Rinnovazione ex art. 603, c. 3-bis, c.p.p.: quando è possibile?

Nell’ipotesi di riforma in senso assolutorio di una sentenza di condanna, il giudice di appello non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive ai fini della condanna di primo grado. Tuttavia, il giudice di appello (previa, ove occorra, rinnovazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva ai sensi dell’art. 603 cod. proc. pen.) è tenuto ad offrire una motivazione puntuale e adeguata della sentenza assolutoria, dando una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata rispetto a quella del giudice di primo grado.

(Dichiarato inammissibile)

Arresto giurisprudenziale.

(Normativa di riferimento: C.p.p art. 603).

Il fatto

La Corte di assise di appello di Napoli riformava quella di primo grado assolvendo G. T. dalle imputazioni di concorso in omicidio pluriaggravato ai sensi degli artt. 81, 110, 575, 577, primo comma, n. 3, 61, primo comma, n. 1, cod. pen., 7 d.l. n. 152 del 1991 (capo A) e di concorso in detenzione e porto d’arma comune da sparo, aggravati ai sensi degli artt. 110 cod. pen., 2, 4 e 7 della legge n. 895 del 1967, 7 d.l. n. 152 del 1991 (capo B), per non avere commesso il fatto, nonché dal reato di riciclaggio aggravato ai sensi degli artt. 648-bis cod. pen. e 7 d.l. n. 152 del 1991 (capo C), perché il fatto non sussiste.

In particolare, se all’esito del giudizio di primo grado la Corte di assise di Napoli aveva dichiarato la responsabilità dell’imputato in ordine ai reati ascrittigli e, unificati gli stessi sotto il vincolo della continuazione, lo aveva condannato alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno per il periodo di un anno, oltre alle sanzioni interdittive previste dalla legge e al risarcimento dei danni in favore delle parti civili e nel far ciò, fondava il proprio convincimento essenzialmente sulle dichiarazioni testimoniali rese da due agenti di polizia giudiziaria e da un  collaboratore di giustizia che avevano riconosciuto nell’imputato il soggetto ritratto nelle immagini estrapolate da un sistema di videosorveglianza attivato sul luogo dell’omicidio, la Corte di assise di appello, invece, senza procedere ad una nuova assunzione delle prove dichiarative raccolte nel primo giudizio, assolveva l’imputato dopo aver disposto una perizia tecnica il cui esito ha escluso la possibilità di giungere alla identificazione della persona ripresa in un filmato utilizzato per i riconoscimenti precedentemente operati da due agenti di polizia giudiziaria e da un collaboratore di giustizia.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso questa decisione ricorreva il Procuratore generale presso la Corte di appello di Napoli deducendo il vizio di erronea applicazione della legge penale con riferimento all’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., sul rilievo che una corretta valutazione dei dati indiziari avrebbe condotto ad una conferma della decisione di condanna.

L’ordinanza di rimessione

L’Ufficio per l’esame preliminare dei ricorsi presso la Prima Sezione penale  segnalava il ricorso al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, prospettando un potenziale contrasto giurisprudenziale tra l’orientamento della Seconda Sezione (sentenza n. 41571 del 20/06/2017, Marchetta) e i principi affermati dalle Sezioni Unite nelle sentenze n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, e n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, riguardo alla necessità o meno di rinnovazione dell’assunzione della prova dichiarativa in appello in caso di riforma in senso assolutorio della sentenza di primo grado.

In particolar modo si evidenziava che se la sentenza Marchetta la Seconda Sezione affermava che l’obbligo di riassumere la prova orale nel dibattimento d’appello, con riferimento alle dichiarazioni rese dalla persona offesa, sussiste anche nel caso in cui s’intenda ribaltare il giudizio di condanna pronunciato in primo grado ed assolvere l’imputato che ha proposto impugnazione, mella sentenza Dasgupta, invece, le Sezioni Unite ritenevano che l’obbligo di rinnovazione istruttoria della prova dichiarativa decisiva non sussiste nel caso di riforma in senso assolutorio della sentenza di condanna di primo grado.

Alla luce di ciò il Primo Presidente assegnava il ricorso alle Sezioni Unite e ne disponeva la trattazione per l’odierna udienza pubblica.

Le argomentazioni sostenute dalle difese

I difensori delle parti civili a loro volta facevano propri gli argomenti esposti nel ricorso, ponendo in rilievo l’erroneo governo delle regole di acquisizione e valutazione delle prove dichiarative raccolte nel giudizio di primo grado, per avere la Corte di assise di appello effettuato un controllo peritale antropometrico, visivo ed ambientale senza procedere alla rinnovazione delle qualificate testimonianze sulla cui valutazione di piena attendibilità incideva quel tipo di controllo.

Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni unite per dirimere la questione

Il quesito sottoposto allo scrutinio giurisdizionale delle Sezioni Unite era il seguente: “Se il giudice di appello, investito della impugnazione dell’imputato avverso la sentenza di condanna con cui si deduce la erronea valutazione della prova dichiarativa, possa pervenire alla riforma della decisione impugnata, nel senso della assoluzione, senza procedere alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive ai fini della condanna di primo grado”.

Orbene per rispondere a tale quesito, le Sezioni unite avevano prima di tutto osservato come il tema della rinnovazione dibattimentale del giudizio di appello in presenza di una diversa valutazione di prove orali decisive fosse stato già affrontato in linea generale dalla stessa Cassazione la quale aveva affermato il principio secondo cui la previsione contenuta nell’art. 6, par. 3, lett. d), CEDU implica che il giudice di appello, investito della impugnazione del p.m. avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, anche se emessa all’esito di giudizio abbreviato, con cui si adduca una erronea valutazione delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata affermando la responsabilità penale dell’imputato, senza avere proceduto, anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che

abbiano reso dichiarazioni ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267487).

Dopo questa pronuncia, veniva ribadito tale principio con riferimento al giudizio abbreviato (Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, Rv. 269785), stabilendo che è affetta da vizio di motivazione, per mancato rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell’imputato, in riforma di una sentenza assolutoria emessa all’esito di un giudizio abbreviato non condizionato, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, senza che nel giudizio di appello si sia proceduto all’esame delle persone che abbiano reso tali dichiarazioni.

La Corte, nella decisione in commento, osservava come tale orientamento ermeneutico fosse basato su una considerazione che assume un rilievo centrale nella ricostruzione dei tratti fondamentali del sistema processuale penale posto che mentre il ribaltamento in senso assolutorio del giudizio di condanna, operato dal giudice di appello pur senza procedere alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, è perfettamente in linea con il principio della presunzione di innocenza, presidiata dai criteri di giudizio di cui all’art. 533 cod. proc. pen., diversamente è da dire nell’ipotesi inversa e ciò per effetto dell’introduzione del canone “al di là di ogni ragionevole dubbio”, inserito nell’art. 533, comma 1, cod. proc. pen. ad opera della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (ma già individuato quale inderogabile regola di giudizio da Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222139), che ha guidato la giurisprudenza nel senso che, per la riforma di una sentenza assolutoria nel giudizio di appello, non basta, in mancanza di elementi sopravvenuti, una mera diversa valutazione del materiale probatorio già acquisito in primo grado ed ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, ma occorre invece una “forza persuasiva superiore”, tale da far venire meno “ogni ragionevole dubbio”; difatti, osservano le Sezioni unite, la condanna, come incisivamente notato da Sez. 6, n. 40159 del 03/11/2011, Galante, Rv. 251066 «presuppone la certezza della colpevolezza, mentre l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza ma la mera non certezza della colpevolezza».

Da tale passaggio argomentativo gli ermellini pervenivano alla conclusione secondo la quale nella valutazione degli elementi di prova, dunque, è lo stretto collegamento fra la regola del “ragionevole dubbio” e il principio costituzionale della presunzione di innocenza ad imporre al giudice d’appello il rispetto di un più elevato standard argomentativo per la riforma di una sentenza assolutoria e, al contempo, la garanzia della rinnovazione istruttoria interviene per controbilanciare il rischio di una prima condanna in appello, qualunque sia la natura, ordinaria o a cognizione “contratta”, del procedimento penale.

A questo riguardo si rilevava, sempre nella pronuncia qui in commento, che le Sezioni unite, muovendo da questi postulati normativi, avevano specificamente affrontato, in un passaggio della sentenza Dasgupta, la questione qui esaminata, affermando che l’obbligo di rinnovazione istruttoria della prova dichiarativa decisiva non sussiste nel caso di riforma in senso assolutorio della sentenza di condanna di primo grado e quindi, proprio in quanto non veniva  in rilievo il principio del “ragionevole dubbio”,  la Corte aveva ritenuto in quella occasione  di non poter condividere l’orientamento (Sez. 2, n. 32619 del 24/04/2014, Pipino, Rv. 260071; Sez. 2, n. 50643 del 18/11/2014, Fu, Rv. 261327; Sez. 2, n. 36434 del 21/07/2015, Migliore s.p.a.; Sez. 5, n. 36208 del 13/02/2015, Nascimbene; Sez. 5, n. 42389 del 11/05/2015, De Ligio), secondo cui, anche in caso di riforma della sentenza di condanna in senso assolutorio, il giudice di appello, al di là di un dovere di “motivazione rafforzata”, deve previamente procedere ad una rinnovazione della prova dichiarativa; pur tuttavia, da tale esito interpretativo, si discostava una successiva pronuncia della Seconda Sezione che riteneva  sussistente l’obbligo di riassumere la prova orale nel dibattimento d’appello, con riferimento alle dichiarazioni rese dalla persona offesa, anche nel caso in cui si intenda ribaltare l’esito di condanna del giudizio di primo grado ed assolvere l’imputato che ha proposto impugnazione (Sez. 2, n. 41571 del 20/6/2017, Marchetta, Rv. 270750) in quanto, muovendo dalla elaborazione giurisprudenziale della Corte EDU e da talune affermazioni delle Sezioni Unite nella sentenza Dasgupta, secondo cui «la percezione diretta è il presupposto tendenzialmente indefettibile di una valutazione logica, razionale e completa», la sentenza Marchetta estendeva il metodo orale nell’apprezzamento della prova dichiarativa ad ogni ipotesi di overtuming decisorio nel giudizio di appello.

In tale differente elaborazione interpretativa, si attribuiva un ruolo centrale al principio di immediatezza, ritenendosi iniqua una decisione di riforma assunta in appello senza che il giudice abbia avuto diretta percezione dei contributi cognitivi forniti dalle fonti orali” e, in tale ottica, operandosi in tal guisa, tale principio veniva dunque ad assorbire, unitamente a quello della motivazione rafforzata, il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio, perché qualunque «overturning che sia basato su compendi probatori “deprivati” rispetto a quelli utilizzati dal primo giudice» sarebbe censurabile, indipendentemente dagli esiti decisori dell’appello.

Nella sentenza “Marchetta”, infine, si concludeva questo percorso argomentativo enunciando il principio di diritto secondo cui «l’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., in applicazione dell’art. 6 CEDU, deve essere interpretato nel senso che il giudice di appello per pronunciare sentenza di assoluzione in riforma della condanna del primo giudice deve previamente rinnovare la prova testimoniale della persona offesa, allorché, costituendo prova decisiva, intenda valutarne diversamente la attendibilità, a meno che tale prova risulti travisata per omissione, invenzione o falsificazione».

Orbene, una volta citato questo indirizzo nomofilattico, le Sezioni unite ritenevano di non aderire a questo approdo interpretativo alla luce delle seguenti ragioni.

Veniva in primo luogo messo in risalto che sulla questione controversa le Sezioni Unite Dasgupta si erano già pronunciate escludendo con chiarezza la sussistenza dell’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa decisiva nell’ipotesi del ribaltamento in appello di una decisione di condanna e della conseguente riforma in senso assolutorio e tra le argomentazioni ivi addotte, si evidenziava come in quell’occasione,  da un lato, fosse stato valorizzato l’apporto informativo derivante dalla oralità e dal contraddittorio come condizioni essenziali della correttezza e completezza del ragionamento probatorio, dall’altro lato detto apporto fosse stato posto in stretta relazione con il più intenso onere argomentativo imposto per la riforma di una sentenza assolutoria dalla regola del “ragionevole dubbio”, quale canone di giudizio che informa l’intero sistema processuale; in quest’ottica, dunque, dunque, non vi era spazio per giungere alle medesime conclusioni nel diverso caso in cui, basandosi su una differente valutazione della prova dichiarativa nei due gradi di giudizio, la riforma in appello pervenga ad un esito assolutorio rispetto ad una sentenza di condanna pronunciata in primo grado anche perché la disposizione che ha introdotto nel sistema codicistico il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio è stata, non a caso, riferita dal legislatore all’esclusivo ambito di applicazione dell’art. 533 cod. proc. pen., che attiene alla pronuncia di una sentenza di condanna, mentre dall’art. 530 cod. proc. pen., che disciplina il diverso esito assolutorio, non soltanto non emerge un criterio di giudizio analogo, ma ne affiora, nella sostanza, uno opposto e, infatti, nel comma 2 di tale articolo, si prevede che il giudice debba pronunciare assoluzione in tutti i casi in cui un dubbio sussiste e non può essere superato, ciò che equivale a descrivere – dalla prospettiva dell’assoluzione – il mancato soddisfacimento della regola del ragionevole dubbio.

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Posto ciò, una volta rilevato che sulla medesima linea interpretativa tracciata dalla sentenza Dasgupta si era posta successivamente la prevalente elaborazione giurisprudenziale della Corte, le Sezioni unite, nella decisione qui in analisi, osservavano come presunzione di innocenza e ragionevole dubbio imponessero soglie probatorie asimmetriche in relazione alla diversa tipologia dell’epilogo decisorio: la certezza della colpevolezza per la condanna, il dubbio processualmente plausibile per l’assoluzione e le medesime conseguenze valevano sulla estensione dell’obbligo di motivazione, che, in caso di totale riforma in grado di appello, si atteggia diversamente a seconda che si verta nell’ipotesi di sovvertimento della sentenza assolutoria ovvero in quella della totale riforma di una sentenza di condanna dato che se nel primo caso al giudice d’appello si impone l’obbligo di argomentare circa la plausibilità del diverso apprezzamento come l’unico ricostruibile al di là di ogni ragionevole dubbio, in ragione di evidenti vizi logici o inadeguatezze probatorie che abbiano inficiato la permanente sostenibilità del primo giudizio, per il ribaltamento della sentenza di condanna, il giudice d’appello può invece limitarsi a giustificare la perdurante sostenibilità di ricostruzioni alternative del fatto, sulla base di un’operazione di tipo essenzialmente demolitivo fermo restando però che affinché ciò ossa avvenire occorre che si tratti di ricostruzioni non solo astrattamente ipotizzabili in rerum natura, ma la cui plausibilità nella fattispecie concreta risulti ancorata alle risultanze processuali, assunte nella loro oggettiva consistenza.

E’ dunque necessario, ad opinione della Corte, che il dubbio ragionevole risponda non solo a criteri dotati di intrinseca razionalità, ma sia suscettibile di essere argomentato con ragioni verificabili alla stregua del materiale probatorio acquisito al processo.

La Corte faceva altresì presente che, all’assenza di un obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa in caso di ribaltamento assolutorio, dovesse affiancarsi l’esigenza che il giudice d’appello strutturi la motivazione della decisione assolutoria in modo rigoroso, dando puntuale ragione delle difformi conclusioni assunte e ciò sulla scorta di un risalente elaborazione giurisprudenziale di questa Corte (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679; Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, Musumeci, Rv. 191229), che ha stabilito, in linea generale, l’obbligo di una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni raggiunte nel caso in cui il giudice di appello riformi totalmente la decisione di primo grado, sostituendo all’assoluzione l’affermazione di colpevolezza dell’imputato.

Da ciò i giudici di piazza Cavour giungevano alla conclusione secondo la quale il giudice di appello, nel riformare la condanna pronunciata in primo grado con una sentenza di assoluzione, dovesse confrontarsi con le ragioni addotte a sostegno della decisione impugnata, giustificandone l’integrale riforma senza limitarsi ad inserire nella struttura argomentativa della riformata pronuncia delle generiche notazioni critiche di dissenso, ma riesaminando, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal primo giudice e quello eventualmente acquisito in seguito, per offrire una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia adeguata ragione delle difformi conclusioni assunte e quindi, nell’ipotesi di ribaltamento della prima decisione, non posso essere accomunati obblighi dimostrativi che hanno origine e finalità sostanzialmente differenti, perché derivanti da una insuperabile asimmetria di statuti probatori necessariamente imposti dalla interazione della presunzione di innocenza e del canone del ragionevole dubbio con la peculiare tipologia di esito decisorio della pronuncia riformata sicchè il canone del ragionevole dubbio, per la sua immediata derivazione dal principio della presunzione di innocenza, esplica i suoi effetti conformativi non solo sull’applicazione delle regole di giudizio e sulle diverse basi argomentative della sentenza di appello che operi un’integrale riforma di quella di primo grado, ma anche, e più in generale, sui metodi di accertamento del fatto, imponendo protocolli logici del tutto diversi in tema di valutazione delle prove e delle contrapposte ipotesi ricostruttive in ordine alla fondatezza del tema d’accusa ossia la certezza della colpevolezza per la pronuncia di condanna, il dubbio originato dalla mera plausibilità processuale di una ricostruzione alternativa del fatto per l’assoluzione.

A fronte di ciò, la Cassazione, a questo punto della motivazione, metteva in risalto un altro principio ossia quello di immediatezza nell’acquisizione della prova dichiarativa il cui ambito di operatività non ha carattere assoluto, ma deve, anzi, essere considerato recessivo là dove, come nel caso della riforma di una sentenza di condanna, il principio del ragionevole dubbio non venga in questione mentre si impone unicamente in caso di sovvertimento della sentenza assolutoria, poiché è solo tale esito decisorio che conferma la presunzione di innocenza e rafforza il peso del ragionevole dubbio – operante solo pro reo e non per le altre parti del processo – sulla valenza delle prove dichiarative.

Difatti è proprio tale asimmetrica incidenza del principio del ragionevole dubbio, operante in favore del solo imputato, che rende necessitato il ricorso al metodo di assunzione della prova dichiarativa, epistemologicamente più affidabile, unicamente per il sovvertimento in appello della decisione assolutoria di primo grado e trova così una razionale giustificazione, alla stregua delle regole costituzionali del giusto processo, il diverso e meno rigoroso protocollo di assunzione cartolare della prova dichiarativa nell’ipotesi della riforma di una sentenza di condanna.

Il principio di immediatezza, così inteso, agisce pertanto come fondamentale, ma non indispensabile, connotato del contraddittorio e non è affatto dotato di valenza costituzionale autonoma, subendo anzi svariate, e del tutto giustificate, deroghe (con riferimento, ad es., alla possibile valutazione di prove precostituite) nella disciplina processuale ordinaria fermo restando, però, che esso non può essere usato per modificare le caratteristiche del giudizio di appello, trasformandone la natura sostanzialmente cartolare in quella di un novum iudicium, con l’ulteriore rischio di una irragionevole diluizione dei tempi processuali.

A questo punto della motivazione, la Corte specificava e chiariva ulteriormente il significato da doversi conferire al principio di immediatezza alla luce della giurisprudenza costituzionale e quella sovranazionale,

Per quanto riguarda il diritto vivente, si osservava come la Consulta, nel delineare i tratti del principio di immediatezza, avesse per lo più fatto riferimento, sia pure nella prospettiva della regola dell’immutabilità del giudice, ad «uno degli aspetti essenziali del modello processuale accusatorio», chiarendo che esso «costituisce uno dei profili del diritto alla prova, strumento necessario del diritto di azione e di difesa, da riconoscere lungo l’arco di tutto il complesso procedimento probatorio, quale diritto alla ricerca della prova, alla sua introduzione nel processo, alla partecipazione diretta alla sua acquisizione davanti al giudice terzo e imparziale, da ultimo alla sua valutazione ai fini della decisione da parte dello stesso giudice» (Corte cost., ord. n. 205 del 2010).

La C.E.D.U., dal canto suo, movendosi in una prospettiva non dissimile, non individuava un diritto potestativo delle parti, ritenendo, piuttosto, che dovesse esservi una valida ragione per la riassunzione, così da escludere una lesione in concreto del diritto alla prova e a questo riguardo, sotto un altro, ma connesso profilo, venivano prese in considerazione le implicazioni sottese al filo evolutivo che aveva caratterizzato l’elaborazione giurisprudenziale della Corte di Strasburgo riguardo alla necessità di rinnovazione della prova dichiarativa quale strumento di attuazione del contraddittorio ai fini dell’equo processo osservandosi che se, da un lato, poteva ritenersi nettamente prevalente l’orientamento secondo cui la riassunzione orale delle fonti di prova nel giudizio d’appello deve avvenire nell’ipotesi in cui il giudice sia chiamato ad operare una valutazione completa delle questioni relative alla colpevolezza o all’innocenza del ricorrente, era pur vero, dall’altro lato, che tale deciso richiamo al metodo dell’oralità non è mai stato in concreto riferito alla ipotesi della reformatio in melius, ma veniva sempre declinato nella diversa prospettiva del ribaltamento dell’esito assolutorio in condanna (Corte EDU, 24/11/1986, Unterpertinger c. Austria; 07/07/1989, Bricmont c. Belgio; 18/05/2004, Destrehem c. Francia; 21/09/2010, Marcos Barrios c. Spagna; 05/07/2011, Dan c. Moldavia; 05/03/2013, Manolachi c. Romania; 04/06/2013, Hanu c. Romania; 04/06/2013, Kostecki c. Polonia; 28/02/2017, Manoli c. Moldavia; 29/06/2017, Lorefice c. Italia).

Chiarito ciò, si rilevava però al contempo come tale risalente indirizzo della giurisprudenza convenzionale non era univocamente orientato, poiché in alcune, più recenti, decisioni era stata esclusa, in relazione alle medesime evenienze procedimentali, la necessità della rinnovazione probatoria in appello, ritenendosi sufficiente, per integrare la soglia della garanzia convenzionale, anche solo una motivazione particolarmente approfondita sulle ragioni del mutato apprezzamento delle risultanze processuali, con l’evidenza degli errori compiuti dal giudice di primo grado e la previsione di un controllo sul rispetto di quell’obbligo (Corte EDU, 26/04/2016, Kashlev c. Estonia; 27/06/2017, Chiper c. Romania); nel dettaglio, tali decisioni non ritenevano configurabile, in capo alle giurisdizioni nazionali, un obbligo perentorio di nuova escussione di tutti i testimoni la cui credibilità sia stata rivalutata nel contesto del giudizio d’impugnazione posto che la violazione dell’equità processuale, secondo tale diversa linea interpretativa, non veniva fatta discendere in modo automatico dalla intersezione degli effetti dell’omessa rinnovazione probatoria e della reformatio in peius nel giudizio d’appello occorrendo, per contro, verificare la specifica forza probante delle singole testimonianze nella ricostruzione dei fatti di causa, con il logico corollario che anche una motivata esclusione dell’utilità di una nuova deposizione può ritenersi sufficiente ai fini del vaglio sulla complessiva equità del procedimento, ove il giudice dell’impugnazione abbia specificamente argomentato in merito alle ragioni che l’abbiano indotto a discostarsi dal precedente verdetto assolutorio.

Rileva però la Corte nella pronuncia in esame che, al di là delle, pur visibili, oscillazioni affioranti dalla lettura di garanzie procedurali comunque stabilite dall’art. 6 CEDU in funzione di tutela del fondamentale principio della presunzione di innocenza dell’accusato, fosse certo che l’evoluzione della giurisprudenza convenzionale tende attualmente a configurare uno statuto della rinnovazione istruttoria non più fondato su linee rigidamente tracciate, affiancando al tradizionale richiamo all’oralità l’esigenza di un apprezzamento svolto caso per caso, al di fuori di ogni automatismo, secondo il canone interpretativo di un’accurata motivazione sulla affidabilità della prova e, più in generale, sull’assenza di una valutazione irragionevole od arbitraria del suo risultato trattandosi per contro di un fascio di tutela il quale, sebbene non ancora compiutamente cristallizzato, sembra pur tuttavia rimodellarsi all’interno di un più ampio percorso evolutivo che ha di recente portato la giurisprudenza convenzionale a rivedere, in tema di diritto al contraddittorio, il tradizionale divieto di condanna nelle ipotesi in cui la prova, unica o determinante, sia costituita da testimonianze acquisite unilateralmente, affermando la compatibilità convenzionale di quest’ultima là dove sia riconosciuto all’imputato un quadro di garanzie (ad es., un approfondito apparato motivazionale sulla consistenza della base probatoria) concretamente idoneo ad assicurare l’equità complessiva del procedimento (Corte EDU, Grande camera, 15 dicembre 2011, Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito; Corte EDU, GC, 15/12/2015, Schatschaschwili c. Germania).

Tirando le somme di quanto sin qui esposto, la Corte ne faceva conseguire che, anche alla luce della complessa evoluzione giurisprudenziale tuttora in atto presso la Corte di Strasburgo, l’eventuale estensione della regola della rinnovazione istruttoria, al di fuori dei casi nei quali essa è stata sempre declinata nella giurisprudenza convenzionale, ossia quelli relativi alla riforma dell’assoluzione in condanna, deve essere attentamente vagliata dal giudice dell’impugnazione all’interno di un prudente bilanciamento che tenga conto sia del complessivo grado di equità del procedimento, sia del diverso quadro di esigenze di ordine giuridico-costituzionale ed epistemologico che vengono in rilievo in tale specifica evenienza poiché le garanzie poste dall’art. 6 CEDU sono state delineate in favore del destinatario di un’accusa in materia penale e in funzione della tutela del principio fondamentale della presunzione di innocenza della persona sottoposta al processo penale (cui sono strumentali le specifiche prescrizioni procedurali previste dal par. 3 di tale norma convenzionale), secondo una formulazione la cui area semantica deve ritenersi sostanzialmente equivalente, ai sensi dell’art. 52, par. 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, al contenuto normativo dell’art. 48 della Carta medesima, ove si stabilisce che «ogni imputato è considerato innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata».

Ritornando ad esaminare quanto previsto in Italia, si osservava come il nostro ordinamento costituzionale avesse operato una ben precisa scelta di sistema, delineando il processo penale come strumento di accertamento della colpevolezza e non dell’innocenza per poi osservare, da una lettura congiunta dei sistemi di garanzie sia domestico, che sovranazionale, che la previsione dei diritti fondamentali dell’equo processo, così come delineati non solo dalla nostra Costituzione (artt. 25, 27, 111), ma anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (artt. 47 e 48) e dalla CEDU (art. 6); orbene, tutto ciò si traduce, come risulta evidente dalla loro complessiva enunciazione, nella creazione di una vasta area di garanzia dei diritti e delle facoltà della persona sottoposta ad un procedimento penale al cui interno il principio della presunzione di non colpevolezza svolge un fondamentale ruolo di riequilibrio dell’ordine processuale, poiché, mentre il pubblico ministero è tenuto a provare i fatti costitutivi di un reato “al di là di ogni ragionevole dubbio”, per l’imputato è sufficiente insinuare il dubbio circa l’esistenza di elementi negativi a discarico o impeditivi ai fini dell’accertamento della sua responsabilità.

A sua volta il sistema del processo penale non presenta affatto un’architettura simmetrica, rilevando in tale prospettiva le implicazioni sottese alle regole di applicazione del principio posto dall’art. 27, secondo comma, Cost., con il corrispondente quadro normativo ordinario delineato negli artt. 530, comma 2, e 533, comma 1, cod. proc. pen. e analoga impostazione è stata accolta nella direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016, il cui termine di recepimento negli Stati membri è fissato alla data del 10 aprile 2018, poiché le fondamentali disposizioni di garanzia contenute negli artt. 2 e 3 ne riferiscono l’ambito di applicazione alle sole «persone fisiche che sono indagate o imputate in un procedimento penale», non alle altre parti del processo. Gli Stati membri sono chiamati ad assicurare (art. 6, par. 2) che ogni dubbio in merito alla colpevolezza sia valutato in favore dell’indagato o dell’imputato, «anche quando il giudice valuta se la persona in questione debba essere assolta» così come considerazioni non dissimili investono il principio costituzionale del contraddittorio rispetto al quale la Consulta, con la sentenza n. 26 del 2007, ammetteva la possibilità, in linea teorica e generale, di una distribuzione asimmetrica delle facoltà e dei poteri processuali delle parti, purché compatibili, entro limiti di complessiva ragionevolezza rispetto agli altri valori costituzionali in gioco, con il principio di parità delle parti e con l’ottica del giusto processo con ciò evidenziandosi, nella decisione in commento, come asimmetrie e differenze di trattamento nella previsione di facoltà e prerogative processuali siano possibili, alla condizione di una loro ragionevole base di riferimento all’interno del sistema processuale, senza che ciò mini le esigenze di funzionalità strettamente legate alla dimensione operativa del contraddittorio come strumento di attuazione del giusto processo.

Una volta formulate queste articolare considerazioni giuridiche, la Corte osservava come se non potesse negarsi che il ruolo della “vittima” del reato all’interno del processo penale ha progressivamente assunto una dimensione operativa ed una rilevanza prima sconosciute, specie per effetto delle indicazioni provenienti dalla legislazione europea, quanto alla previsione di una serie di prerogative ed efficaci strumenti di tutela citando all’uopo diverse normative comunitarie finalizzate a questo fine (direttiva 2012/29/UE del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e sostituisce la precedente decisione-quadro 2001/220/GAI, con l’obiettivo di armonizzare le disposizioni normative degli Stati membri dell’Unione in relazione alle modalità di esercizio dei diritti delle vittime lungo tutto l’arco del procedimento penale) nonché normative interne attuative interne (a) il decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 24 (attuativo della direttiva 2011/36/UE, relativa alla prevenzione e alla repressione della tratta di esseri umani e alla protezione delle vittime, che sostituisce la decisione-quadro 2002/629/GAI); b) il decreto legislativo 11 febbraio 2015, n. 9 (attuativo della direttiva 2011/99/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 dicembre 2011 sull’ordine di protezione europeo); c) la legge 1° ottobre 2012, n. 172, di ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa del 2007 per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale (Convenzione di Lanzarote); d) la legge 27 giugno 2013, n. 77, di ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, firmata ad Istanbul 1’11 maggio 2011), però al contempo non fosse possibile far risalire da queste normative disposizioni volte ad imporre agli Stati membri la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello nei casi in cui dalla rivalutazione dell’attendibilità delle sue dichiarazioni potesse derivare una riforma in melius della sentenza (per quelle comunitarie), né l’introduzione di una previsione di alcun obbligo normativo di rinnovazione della escussione del dichiarante (per quelle interne attuative).

Oltre a ciò, veniva altresì rilevato che, sempre dalla lettura di queste norme giuridiche, non potesse nemmeno trarsi da esse alcuna indicazione circa l’imposizione di una pretesa simmetria di ruoli fra la vittima e l’imputato, ma, semmai, l’esigenza di affidare alla saggia ponderazione del giudice la decisione di rinnovarne, se del caso, la deposizione nelle ipotesi di c.d. reformatio in melius.

Posto ciò, la Corte entra nel merito della questione esaminando innanzitutto il “nuovo” art. 603 c.p.p. introdotto per effetto della legge 23 giugno 2017, n. 103 (c.d. “riforma Orlando”) ossia l’inserimento, in seno a questo precetto normativo, un nuovo comma 3-bis, che così recita: «Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale».

La Cassazione, dopo aver fatto ciò, rilevava da subito come detta modifica legislativa si ponesse su di una prospettiva di sostanziale continuità rispetto al quadro di principi stabiliti dalle Sezioni Unite di questa Corte con le citate sentenze Dasgupta e Patalano, limitando l’obbligo di rinnovazione alla sola ipotesi dell’appello proposto dal pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento, senza imporla quando l’epilogo decisorio oggetto del giudizio di appello sia invece una decisione di condanna, e quindi il testo normativo così interpolato dal legislatore non offriva, sempre a detta della Corte, alcuno spazio lessicale per sostenere la tesi prospettata dalla Seconda Sezione con la sentenza Marchetta, avendo il legislatore chiaramente mutuato nel corpo della novellata disposizione di cui all’art. 603 cod. proc. pen. quel nesso logico-funzionale che le Sezioni Unite hanno già individuato fra l’esito liberatorio di primo grado e la possibile condanna in appello.

Da ciò se ne faceva discendere la conclusione secondo la quale la rinnovazione funzionale al proscioglimento va posta in relazione con i meccanismi di funzionamento propri delle ordinarie regole di ammissione della prova indicate dall’art. 603, comma 1 e comma 3, cod. proc. pen. (evenienze procedimentali, queste, che a loro volta si traducono nella previsione di poteri, non già di doveri, di rinnovazione in capo al giudice d’appello, valorizzando il metodo dell’oralità nelle specifiche ipotesi della non decidibilità allo stato degli atti (comma 1), ovvero della assoluta necessità di provvedere ex officio all’integrazione del quadro probatorio (comma 3) e, dunque, anche a seguito delle modifiche operate dal legislatore, una lettura combinata dell’intero catalogo di situazioni enucleate nell’art. 603 non osta ad una (eventuale) diretta rivalutazione del contenuto delle prove dichiarative sulle quali si basa una sentenza di condanna, qualora il giudice dell’impugnazione in tal senso si orienti alla luce degli indicati parametri normativi).

Per le medesime ragioni si stimava come il giudice non fosse affatto obbligato, nell’ipotesi qui considerata, a rinnovare l’istruzione dibattimentale, ma potesse riformare in senso assolutorio la decisione impugnata senza procedere ad una nuova assunzione delle dichiarazioni ritenute decisive ai fini del giudizio di condanna concluso in primo grado, purché venisse fornita in motivazione una puntuale e adeguata giustificazione delle difformi conclusioni cui è pervenuto.

Nel delimitare la portata dell’obbligo di rinnovazione alla sola ipotesi di ribaltamento conseguente all’applicazione della regola contenuta nel nuovo comma 3-bis, si evidenziava come il legislatore avesse inteso attribuire al libero convincimento del giudice di appello la possibilità di esercitare poteri discrezionali di rinnovazione nella situazione inversa, differenziandone i contenuti e graduandone, al contempo, l’intensità con riferimento alle diverse evenienze disciplinate nei primi tre commi dell’art. 603 cod. proc. pen. mentre una diversa soluzione ermeneutica, imponendo praeter legem la regola della rinnovazione istruttoria anche ai fini del proscioglimento, trasformerebbe inevitabilmente l’appello in una innaturale replica del giudizio di primo grado.

E’ la legge, infatti, prosegue la Corte nel suo ragionamento decisorio, a stabilire «i casi in cui le prove sono ammesse di ufficio» (art. 190, comma 2, cod. proc. pen.), spettando al legislatore sia la tassativa indicazione delle ipotesi in cui il giudice può ammettere ex officio i mezzi di prova, sia la disciplina dei relativi presupposti, con il logico corollario del divieto di estensione analogica dell’ambito di applicazione di un potere officioso al cui effettivo esercizio il vigente sistema processuale attribuisce un carattere solo residuale.

Veniva altresì messo in risalto come, sotto un altro, ma connesso profilo, la richiesta di riforma della sentenza di proscioglimento avanzata dalla parte pubblica per ottenere la condanna dell’imputato facesse scattare l’obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa determinando un effetto espansivo del principio di immediatezza nel giudizio di appello, senza che alcuna distinzione al riguardo possa evincersi dal testo normativo a seconda che l’atto di impugnazione si innesti su un giudizio ordinario o abbreviato posto che la formulazione del nuovo comma 3-bis dell’art. 603 va inquadrata all’interno di un più ampio contesto normativo che, non solo, impone al soggetto impugnante una specifica delineazione dei temi oggetto del contraddittorio, ma, al contempo, mira ad un sensibile rafforzamento del controllo sulla specificità dei motivi di appello e, prima ancora, della stessa sostanza argomentativa della decisione di primo grado.

Da ciò se ne traeva la conclusione alla stregua della quale, anche in caso di appello avverso la sentenza di proscioglimento, il pubblico ministero fosse tenuto a rispettare i requisiti di specificità richiesti dall’art. 581, criticando gli errori commessi dal giudice di primo grado nella valutazione della prova dichiarativa e motivando in modo adeguato le proprie richieste, anche istruttorie, al secondo giudice.

Pertanto, secondo la Corte, alla luce del nuovo quadro normativo risultante dai numerosi innesti operati per effetto della legge n. 103 del 2017,  non era configurabile a carico del giudice di appello l’obbligo di disporre una rinnovazione generale ed incondizionata dell’attività istruttoria svolta in primo grado, ben potendo quest’ultima essere concentrata solo sulla fonte la cui dichiarazione sia oggetto di una specifica censura da parte del pubblico ministero attraverso la richiesta di una nuova valutazione da parte del giudice di appello, operando poi, nel caso in cui a seguito di tale rinnovazione dovesse apparire “assolutamente necessario” lo svolgimento di ulteriore attività istruttoria, la disciplina ordinaria prevista dall’art. 603, comma 3, cod. proc. pen. giacchè l’espressione utilizzata dal legislatore nella nuova disposizione di cui al comma 3-bis, secondo cui il giudice deve procedere, nell’ipotesi considerata, alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, non equivale infatti alla introduzione di un obbligo di rinnovazione integrale dell’attività istruttoria – che risulterebbe palesemente in contrasto con l’esigenza di evitare un’automatica ed irragionevole dilatazione dei tempi processuali – ma semplicemente alla previsione di una nuova, mirata, assunzione di prove dichiarative ritenute dal giudice d’appello “decisive” ai fini dell’accertamento della responsabilità.

L’interpolazione operata dal legislatore sul testo normativo dell’art. 603 cod. proc. pen., dunque, non contempla eccezioni di sorta, ma consente l’applicabilità della regola posta dal nuovo comma 3-bis ad ogni tipo di giudizio, ivi compresi i procedimenti svoltisi in primo grado con il rito abbreviato dato che la richiesta formulata dall’imputato ai sensi dell’art. 438, comma 1, cod. proc. pen. introduce un giudizio solo tendenzialmente impostato a prova “contratta” (ex artt. 438, comma 5, 441, comma 5, e 441-bis, comma 5, cod. proc. pen.), il cui svolgimento non preclude l’esercizio dei poteri officiosi assegnati al giudice d’appello dall’art. 603, comma 3, cod. proc. pen. (Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, dep. 1996, Clarke, Rv. 203427) ed il cui scopo, nel caso venga pronunciata una sentenza di condanna che abbia ribaltato una sentenza assolutoria, rimane sempre e comunque quello del superamento di ogni ragionevole dubbio nella prospettiva dell’avvenuta costituzionalizzazione del principio del giusto processo (Sez. U, n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, cit., in motivazione); del resto non si spiegherebbe altrimenti, in sede di rito abbreviato, il richiamo formalmente operato dall’art. 442, comma 1, cod. proc. pen. agli artt. 529 ss. cod. proc. pen., e dunque alla regola di giudizio posta dall’art. 533, comma 1, cod. proc. pen..

A sua volta se è vero che la decisione assolutoria del primo giudice è sempre tale da ingenerare la presenza di un dubbio sul reale fondamento dell’accusa, è altrettanto vero che tale dubbio può ragionevolmente essere superato solo attraverso una concreta variazione della base cognitiva utilizzata dal giudice d’appello, unitamente ad una corrispondente “forza persuasiva superiore” della relativa motivazione, quando il meccanismo della rinnovazione debba essere attivato in relazione ad una prova dichiarativa ritenuta decisiva nella prospettiva dell’alternativa decisoria sopra indicata.

Il legislatore, di conseguenza,  operando in tal modo, ha attuato un ragionevole bilanciamento fra le esigenze, parimenti meritevoli di tutela, connesse all’esercizio del generale potere dispositivo delle parti in materia probatoria, con la conseguente rinuncia alla formazione della prova nel contraddittorio (art. 111, quinto comma, Cost.), e quelle correlate al rischio di una condanna ingiusta nel giudizio di appello, sotto il profilo della violazione dei canoni epistemologici di accertamento della verità a seguito di una sentenza di assoluzione che ha reso concreta, e per certi versi stabilizzato, la presunzione di innocenza dell’imputato (art. 27, secondo comma, Cost.), innalzandone la soglia all’esito del giudizio di primo grado.

Dal canto suo la rinuncia al contraddittorio, d’altronde, non può riflettersi negativamente sulla giustezza della decisione, né può incidere sulla prioritaria funzione cognitiva del processo, il cui eventuale esito di condanna esige, sia nel giudizio ordinario che in quello abbreviato, la prova della responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio, poiché oggetto del consenso dell’imputato ai sensi dell’art. 111, quinto comma, Cost. è la rinuncia ad un metodo di accertamento, il contraddittorio nella formazione della prova, non all’accertamento della responsabilità nel rispetto del canone epistemologico attraverso cui si invera il principio stabilito dall’art. 27, secondo comma, Cost. anche poiché nell’ elaborazione giurisprudenziale della Corte europea dei diritti dell’uomo – le cui conclusioni presuppongono una delicata comparazione fra opposte esigenze di tutela, secondo un’operazione di ragionevole bilanciamento di interessi parimenti dotati di rilievo costituzionale, che nell’ordinamento processuale interno è stata positivizzata dal legislatore nei termini indicati – si è posto in evidenza che la procedura semplificata introdotta dal rito abbreviato comporta un’attenuazione delle garanzie procedurali offerte dal diritto interno, in particolare per quanto riguarda la pubblicità del dibattimento e la possibilità di chiedere l’acquisizione di elementi di prova non contenuti nel fascicolo del pubblico ministero (Corte EDU, 30/11/2000, Kwiatkowska c. Italia; G.C., 18/10/2006, Hermi c. Italia; 10/04/2007, Panarisi c. Italia; 06/11/2007, Hany c. Italia; 28/10/2013, Greco c. Italia), ma anche che tale rinuncia alle garanzie di un processo equo, per essere conforme ai principi stabiliti dall’art. 6 della Convenzione, «non deve essere in contrasto con alcun interesse pubblico importante» (Corte EDU, 21/02/1990, Hà’kansson e Sturesson c. Svezia; 18/10/2006, Hermi, cit.; 26/09/2017, Fornataro c. Italia).

Nella medesima prospettiva seguita dalla Corte europea, d’altronde, come osservato dalla stessa Cassazione nella pronuncia in oggetto, si colloca il percorso giurisprudenziale tracciato dalla Corte costituzionale e dalla Corte di cassazione, che hanno da tempo individuato tale punto di equilibrio nella necessità di contemperare il potere dispositivo delle parti in materia probatoria con un quadro di poteri integrativi ad iniziativa officiosa del giudice, in quanto «coessenziale all’esigenza della ricerca della verità che, affermata esplicitamente dalla direttiva n. 73 della legge-delega, rappresenta un “fine primario ed ineludibile del processo penale” e comporta, come corollario di necessaria consequenzialità logica, l’attribuzione al giudice di poteri di iniziativa probatoria in modo da supplire all’eventuale inerzia delle parti e da rendere possibile l’accertamento dei fatti inclusi nel tema della decisione» (Sez. U, n. 930 del 13/12/1995, dep. 1996, Clarke, cit., in motivazione).

Questo punto di equilibrio tra diritto/dovere delle parti di produrre ed esibire le prove e potere del giudice di integrazione probatorio concludono l’iter argomentativo che conduceva le Sezioni unite ad enunciare il seguente principio di diritto: ““Nell’ipotesi di riforma in senso assolutorio di una sentenza di condanna, il giudice di appello non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive ai fini della condanna di primo grado. Tuttavia, il giudice di appello (previa, ove occorra, rinnovazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva ai sensi dell’art. 603 cod. proc. pen.) è tenuto ad offrire una motivazione puntuale e adeguata della sentenza assolutoria, dando una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata rispetto a quella del giudice di primo grado””.

Conclusioni

La sentenza in commento è il frutto di un complesso e articolato ragionamento giuridico fondato su molteplici basi, sia normative, che ermeneutiche.

La conclusione a cui è giunta la Cassazione è in buona sostanza nel senso di ritenere dovuta la rinnovazione dell’attività istruttoria svolta in primo grado solo quando la dichiarazione (per cui si invoca la rinnovazione) sia oggetto di una specifica censura da parte del pubblico ministero attraverso la richiesta di una nuova valutazione da parte del giudice di appello, operando poi, nel caso in cui a seguito di tale rinnovazione dovesse apparire “assolutamente necessario” lo svolgimento di ulteriore attività istruttoria, la disciplina ordinaria prevista dall’art. 603, comma 3, cod. proc. pen..

La soluzione proposta, in ordine alla specificità dei motivi, si palesa in linea con la riforma apportata all’art. 581 dalla legge 103 del 2017 in cui si stabilisce espressamente che devono essere enunciati in forma (appunto) specifica “dei motivi, con l’indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta” (art. 581, c. 1, lett. d), c.p.p.).

Si condivide anche la necessità che tale rinnovazione debba essere assolutamente necessario (così: punto 7.2. della decisione) nel senso che il giudice d’appello è obbligato ad assumere nuovamente quelle sole prove dichiarative che sono state oggetto di erronea valutazione da parte del giudice di primo grado e che vengono considerate decisive ai fini dello scioglimento dell’alternativa “proscioglimento-condanna” (così: punto 7.2. della decisione) in quanto non si riuscirebbe a capire il motivo di procedere all’acquisizione di materiale probatorio che si palesi, da un lato, correttamente valutato dal giudice, dall’altro, irrilevante rispetto alla decisione da doversi adottare.

Ragioni di economia processuale, oltre quelli addotte dalla Corte, tra l’altro, depongono in tal senso (perché allungare i tempi del processo di secondo grado se il compendio probatorio da doversi acquisire non serve per decidere se riformare in senso assolutorio una sentenza di condanna?) e lo stesso ragionamento vale per la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale (perché procedere alla rinnovazione se questa non è assolutamente necessaria?).

Anche la seconda parte del principio di diritto summenzionato ovvero quello secondo il quale il giudice di appello (previa, ove occorra, rinnovazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva ai sensi dell’art. 603 cod. proc. pen.) è tenuto ad offrire una motivazione puntuale e adeguata della sentenza assolutoria, dando una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata rispetto a quella del giudice di primo grado si rileva condivisibile in quanto si innesta lungo il solco di un pregresso orientamento nomofilattico alla stregua del quale il giudice di appello ha l’obbligo, in caso di decisione difforme da quella del giudice di primo grado, di confutare adeguatamente le ragioni poste a base della sentenza riformata (in tal senso: Cass. pen., sez. IV, 18/11/2008, n. 47387).

Sotto il profilo pratico, pare evidente che ove la pubblica accusa dovesse impugnare una sentenza di condanna per fini assolutori (ma il discorso dovrebbe valere anche per l’ipotesi inversa), costei ha l’obbligo di enunciare in modo specifico: a) perché le prove dichiarative sono state oggetto di erronea valutazione da parte del giudice di primo grado; b) perché dette prove vengono considerate decisive ai fini dello scioglimento dell’alternativa “proscioglimento-condanna”; c) perchè la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, attraverso un nuovo esame delle persone che hanno reso le dichiarazioni, deve ritenersi assolutamente necessario.

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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