Con la recente sentenza n. 124 del 18 febbraio 2021, il Tribunale Amministrativo Regionale per la Emilia Romagna, sezione prima, ha offerto interessanti spunti di riflessione sulla rilevanza disciplinare della condotta del militare che diffonda proprie fotografie in divisa attraverso un’applicazione di messaggistica istantanea. Il Tribunale bolognese ha in particolare esaminato anche il profilo della congruità della sanzione e dell’importanza che assume, ai fini dell’apprezzamento della gravità della condotta, il contesto dell’invio e il numero di destinatari coinvolti.
Tali interessanti spunti sono di seguito sinteticamente commentati, previa una imprescindibile ricostruzione della vicenda processuale nei termini sufficienti a inquadrare i fatti sottesi al giudizio.
Quaestio facti
I fatti sottesi alla decisione qui in sintetico commento possono essere riassunti nei termini che seguono, con sacrificio dei dettagli non funzionali alla presente indagine.
Il ricorrente, caporale maggiore dell’esercito in servizio presso un’accademia militare, veniva sottoposto a procedimento disciplinare perché, in occasione della vendita di un cucciolo di cane, teneva condotte asseritamente incompatibili con i doveri dello stato militare e con il grado di responsabilità e contegno richiesto dall’appartenenza alle Forze Armate e dal correlato giuramento.
In particolare, le contestazioni disciplinari riguardavano: a) l’aver effettuato la vendita in violazione delle norme che regolamentano l’identificazione e registrazione degli animali mediante microchip; b) l’aver condotto le trattative con una potenziale acquirente a mezzo dell’applicativo di messaggistica istantanea Whatsapp, precisando, a garanzia della propria serietà, di essere un militare e inviando a comprova una propria foto in divisa mimetica; c) l’aver inserito, in una molteplicità di annunci (riferiti alla vendita di cuccioli di cane di varie razze in diverse città d’Italia) pubblicati su siti web, quale recapito telefonico personale, un’utenza mobile intestata all’accademia militare presso cui prestava servizio.
Il procedimento disciplinare si concludeva con l’accertamento della responsabilità: le condotte venivano ritenute incompatibili non soltanto con i doveri derivanti dallo stato militare, ma in generale con gli standard di contegno e responsabilità richiesti al militare. Ne conseguiva la sanzione della sospensione dal servizio.
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Vicende del processo: il ricorso
Il militare proponeva quindi ricorso al T.A.R. competente per territorio, denunciando anzitutto la violazione e falsa applicazione del Codice dell’Ordinamento Militare[1] e, in particolare, delle norme che regolano l’irrogazione delle sanzioni disciplinari[2] nonché eccesso di potere per travisamento ed erronea valutazione dei fatti.
Deduceva – tra l’altro – nel merito che l’invio della fotografia in divisa a mezzo dell’applicativo di comunicazione istantanea whatsapp, nell’ambito di una conversazione privata del tutto estranea rispetto all’attività lavorativa, sarebbe stata condotta priva di qualsiasi correlazione con l’assolvimento dei compiti istituzionali discendenti dall’appartenenza alle Forze Armate e non avrebbe potuto pertanto assumere rilievo ai fini disciplinari.
In ogni caso, la fotografia sarebbe stata utilizzata unicamente per rassicurare la potenziale acquirente sull’affidabilità del venditore e dunque per un uso non biasimevole, tendenzialmente neutro e comunque non collisivo con il contegno proprio del militare e la dignità della divisa.
Per di più egli avrebbe inviato la fotografia unicamente nell’ambito della conversazione privata tramite Whatsapp che, come più volte ricordato, è un applicativo di messaggistica e non un social network, sicché l’immagine non sarebbe stata divulgata a una molteplicità di destinatari, ma la diffusione si sarebbe esaurita nella comunicazione one to one.
Deduceva, a corredo, una illegittima compressione del proprio diritto alla vita privata ex art. 2 della Costituzione.
Le difese dell’Amministrazione
Costituitosi in giudizio, in Ministero della Difesa domandava il rigetto del ricorso, osservando anzitutto – come dal complesso delle prove acquisite – sarebbe risultato che il ricorrente aveva svolto nel tempo in modo non occasione attività di compravendita di animali[3] nell’inosservanza della relativa disciplina di settore.
In merito all’invio della fotografia in divisa, assumeva la violazione del divieto di uso in privato dell’uniforme stabilito dall’art. 720 c. 2 lett. b d.P.R. 15 marzo 2010, n. 90[4]. Tale norma regolamenta l’uniforme e prevede infatti che «Il militare deve avere cura particolare dell’uniforme e indossarla con decoro», ma soprattutto che «L’uso dell’uniforme è vietato al militare: […] nello svolgimento delle attività private e pubbliche consentite».
Il ricorrente replicava stigmatizzando il tentativo di integrazione postuma della motivazione, sottolineando come l’addebito disciplinare si concentrasse unicamente sulla puntiforme vicenda della vendita di un singolo esemplare di cane.
Delimitazione dell’addebito
Secondo la ricostruzione infine operata dal giudice nella sentenza in commento, l’addebito disciplinare doveva essere considerato riferito – avuto riguardo alla formulazione testuale della motivazione del provvedimento di irrogazione della sanzione – al solo episodio della vendita di un cucciolo. Nel merito delle condotte disciplinarmente rilevanti, l’addebito doveva dunque ritenersi circoscritto al mancato rispetto della disciplina sulla vendita degli animali muniti di microchip e all’impropria utilizzazione di una fotografia in divisa nelle trattative con una potenziale acquirente.
Unicamente alla luce di tale delimitazione concettuale dell’addebito può essere attendibilmente essere vagliata la fondatezza delle censure proposte. Talché sono effettivamente da considerarsi irrilevanti eventuali notizie sulla pubblicazione di ulteriori annunci o su trattative riferite ad altre occasioni. Ciò essenzialmente in virtù del principio di corrispondenza tra addebito contestato e addebito, espressione del diritto di difesa.
In particolare, in difetto di prova sul punto, deve ritenersi indimostrato che il ricorrente abbia inviato fotografie anche in altre occasioni ovvero le abbia pubblicate su social network.
Estraneità della condotta rispetto ai compiti istituzionali
Come anticipato, il ricorrente deduce anzitutto che l’invio della fotografia tramite Whatsapp si collocherebbe certamente in una realtà estranea a quella istituzionale: si tratterebbe di una conversazione privata in nulla collegata con le funzioni e le mansioni istituzionali di appartenenza alle Forze Armate. Mancherebbe qualsiasi riferibilità della condotta al servizio e, in tal senso, ricorrerebbe l’ipotesi di un illecito extrafunzionale.
La sentenza qui in commento si discosta da tale linea argomentativa, sottolineando come l’art. 720 c. 2 lett. b d.P.R. 15 marzo 2010, n. 90 richiamato dall’Amministrazione nelle proprie deduzioni difensive effettivamente vieti l’uso dell’uniforme anche nelle attività private. La norma configura pertanto una responsabilità che attinge il militare anche – e proprio – per una condotta che si svolge al di fuori dell’assolvimento dei propri compiti istituzionali, nella propria vita privata.
Rilevanza della natura dell’applicativo di comunicazione
In punto di configurazione della condotta disciplinarmente rilevante, non costituisce esimente la natura di Whatsapp come applicativo di messaggistica istantanea di natura privata e dunque non come social network (quest’ultimo per sua natura finalizzato alla diffusione di contenuti a una pluralità ampia e talvolta indistinta di persone).
Anche l’invio della fotografia in una semplice conversazione privata one to one costituisce infatti un uso della divisa “nello svolgimento di attività private” e dunque non consentito, rendendosi irrilevante la potenziale divulgazione al pubblico indistinto ai fini della astratta configurabilità dell’illecito disciplinare e pur potendo semmai assumere rilievo in punto di gravità della condotta.
Non ha dunque alcuna decisiva importanza la natura o meno di social network dell’applicazione utilizzata ai fini di cui in discorso, quanto alla configurabilità dell’illecito disciplinare, salva l’importanza che può rivestire in punto di gravità della condotta.
Parimenti, appare insufficiente la giustificazione di voler dimostrare l’affidabilità del promissario alienante.
Sindacato sull’entità della sanzione
Le superiori considerazioni conducono al rigetto delle censure per come sinteticamente proposte dal ricorrente nel giudizio in commento. A diverse conclusioni si giunge esaminando però la questione, comunque connessa, della congruità della sanzione. Nella specie, al militare era stata inflitta la sospensione dal servizio per due mesi.
A parere del collegio giudicante del Tribunale bolohnese, tale sanzione appare irragionevole nella misura.
Sul punto va premesso che per costante giurisprudenza l’Amministrazione, in materia di sanzioni disciplinari per dipendenti delle Forze Armate, gode di ampia discrezionalità sia nell’apprezzamento della gravità dei fatti che nella graduazione della sanzione[5]. È dunque fermo che il giudice amministrativo non può sostituirsi al competente organo disciplinare rideterminando nel merito l’entità della sanzione, ma ne può pur sempre valutare estrinsecamente la rispondenza ai principi di ragionevolezza e proporzionalità.
La sanzione deve infatti pur sempre essere congrua e ragionevole, conformandosi al generale principio di proporzionalità e dunque limitando la propria afflittività in misura equivalente alla gravità dell’illecito, senza mai tradursi in una punizione draconiana.
A parere del collegio giudicante del Tribunale bolognese, dunque, nella specie la sanzione appare «manifestamente illogica, tenuto conto della dinamica dei fatti e della natura pur sempre privata del contesto in cui è stata realizzata la condotta».
Il giudice precisa che diverse conclusioni sarebbero discese dalla diffusione pubblica delle immagini per l’attività di compravendita di animali, vertendosi evidentemente in ipotesi di condotta connotata da maggior gravità.
In ogni caso, la condotta del ricorrente conserva rilievo disciplinare e, pertanto, anche se la sanzione è annullata, è salvo il riesercizio del potere disciplinare da parte dell’amministrazione.
Conclusioni
Da tali ultimi rilievi possono trarsi in sintesi le seguenti conclusioni.
È confermato anzitutto che l’invio di una fotografia in uniforme nell’ambito di attività private e dunque estranee ai compiti istituzionali del militare configura pur sempre una condotta disciplinarmente rilevante.
In punto di peso specifico della condotta, la diffusione al pubblico (ad esempio sui social network) costituisce una circostanza che intensifica la gravità dell’illecito, mentre l’invio in una conversazione soltanto privata tendenzialmente la blandisce.
Il giudice, ove accerti l’irragionevolezza della sanzione, l’annulla, non potendo rideterminarla, ma è salvo il riesercizio del potere disciplinare.
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Note
[1] Decreto Legislativo 15 marzo 2010, n. 66.
[2] Art. 1355, rubricato “Criteri per la irrogazione delle sanzioni disciplinari” anche in combinato disposto con l’art. 1357 rubricato “Sanzioni disciplinari di stato” atteso che la sanzione comminata consisteva nella sospensione dal servizio.
[3] Quindi un’attività imprenditoriale addirittura incompatibile con lo status del militare ai sensi del Decreto Del Presidente della Repubblica 15 marzo 2010, n. 90 (Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246).
[4] Testo unico delle disposizioni regolamentari in materia di ordinamento militare, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246.
[5] Ex recentioribus, Consiglio di Stato, sez. III, 13 ottobre 2020, n.6150.
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