La Sezione I della Suprema Corte ha rimesso alle Sezioni Unite la questione sulla condotta consistente nella gestualità tipica del partito fascista tenuta nel corso di una manifestazione commemorativa pubblica.
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Indice
1. Cenni sull’apologia del fascismo
Prima di affrontare la delicata questione relativa ai fatti per cui si procede in giudizio, è giusto contestualizzarla con gli elementi sostanziali. L’apologia del fascismo è un reato previsto dalla legge 645/1952 (Legge Scelba) in attuazione della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, che vieta la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista.
Nello specifico, l’art. 4 della suddetta legge dispone che chiunque “pubblicamente esalta esponenti, principii, fatti o metodi sul fascismo oppure le modalità antidemocratiche proprie del partito fascista è punito con la reclusione fino a due anni“, mentre l’art. 5 che “chiunque, con parole, gesti o in qualunque altro modo compie pubblicamente manifestazioni usuali al disciolto partito fascista è punito con l’arresto fino a tre mesi“.
Successivamente, la legge 205/1993 (Legge Mancino) ha ampliato lo spettro di applicazione del divieto di apologia del fascismo, introducendo una punizione nei confronti della propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, prevedendo la pena fino a tre anni di reclusione per la propagando o per chi incita a commettere (o commette) atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
In particolare, l’art. 2 della legge Mancino punisce “chiunque in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali di organizzazioni, associazioni o movimenti aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi“.
2. La vicenda
I fatti contestati agli imputati si sono verificati in occasione di una manifestazione pubblica, organizzata a Milano il 29 aprile 2016, in memoria di alcuni esponenti del fascismo, nel corso della quale gli imputati rispondevano alla chiamata del “presente” eseguendo il saluto romano.
Con sentenza del 23 dicembre 2020 il Tribunale di Milano assolveva gli imputati dal reato ascritto loro, ai sensi degli artt. 81, secondo comma, 110 c.p., n. 2), co. 1, d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito con modificazioni dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, per insussistenza dell’elemento soggettivo, rilevante ai sensi dell’art. 5 c.p.
Con sentenza del 24 novembre 2022 la Corte d’Appello di Milano, pronunciandosi sull’impugnazione del Pubblico Ministero, in riforma della decisione appellata, condannava gli imputati alla pena di due mesi di reclusione e 200 euro di multa oltre al pagamento delle spese processuali.
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3. Il ricorso in Cassazione
Gli imputati hanno proposto ricorso in Cassazione articolando due motivi.
Con il primo si è censurata la violazione di legge e il vizio di motivazione del provvedimento impugnato per non avere la Corte di merito dato opportuno conto del compendio probatorio indispensabile alla formulazione di un giudizio di colpevolezza degli imputati, su cui ci si era espressi in termini assertivi, senza considerare che, nel caso di specie, non poteva ritenersi sussistente l’elemento soggettivo del reato, ai sensi dell’art. 5 c.p.
Con il secondo motivo si è lamentata la violazione di legge e il vizio di motivazione della sentenza impugnata, per non essersi la Corte territoriale confrontata con le censure difensive, finalizzate a evidenziare come il gesto compiuto dagli imputati, quand’anche riconducibile al saluto romano, doveva ritenersi inidoneo a ledere il bene giuridico tutelato dall’art. 2 della Legge Mancino.
4. L’analisi della Suprema Corte
La Sezione I della Corte di Cassazione ha, dunque, ritenuto necessario rimettere la questione alle Sezioni Unite, anche in considerazione di numerosi orientamenti contrastanti al riguardo.
Si legge nel provvedimento che “secondo un primo orientamento giurisprudenziale che ritiene il saluto fascista sussumibile nella fattispecie dell’art. 2 d.l. 122 del 1993, tale manifestazione esteriore costituisce una rappresentazione tipica delle organizzazioni o dei gruppi che perseguono obiettivi di discriminazione razziale, etnica o religiosa, essendo costituiti per favorire la diffusione di ideologie discriminatorie. Secondo tale opzione ermeneutica, il saluto fascista è una ‘manifestazione esteriore propria od usuale di organizzazioni o gruppi indicati nel decreto legge 26 aprile 1993, n. 122, ed inequivocabilmente diretti a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico’ (Sez. I, n. 21409 del 27/03/2019)“; ne consegue che il relativo gesto integra il reato previsto dall’art. 2 del citato decreto legge (Sez. I, n. 25184 del 04/03/2009).
Altro orientamento citato dalla stessa Corte, invece, ha sancito che “il delitto di cui all’art. 5 della legge 20 giugno 1952, n. 645 è reato di pericolo concreto, che non sanziona le manifestazioni del pensiero e dell’ideologia fascista in sé, attese le libertà garantite dall’art. 21 Cost., ma soltanto quelle manifestazioni che determino il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste, in relazione al momento ed all’ambiente in cui sono compiute, attentando concretamente alla tenuta dell’ordine democratico e dei valori ad esso sottesi” (Sez. V, n. 36162 del 18/04/2019).
5. La rimessione alle Sezioni Unite
Secondo la Sezione I, dunque, occorre affrontare due profili di criticità interpretativa “concernenti l’inquadramento di tali condotte quali reati di pericolo concreto o di pericolo astratto, nonché il rapporto esistente tra le due fattispecie, registrandosi, anche su tali temi, contrasti giurisprudenziali, la cui risoluzione deve essere demandata alle Sezioni Unite“.
Si tratta, secondo la suddetta Sezione, di due questioni interpretative che presuppongono la risoluzione del contrasto tra gli orientamenti giurisprudenziali esposti, postulando l’esatto inquadramento del saluto fascista in una delle due fattispecie astrattamente applicabili a tali condotte illecite.
Inoltre, l’intervento delle Sezioni Unite si rende necessario, al contempo, allo scopo di chiarire quale sia la natura del rapporto tra il reato di cui all’art. 5 legge n. 645/1952 e quello di cui all’art. 2 d. l. 122/1993, rilevandosi anche in questo caso un marcato contrasto giurisprudenziale.
La Sezione I sintetizza questa necessità riprendendo altri due principi di diritto, emanati in momenti molto vicini tra loro, ma nettamente in contrasto.
Secondo il primo di questi, il reato di cui all’art. 2, l. n. 25 giugno 1993, n. 205, “che sanziona le manifestazioni esteriori, suscettibili di concreta diffusione, di simboli e rituali dei gruppi o associazioni che propugnano idee discriminatorie o razziste, si differenzia da quello di cui all’art. 5, legge 26 giugno 1952, n. 645, che richiede che le medesime condotte siano idonee a determinare il pericolo concreto di riorganizzazione del disciolto partito fascista, ponendosi in rapporto di specialità con il primo” (Sez. I, n. 3806 del 19/11/2021).
Il secondo di tali principi, invece, si muove in una direzione ermeneutica esattamente contrapposta, sancendo che “non sussiste rapporto di specialità fra il reato di cui all’art. 2 del d. l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito con modificazioni nella legge 25 giugno 1993, n. 205, che incrimina le manifestazioni esteriori suscettibili di concreta diffusione, di simboli e rituali dei gruppi o associazioni che propugnano nell’attualità idee discriminatorie o razziste, e quello di cui all’art. 5 della legge 26 giugno 1952, n. 645, come modificato dall’art. 11 della legge 22 maggio 1975, n. 152, che sanziona il compimento, in pubbliche riunioni, di manifestazioni simboliche usuali o di gesti evocativi del disciolto partito fascista, non sussistendo un rapporto di necessaria continenza tra le due fattispecie, caratterizzate da un diverso ambito applicativo” (Sez. I, n. 7904 del 12/10/2021).
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