanzione disciplinare massima – come nella specie – di carattere esplusivo[6].
Il rilievo critico della sentenza si appunta quindi lungo il profilo della proporzionalità, revocando in dubbio la necessità della sanzione massima esplusiva in ragione della condotta contestata.
Va ricordato che il principio di proporzionalità, che informa e deve informare l’attività amministrativa in generale, si applica anche all’attività disciplinare nei confronti dei pubblici dipendenti[7], anche in regime di diritto privato[8]. Con riguardo agli appartenenti all’Arma, in disparte il rapporto di servizio qualificabile in termini di diritto pubblico, l’applicabilità è garantita dall’art. 1355 del Codice dell’Ordinamento militare.
Tale principio, nutrito da nuovi spunti di derivazione comunitaria, si fonda su un triplice cardine che, per ogni circostanza, pretende l’applicazione di misure non soltanto idonee, ma anche strettamente necessarie e comunque adeguate[9], termine quest’ultimo evidentemente da intendersi nel suo significato più profondo che implica la qualificazione né in difetto né in eccesso quanto a intensità.
Circostanze rilevanti in ordine alla gravità della condotta
Nel caso di specie, la ricostruzione dei fatti depone per l’inadeguatezza, per eccesso, della sanzione espulsiva. Ciò sulla base di una molteplicità concorrente di elementi, indiziari della non assoluta gravità della condotta, comunque non sufficiente a giustificare l’interruzione del rapporto di servizio.
Anzitutto, è ben possibile il ricorso alle divise a maniche lunghe, con l’utilizzazione delle quali la potenzialità deturpante del singolo tatuaggio viene chiaramente ridimensionata. In particolare, è possibile l’assegnazione presso unità operative ove non è mai imposta l’uniforme a maniche corte, assegnazione che depriverebbe la lesività per il decoro.
Gli stessi atti di regolazione interna dell’Arma dei Carabinieri[10] non vietano mai espressamente e categoricamente l’incisione della pelle con tatuaggi, limitandosi a formule non assertive e non rigorose, formulate in termini meramente dissuasivi.
Inoltre, la sentenza accenna alla stessa potenziale volontaria rimozione del tatuaggio, che però appare una eventualità evidentemente rimessa alla valutazione individuale, trattandosi di atto di disposizione del corpo.
Diffusione di fotografie ritraenti i tatuaggi a mezzo dei social media
Quanto al secondo profilo di addebito disciplinare, ossia la divulgazione di fotografie ritraenti i predetti tatuaggi attraverso piattaforme di social media, il ricorrente ha opposto di non aver personalmente partecipato all’attività di pubblicazione, riferendola in via esclusiva alla responsabilità di un terzo soggetto.
La sentenza ha ritenuto che tale circostanza non potesse considerarsi aggravante della condotta né autonomamente rilevante dal punto di vista disciplinare in quanto non è stata provata in giudizio la addebitabilità della condotta al fatto attivo o anche omissivo del militare.
Sicché, la diffusione di fotografie ritraenti tatuaggi anche deturpanti assume rilievo disciplinare, anche ai soli fini di aggravamento del trattamento sanzionatorio, unicamente nel caso in cui la medesima sia direttamente dipendente dall’azione, anche solo omissiva, del militare.
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Note
[1] Come effetto dell’equiparazione tra la prevista (d.lgs. 27 dicembre 2019 n. 173) esclusione dall’arruolamento nel Corpo dei Carabinieri e la sanzione della perdita del grado, comunque esclusa dal giudice che ha ritenuto tale operazione ermeneutica contraria al principio tassatività di cui all’art. 1353 cod. ord. militare applicabile al procedimento disciplinare dei militari.
[2] Cons. St., IV, 24 gennaio 2011, n. 504, confermativo di T.A.R. Lazio, I, n. 32768 del 2010, ha ritenuto che la presenza di un tatuaggio comportasse una grave alterazione dell’apparato cutaneo e della funzione fisionomica, accertando la legittimità di un provvedimento di esclusione di un candidato a concorso nell’Arma.
[3] Per una ricostruzione della giurisprudenza, C. Puzzo, Ricorsi su concorsi nella P.A., Milano, Giuffrè, 2011, p. 246 ss.
[4] Cons. St., sez. I, 2 maggio 2011, n. 1352.
[5] Cons. St., IV, 24 febbraio 2011, n. 1200.
[6] Si ricordi che, nel caso sottoposto a rassegna, al militare era stata comminata la sanzione della perdita del grado come effetto di una equiparazione, qualificata parimenti illegittima dal giudice per violazione del principio di tassatività, rispetto alla sanzione, appunto, espulsiva. In considerazione di questa valutazione, appare evidente che le valutazioni in ordine alla proporzionalità della sanzione debbano essere operato proprio con riguardo alla sanzione esplusiva.
[7] Ex recentioribus Tar Lazio, I bis, 2 marzo 2020, n. 2689. In dottrina piace rinviare a M. Viceconte, La discrezionalità del potere disciplinare, in Lavoro e Previdenza Oggi, n. 7, 1986, ora in questa rivista.
[8] C. De Marco, Il potere disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, in Lexitalia, consultato il 5 luglio 2020.
[9] Richiamati da Cons. St., 26 febbraio 2015, n. 964. Definiti in dottrina come “tre gradini”, da M. Santise, Coordinate ermeneutiche di Diritto amministrativo: 2017, Torino, Giappichelli, 2017, n. 649.
[10] Si rinvia alla regolamentazione delle divise, più volte citata.
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