Tale analisi prende spunto dalla figura generale, così come ricostruita in astratto dalla dottrina e dalla giurisprudenza, e dalle principali questioni giuridiche sottese.
Si procede attraverso un primo approfondimento, nello specifico settore del diritto amministrativo, in materia di espropriazione illegittima e tutela del cittadino privato.
Infine, si esamina l’ammissibilità e la rilevanza dell’istituto all’interno del diritto civile, prestando particolare attenzione alla rinunzia della comproprietà e dei diritti reali minori.
La rinuncia abdicativa in generale
Negli ultimi anni, si è molto parlato della cosiddetta “Rinuncia Abdicativa”.
Si tratta di un tema particolarmente controverso, su cui si sono cimentati tantissimi autori e che tutt’ora costituisce oggetto di un ampio dibattito all’interno della giurisprudenza.
Per ricostruire, e soprattutto, comprendere correttamente i termini di questo dibattito, occorre preliminarmente aver chiaro l’istituto nei suoi molteplici e complessi aspetti.
Per prima cosa, occorre rilevare che non esiste nel nostro ordinamento uno specifico referente normativo che disciplini in modo puntuale l’istituto della rinunzia in generale e della sua species, la rinunzia abdicativa.
Il codice civile, infatti, detta una disciplina solo in relazione ad alcune particolari fattispecie, procedendo in modo sparso e disordinato e senza prevedere una regolamentazione di carattere generale. Basti pensare, ad esempio, all’art. 882 c.c. in tema di riparazioni del muro in comune o all’art. 1104 in tema di comunione.
Nonostante le scarse indicazioni normative la dottrina prelevante ritiene che la rinuncia costituisca, comunque, un istituto di carattere generale ammesso all’interno del nostro ordinamento giuridico e disciplinato dalle regole generali dettate in tema di negozi giuridici -contratti. Le specifiche disposizioni di legge, invece, rappresenterebbero deroghe ai principi di carattere generale[1].
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Alla luce di questa premessa, la dottrina prevalente distingue tre diverse tipologie di rinuncia: quella traslativa, quella liberatoria, quella abdicativa.
Con il concetto di “rinuncia traslativa” si intende fare riferimento ad un negozio dispositivo, con struttura bilaterale. Pertanto, alla dismissione del diritto del rinunciante fa da contraltare una controprestazione. In questa ipotesi, la rinuncia deve essere comunicata a colui nei cui confronti si verifica “l’arricchimento”, il quale deve accettare la devoluzione fatta a suo favore, ovvero, a sua volta, rinunciare[2]. La rinuncia traslativa implica, dunque, l’esistenza di un accordo (sia a titolo oneroso sia a titolo gratuito) che si perfeziona attraverso lo schema classico della proposta (di rinuncia) e accettazione, oppure di un atto negoziale unilaterale a carattere recettizio.
Si parla di “rinuncia liberatoria”, invece, (ad esempio quella di cui all’articolo 1104 c.c.) quando essa è volta a produrre un effetto estintivo di tutte le obbligazioni, non solo successive alla rinuncia, ma anche quelle già sorte[3].
Diversamente, con il concetto di “rinuncia abdicativa” si fa rifermento all’abdicazione, alla dismissione del diritto da parte del titolare[4]. In particolare, essa consisterebbe in un negozio giuridico attraverso cui il titolare esclude un diritto dal suo patrimonio, senza che ciò comporti – come conseguenza diretta e immediata – un trasferimento del diritto in capo ad altri, né automatica estinzione dello stesso. Gli ulteriori effetti, estintivi o modificativi del rapporto e che possono incidere su soggetti terzi, sono meramente riflessi, cioè delle conseguenze indirette della rinuncia, non ricollegabili causalmente al negozio compiuto. Pertanto, gli ulteriori effetti in capo al terzo si producono a prescindere dalla volontà del rinunciante e, quindi, ipso iure[5].
L’assenza di riferimenti normativi ha spinto la dottrina a ricostruire in via interpretativa gli aspetti essenziali dell’istituto, in particolare per quanto attiene alla sua natura giuridica, alla causa, alla forma e all’oggetto.
In relazione alla natura giuridica, la dottrina maggioritaria ritiene che si tratti di un negozio unilaterale che deve essere realizzato solo ed esclusivamente dal soggetto titolare della situazione giuridica che si vuole dismettere. Pertanto, non è richiesto necessario il consenso manifestato da altri[6].
Tuttavia, è ancora controversa la questione relativa alla sua eventuale recettività.
Di fatti, parte della dottrina ritiene che essa sia un negozio recettizio, con la conseguenza che occorre che l’atto sia portato a conoscenza del destinatario, affinché possa produrre i suoi effetti tipici[7].
Secondo la giurisprudenza prevalente, invece, si tratterebbe di un negozio non recettivo, con la conseguenza che la rinuncia produce immediatamente i suoi effetti, senza la necessità che venga portata a conoscenza e senza la necessità di alcuna forma di accettazione.
Sul punto, occorre ricordare la recentissima sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 2/2020 che, nel ricostruire l’istituto, ne ha confermato la natura di “un negozio giuridico unilaterale, non recettizio, con il quale un soggetto, il rinunciante, nell’esercizio di una facoltà, dismette, abdica, perde una situazione giuridica di cui è titolare, rectius esclude un diritto dal suo patrimonio, senza che ciò comporti trasferimento del diritto in capo ad altro soggetto, né automatica estinzione dello stesso. Gli ulteriori effetti, estintivi o modificativi del rapporto, che possono anche incidere sui terzi, sono, infatti, solo conseguenze riflesse del negozio rinunziativo, non direttamente ricollegabili all’intento negoziale e non correlate al contenuto causale dell’atto, tant’è che la rinuncia abdicativa si differenzia dalla rinuncia cd. traslativa proprio per la mancanza del carattere traslativo-derivativo dell’acquisto e per la mancanza di natura contrattuale, con la conseguenza che l’effetto in capo al terzo si produce ipso iure, a prescindere dalla volontà del rinunciante, quale mero effetto di legge. Per il suo perfezionamento non è, pertanto, richiesto l’intervento o l’espressa accettazione del terzo né che lo stesso debba esserne notiziato” [8].
Per quanto riguarda la causa, parte dell’opinione dottrinale ritiene che la rinunzia, sebbene sia configurata quale negozio dismissivo che non incide su attribuzioni patrimoniali, sia un negozio dotato di causa propria e non astratto[9].
Altri autori, invece, sostengono che l’atto in esame così come ricostruito sarebbe incompatibile con una causa propria. Di fatti, la causa consisterebbe semplicemente nella dismissione del diritto, con la conseguenza che il negozio sarebbe un “patto nudo”, astratto, sempre meritevole di tutela. Corollario di questa tesi sarebbe l’assenza di qualsiasi controllo sull’autonomia privata, per il quale non si pone il problema di valutarne la tipicità né la necessità di accertarne la funzione economico-sociale, stante l’assenza di un rapporto di relazione tra due diversi soggetti[10].
Secondo un’altra interpretazione, la rinuncia abdicativa dovrebbe, comunque, rispondere ad un interesse meritevole di tutela, coincidente con la dismissione della situazione giuridica e che, a sua volta, costituisce la massima espressione del potere di disposizione che spetta al titolare. Tuttavia, sarebbe necessario che il titolare agisca solo per provocare la perdita del diritto, quale effetto tipico della rinunzia in esame. Pertanto, ogni qualvolta l’atto di dismissione non superi il giudizio di meritevolezza, sarebbe nullo ai sensi dell’art. 1322 c.c. o per illiceità della causa[11].
In relazione alla forma, pacificamente si ritiene che si debba rispettare la forma scritta ad substantiam, qualora l’atto di rinuncia abbia ad oggetto beni immobili o diritti reali immobiliari ex art. 1350 n. 5 e debba essere oggetto di trascrizione ai sensi dell’art. 2643 n.5 c.c.
Altrimenti, in virtù del principio di libertà delle forme, la rinuncia può essere realizzata anche verbalmente.
Con riguardo all’oggetto immediato del negozio, si afferma che la rinuncia deve necessariamente riguardare un diritto disponibile e di carattere patrimoniale; in via mediata deve avere quale oggetto beni immobili.[12] Si esclude, dunque, che possano essere oggetto di rinuncia i diritti indisponibili, in quanto caratterizzati dalla presenza di interessi di rilevanza generale. Tra di essi rientrerebbero, ad esempio, il diritto agli alimenti, il diritto alla retribuzione e alle ferie, i diritti della personalità[13].
Ricostruito l’istituto in questi termini, si è posto il problema della sua ammissibilità all’interno dell’ordinamento civile. Tale questione è sorta, principalmente, in relazione al diritto di proprietà.
Sul punto, è stato osservato che numerose disposizioni del codice civile si occuperebbero della rinunzia abdicativa.
Si richiama, in primis, l’art. 882 c.c. in tema di riparazioni del muro in comune; l’art. 1104 c.c., in tema di obblighi dei partecipanti della comunione alle spese comuni; l’art. 1118 comma 2 c.c., in tema di rinunziabilità al diritto sulle parti comuni del condominio.
Dal combinato disposto di queste norme, si ricava a contrario, la possibilità di rinunciare al diritto di proprietà, o comunque ad un diritto soggettivo avente i caratteri pocanzi descritti.
In secundis, si fa riferimento all’art. 922 c.c., relativo ai modi di acquisto della proprietà a titolo originario. Si afferma pacificamente che i beni mobili possono essere “abbandonati” attraverso un atto di dismissione che rende il bene nullius e, quindi, suscettibile di occupazione. Pertanto, in virtù del principio di simmetria, si dovrebbe ritenere che lo stesso atto di dismissione possa riguardare anche i beni immobili. Altro e diverso profilo, invece, è quello che attiene alla forma richiesta e alle modalità attraverso cui l’effetto dismissivo si produce.
In tertium, si ricorda anche l’art. 827 c.c. in tema di beni vacanti. Alla luce di questa disposizione, si afferma che in presenza di beni immobili divenuti res nullius in seguito a rinuncia abdicativa, la proprietà degli stessi passerebbe in capo allo Stato.
Infine, si richiamano le già citate norme di cui agli art. 1350 n. 5 e art. 2643 n. 5 c.c., le quali – nel prevedere la forma scritta e la trascrizione – espressamente fanno riferimento alla rinuncia[14].
Queste norme permetterebbero di affermare – in via assolutamente generale – l’ammissibilità della rinuncia abdicativa (al diritto di proprietà) e di qualificarla quale negozio giuridico atipico, in quanto non espressamente previsto o disciplinato dalla legge.
Sebbene la dottrina dominante ricostruisca la rinuncia abdicativa in riferimento ai beni immobili, si potrebbe ritenere configurabile l’istituto anche in caso di beni mobili.
Tale assunto troverebbe conferma nel principio di simmetria e nella differenza tra rinuncia e abbandono.
Parte della dottrina ritiene, infatti, che rinuncia abdicativa e abbandono sarebbero delle species della più ampia categoria giuridica della “rinunzia” e pertanto condividerebbero la natura negoziale[15].
Nonostante questo indubbio elemento in comune, tali figure si discosterebbero sia per quanto attiene agli effetti, sia per quanto attiene all’ambito di applicazione.
La rinuncia abdicativa, di fatti,– come sopra messo in luce – avrebbe quale effetto tipico e immediato la dismissione di un diritto, cioè una posizione giuridica di vantaggio ricollegabile ad un diritto soggettivo. Pertanto, l’istituto troverebbe applicazione solo nell’ambito del diritto civile e, ancor più segnatamente, in quei settori che riguardino diritti disponibili.
Diversamente l’abbandono viene, spesso, configurato non solo come rinuncia ad una posizione di vantaggio, ma alla complessiva situazione giuridica. Di fatti, accade solente che, attraverso l’abbandono, il titolare voglia spogliarsi non del diritto in sé ma degli oneri e degli obblighi che ogni diritto comporta. Pertanto, l’abbandono avrebbe un ambito di applicazione più ampio, che non si limiterebbe al diritto civile e ai diritti disponibili (vedi l’abbandono della casa familiare) ma coinvolgerebbe anche altri settori, quale ad esempio il diritto penale.
Questa distinzione è di grande importanza nell’interpretare l’art. 923 c.c. Tale norma, di fatti, afferma che possono essere acquistate per occupazione le cose che non sono di proprietà di alcuno senza, però, fare alcun riferimento al modo in cui queste res sono divenute prive di un titolare, quindi nullius.
Nel vecchio codice del 1865, una simile disposizione era contenuta nell’art. 711 che, però, si apriva con la seguente dicitura: “Le cose che non sono ma possono venire in proprietà di alcuno”. Questa specificazione, eliminata nel codice civile del 1942, permetterebbe di affermare che soltanto i diritti, cioè le posizioni giuridiche di vantaggio, possono essere dismessi, diventare nullius o derelitte e, quindi, acquistati per occupazione.
Diversamente opinando, cioè qualora si ammettesse che anche doveri, oneri, obblighi vengano dismessi e diventano nullius, non si comprenderebbe la ragione per cui un qualsiasi soggetto dovesse liberamente decidere di acquisirli per occupazione, dato che subirebbe una modifica peggiorativa della propria sfera giuridica. Pertanto, l’art. 923 c.c. renderebbe ammissibile, a contrario, anche la rinuncia abdicativa di beni mobili.
Alla luce di questa ricostruzione, dunque, si ammette pienamente la validità della rinuncia abdicativa, sia in relazione ai beni mobili che immobili.
Tuttavia, l’istituto così elaborato pone numerosi ordini di problemi. Primo tra tutti l’individuazione della disciplina applicabile.
A tal proposito, un primo profilo problematico riguarda l’individuazione del soggetto che, in via indiretta e mediata, subisce una trasformazione nella propria sfera giuridica e, dunque, l’acquisto del bene.
A tal proposito, in riferimento ai beni immobili parte della dottrina ritiene che occorra richiamare l’art. 827 c.c., secondo cui i beni immobili privi di un titolare, e quindi vacanti, diventano di proprietà dello Stato, senza la necessità di alcuna accettazione. Si tratta di un modo di acquisto a titolo originario che – in caso di rinuncia abdicativa – costituisce effetto riflesso e secondario della vicenda negoziale. Lo Stato, inoltre, non potrebbe rifiutare l’acquisto a suo favore realizzato tramite rinuncia abdicativa, proprio perché l’ordinamento non ammette beni immobili vacanti[16].
Per le medesime ragioni non sarebbe ammissibile la revoca della rinuncia: la conseguenza sarebbe il venire meno di ogni certezza circa la portata dell’art. 827 c.c. e vi sarebbe una sorta di invasione illegittima nella sfera giuridica dello Stato.
Secondo altra opinione, invece, la norma a cui fare riferimento sarebbe l’art. 586 c.c. che regola il fenomeno successorio in capo allo Stato in mancanza di altri successibili[17]. Questa tesi trova il proprio fondamento che con la rinuncia abdicativa si trasferirebbe, sebbene in via mediata, la medesima posizione giuridica del rinunciante – dante causa. Pertanto, vi sarebbe perfetta identità tra la posizione giuridica del rinunciante e quella del beneficiario, cambiando solo il soggetto titolare della stessa. Analogo fenomeno si verificherebbe in caso di acquisto iure successionis a titolo universale, e nello specifico, in caso di devoluzione a favore dello Stato. Si avrebbe, dunque, un modo di acquisto a titolo derivativo, che limita anche la responsabilità dello Stato, chiamato a rispondere delle passività solo al valore dei beni acquistati.
Nonostante il diverso fondamento giuridico, le due tesi hanno dei punti in comune. In primis, la necessità di individuare un titolare di beni immobili, che non possono rimanere vacanti. In secundis, l’automaticità e l’inderogabilità dell’acquisto in capo allo Stato.
Più complessa la questione in relazione ai beni mobili, posto il fatto che non vi sono espresse norme di riferimento. Pertanto, si potrebbero ora richiamare le regole in tema di acquisto per occupazione o usucapione, ora le norme che regolano la materia successoria, a seconda delle caratteristiche del caso concreto.
Altro profilo di grande rilevanza riguarda l’eventuale responsabilità del rinunciante. Il problema si è posto soprattutto nel caso in cui oggetto della rinuncia fossero beni immobili.
Parte della giurisprudenza afferma che tutti casi di rinuncia abdicativa comporterebbero responsabilità del rinunciante ex art. 2043, 2051 e 2053 c.c. per i danni che questi abbia cagionato con la propria condotta omissiva e consistenti nella mancata realizzazione degli interventi di manutenzione e messa a disposizione dell’immobile[18].
Secondo altra opinione, vi sarebbe responsabilità del rinunciante quando l’atto di rinuncia è posto in essere al solo fine egoistico di trasferire in capo all’erario ex art. 827 c.c. e all’intera collettività i costi necessari per la manutenzione, il consolidamento, la demolizione dell’immobile, e di fare ricadere sullo Stato la responsabilità per i danni che dovessero in futuro derivare a persone o cose per il crollo o rovina dello stesso[19].
Rinuncia Abdicativa ed espropriazione illegittima della P.A.
Sempre più spesso, l’istituto della rinuncia abdicativa, così come finora tratteggiato, viene in rilievo all’interno della procedura espropriativa, configurandosi quale ulteriore modo di acquisto per la P.A. che abbia illegittimamente occupato un terreno del privato.
Proprio all’interno di questo settore, la rinuncia abdicativa ha dato vita ad un accesissimo dibattito giurisprudenziale, che vede coinvolte non solo le Corti interne ma anche la Corte di Giustizia Europea.
Per ricostruire gli esatti termini di tale dibattito, giunto sino ai giorni nostri, occorre in via preliminare ricordare che la proprietà rappresenta un diritto costituzionalmente sancito e tutelato.
In passato, lo Statuto Albertino considerava la proprietà sacra e inviolabile e la annoverava tra i principi fondamentali della persona.
L’attuale Costituzione, invece, la riconosce e la tutela all’art. 42. In particolare, il comma 1 dell’art 42 Cost. riconosce sia la proprietà privata sia la proprietà pubblica, ponendole entrambe sullo stesso piano. Il comma 2 della medesima disposizione introduce una riserva di legge, affermando che i modi di acquisto, di godimento e i limiti devono essere necessariamente determinati per legge, al fine di garantire la funzione sociale. Infine, il comma 3, statuisce la possibilità di espropriare la proprietà nei modi previsti dalla legge e solo salvo indennizzo, per realizzare motivi di interesse generale.
Queste disposizioni descrivono la proprietà in termini positivi, tentando di bilanciare il diritto dominicale con eventuali interessi di carattere generale, rilevanti per l’ordinamento, che possono provocarne una limitazione[20].
A livello sovrannazionale, la proprietà trova tutela all’art. 1 del Protocollo Addizionale I della CEDU.
Tale disposizione statuisce che “nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di utilità pubblica e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale”. Si descrive, dunque, la proprietà in termini negativi, vietando qualsiasi forma di abuso e affermando che il privato può essere espropriato solo nei modi e al ricorrere delle condizioni previste espressamente dalla legge o da principi generali condivisi all’interno della comunità internazionale.
La disposizione in questione, dunque, oltre a prevedere una riserva di legge, in conformità con la Costituzione (sebbene allargata dal richiamo ai principi generali del diritto internazionale che vincolano il nostro ordinamento ai sensi dell’art. 117 Cost.), sembra abbracciare una concezione assoluta della proprietà, considerata attinente alla persona umana e quindi intangibile[21].
Dal combinato disposto di queste due norme, si può dedurre che le forme di espropriazione realizzabili da parte della P.A. dovrebbero essere soggette al principio di legalità e al principio di riserva di legge.
Pertanto, in modo assolutamente pacifico si ritiene che la P.A. potrebbe legittimamene acquistare un bene di proprietà del privato attraverso atto di cessione volontaria; mediante la procedura espropriativa ordinaria di cui agli art. 23 e seguenti D.P.R. 327/2001 e (ad oggi) attraverso il particolare procedimento di cui all’art. 42 bis del medesimo testo unico.
Tuttavia, nonostante questi chiari riferimenti normativi accadeva spesso, soprattutto in passato, che la P.A. occupasse un bene, al fine di sottoporlo a procedura espropriativa senza un valido titolo oppure senza un valido decreto di esproprio.
Queste particolari ipotesi avevano spinto la giurisprudenza a elaborare le due figure di occupazione usurpativa e di occupazione acquisitiva.
Per occupazione usurpativa si intendeva fare riferimento all’attività di occupazione di un fondo da parte della P.A., per realizzare un’opera pubblica,
- in assenza della dichiarazione di pubblica utilità,
- quando la dichiarazione di pubblica utilità sia stata di seguito annullata,
- in caso di sopravvenuta sua inefficacia per decorso dei termini previsti per l’esecuzione dell’opera[22].
L’occupazione acquisitiva (o espropriativa o appropriativa), invece, è un istituto risalente alla sentenza Cass. S.U. 26 febbraio 1983, n. 1464.
Tale pronunzia – affrontando il caso, non disciplinato dalla legge, di una occupazione protrattasi oltre i previsti termini di occupazione legittima e contrassegnata dalla irreversibile trasformazione del fondo per la costruzione di un’opera dichiarata di pubblica utilità – è stata il frutto della dichiarata ricerca di un punto di equilibrio tra la tutela dell’azione amministrativa (assicurata dall’acquisto a titolo originario in capo alla pubblica amministrazione della proprietà del suolo illegittimamente occupato e trasformato) e la tutela della proprietà privata (assicurata dall’obbligo dell’amministrazione occupante di risarcire integralmente il danno arrecato, sulla base, almeno sino all’entrata in vigore del D.L. n. 333 del 1992, art. 5 bis, comma 7 bis, del valore venale del bene).
Essa, inoltre, ha segnato il superamento del precedente orientamento in base al quale:
- il privato restava proprietario del bene occupato e aveva diritto soltanto al risarcimento del danno determinato dalla perdita di utilità ricavabili dalla cosa;
- restava soggetto alla tardiva sopravvenienza del decreto di espropriazione, ritenuto idoneo a ricollocare la fattispecie su un piano di legittimità, con l’attribuzione al privato soltanto di un indennizzo (all’epoca non commisurato al valore venale del bene)[23].
Con tale espressione, dunque, si faceva riferimento all’attività di occupazione da parte della P.A. di un suolo privato in maniera illegittima, data l’assenza iniziale di un provvedimento autorizzativo oppure perché decorsi i suoi termini di efficacia, per realizzare un’opera di pubblica utilità. L’Amministrazione ne acquistava, così, la proprietà a titolo originario, per effetto della trasformazione irreversibile del suolo privato.
Si affermava, dunque, che nel conflitto tra il privato e la P.A. prevarrebbe questa ultima, in ossequio alla conservazione dell’opera pubblica per fini di interesse collettivo.
Il principio civilistico sotteso a tale istituto era quello dell’accessione invertita ex art. 938 c.c.
Così descritta dalla giurisprudenza, l’occupazione appropriativa era, quindi, caratterizzata per la presenza della dichiarazione di pubblica utilità, cui seguiva necessariamente l’occupazione del suolo da parte della P.A. o di un suo concessionario, nonché la sua trasformazione irreversibile. Qualora durante i termini previsti dalla dichiarazione di P.U. non interveniva il decreto di esproprio e il bene subiva comunque una definitiva e irreversibile trasformazione, si verificava l’acquisto, a titolo originario, della proprietà da parte dell’Amministrazione. Di conseguenza si produceva, in capo al privato, un illecito aquiliano ex art. 2043 c.c., che la P.A. doveva risarcire[24].
Tale istituto aveva ricevuto conferma anche dalla giurisprudenza Costituzionale: si pensi alla sentenza n. 188/1995, la quale aveva superato i dubbi di legittimità costituzionale.
Nonostante i sopra illustrati riconoscimenti legislativi e la copiosa elaborazione della dottrina e della giurisprudenza, anche costituzionale, la c.d. occupazione acquisitiva ha continuato, però, a presentare molteplici profili di incertezza (si pensi alla tematica del rapporto tra risarcimento ed indennizzo, ai problemi inerenti alla prescrizione, all’individuazione del momento in cui poteva ritenersi realizzata l’irreversibile trasformazione del suolo, ecc.).
Anche per tali ragioni, l’istituto non si è sottratto alla valutazione negativa della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (sentenze del 30 maggio del 2000, casi Belvedere-Alberghiera e Carbonara-Ventura) circa la conformità dello stesso alla Convenzione europea e, in particolare, al Protocollo Addizionale n. 1[25].
Si ricordi, più di recente, anche il caso Carrattu’ Janes Vs Italia (2006), in materia di espropriazione indiretta. In questa occasione è stato affermato che questo tipo di espropriazione “ignora il principio di legalità in quanto non è atta a garantire un grado sufficiente di sicurezza giuridica e permette in generale all’amministrazione di passare oltre le regole fissate in materia di espropriazione”.
Nel caso di specie, la Corte riteneva che l’espropriazione indiretta fosse una forma di occupazione illegale, per cui l’ingerenza sine titulo della P.A. non è compatibile col principio di legalità, comportando la violazione dell’articolo 1 protocollo 1[26].
Secondo il ragionamento della Corte, l’espropriazione indiretta mira, difatti, in ogni caso, ad interinare una situazione di fatto che deriva dalle illegalità commesse dall’amministrazione, a regolare le conseguenze per l’individuo e per l’amministrazione, a favore di quest’ultima.[27]
Altra importante arresto della Corte Edu è la sentenza resa nel caso Scordino c. Italia, n. 3 del 6 marzo 2007.
In questa occasione, la Corte di Strasburgo ha affermato che “lo Stato dovrebbe, prima di tutto, adottare misure tendenti a prevenire ogni occupazione fuori legge dei terreni, che si tratti d’occupazione sine titulo dall’inizio o di occupazione inizialmente autorizzata e divenuta sine titulo successivamente. Inoltre, lo Stato convenuto deve scoraggiare le pratiche non conformi alle norme delle espropriazioni lecite, adottando disposizioni dissuasive e ricercando le responsabilità degli autori di tali pratiche. In tutti i casi in cui un terreno è già stato oggetto d’occupazione senza titolo ed è stato trasformato, in mancanza di decreto d’espropriazione, la Corte ritiene che lo Stato convenuto dovrebbe eliminare gli ostacoli giuridici che impediscono sistematicamente e per principio la restituzione del terreno[28]. Il meccanismo dell’espropriazione indiretta permette, in generale, all’amministrazione di passare oltre le regole fissate in materia di espropriazione, col rischio di un risultato imprevedibile o arbitrario per gli interessati, che si tratti di un’illegalità dall’inizio o di un’illegalità sopraggiunta in seguito”.
La Corte Europea si ritiene, inoltre, “convinta che l’esistenza in quanto tale di una base legale non basti a soddisfare il principio di legalità”, non potendo l’espropriazione indiretta costituire, comunque, un’alternativa ad un’espropriazione “in buona e dovuta forma”[29].
In particolare, la Corte di Strasburgo, sulla base dei principi sopra brevemente richiamati, ha censurato tutte le forme di “espropriazione indiretta” elaborate nell’ordinamento italiano e le ha configurate come illecito permanente perpetrato nei confronti di un diritto fondamentale dell’uomo, garantito dall’art. 1 citato, senza che alcuna rilevanza possa assumere il dato fattuale dell’intervenuta realizzazione di un’opera pubblica sul terreno interessato, affermando che l’acquisizione del diritto di proprietà non può mai conseguire a un illecito.
Alla luce dei principi così affermati, dunque, si è posto il problema della compatibilità (o meglio del contrasto) dell’occupazione acquisitiva quale modo di acquisto della P.A., con l’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione EDU, come interpretato dalla Corte sovrannazionale.
Preso atto dell’affermarsi di questi principi in sede sovrannazionale, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, non ha abbandonato totalmente l’istituto dell’occupazione acquisitiva, ma ha cercato di superare i punti di criticità della disciplina elaborata dalle corti interne, sulla base dei principi affermati dalla Convenzione EDU[30].
In questa prospettiva si collocano, anzitutto, le decisioni tese ad affermare la compatibilità dell’istituto dell’occupazione acquisitiva con il principio sancito dall’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione EDU, come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo.
A tal fine, si sottolinea che l’istituto non solo ha una base legale nei principi generali dell’ordinamento, ma ha trovato previsione normativa espressa prima (settoriale) con la L. n. 458 del 1988, art. 3, e, successivamente, con il D.L. n. 333 del 1992, art. 5 bis, comma 7 bis, (introdotto dalla L. n. 662 del 1996, art. 3, comma 65) e, quindi, risulta ormai basato su regole sufficientemente accessibili, precise e prevedibili, ancorate a norme giuridiche che hanno superato il vaglio di costituzionalità ed hanno recepito (confermandoli) principi enucleati dalla costante giurisprudenza[31].
Altre decisioni si sono preoccupate di fissare il dies a quo del termine di prescrizione nel momento dell’emersione certa, a livello legislativo, dell’istituto e cioè a partire dalla legge n. 458/1988, ritenendo in tal modo soddisfatto il necessario ossequio al principio di legalità, affermato in materia dalla Corte EDU[32].
Soltanto più di recente la Suprema Corte ha modificato suddetto orientamento, alla luce della costante giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo. Seppur lentamente, di fatti, si è affermata l’idea secondo cui quando il decreto di esproprio non sia stato emesso o sia stato annullato, l’occupazione e la manipolazione del bene immobile di un privato da parte dell’Amministrazione si configurano – indipendentemente dalla sussistenza o meno di una dichiarazione di pubblica utilità – come un illecito di diritto comune, che determina non il trasferimento della proprietà in capo all’Amministrazione, ma la responsabilità di questa per i danni.
In particolare, con riguardo alle fattispecie già ricondotte alla figura dell’occupazione acquisitiva, secondo la corte verrebbe meno la configurabilità dell’illecito come illecito istantaneo con effetti permanenti e, conformemente a quanto sinora ritenuto per la c.d. occupazione usurpativa, se ne deve affermare la natura di illecito permanente, che viene a cessare solo per effetto della restituzione, di un accordo transattivo, della compiuta usucapione da parte dell’occupante che lo ha trasformato, ovvero della rinunzia del proprietario al suo diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente.
Infatti, in alternativa alla restituzione, al proprietario è sempre concessa l’opzione per una tutela risarcitoria, con una implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato. Tale rinuncia ha carattere abdicativo e non traslativo: da essa, perciò, non consegue, quale effetto automatico, l’acquisto della proprietà del fondo da parte dell’Amministrazione[33].
Queste premesse di carattere generale permettono di inquadrare e mettere a fuoco il contesto in cui viene chiamata in gioco la rinuncia abdicativa e a tratteggiare i principi fondamentali che hanno contribuito alla creazione di questo tiro alla fune tra le Corti.
Tali conclusioni sono state, in seguito, riprese anche dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella nota sentenza n. 2/2016 che annovera la rinuncia abdicativa tra i modi di acquisto della P.A. e utile strumento per mettere fine alla condotta illecita dell’amministrazione incidente sul diritto di proprietà.
In seguito a tali pronunce, si sono formati due orientamenti.
Secondo una prima ricostruzione, la rinuncia abdicativa sarebbe ammissibile e costituirebbe sia modo di acquisto per la P.A. sia strumento di tutela per il privato[34].
Questo orientamento mette in evidenzia, sul piano pratico, la presenza di almeno tre aspetti favorevoli per il privato espropriato.
1) In primo luogo, infatti, valorizza il principio di concentrazione della tutela ricavabile ex art. 111 Cost., quale corollario del principio di ragionevole durata del processo, che sarebbe pregiudicato dalla sua segmentazione in una fase amministrativistica (relativa al giudizio sulla legittimità degli atti espropriativi) e in una fase civilistica per la determinazione del quantum da corrispondere al soggetto espropriato.
2) In secondo luogo, tale conclusione offre maggiori garanzie di compensare integralmente l’utilità (cioè il bene) perduto dal privato, poiché, il quantum deve essere corrisposto al soggetto espropriato a titolo di risarcimento del danno (che è ordinariamente integrale) e non a titolo di indennizzo (che invece, come è noto, è solo parametrato al valore del bene perduto).
3) Infine, poiché il risarcimento del danno è connesso alla proposizione della relativa domanda da parte del privato in giudizio, che implica rinuncia abdicativa, è da tale momento che si verifica un debito di valore, con tutte le note implicazioni in tema di interessi legali e rivalutazione.
Secondo un’altra tesi, invece, la rinuncia abdicativa non sarebbe configurabile in questo settore e con tale funzione.
Per questo diverso orientamento, invero, la tesi della ammissibilità – sul piano strutturale e normativo – si espone a un triplice ordine di obiezioni:
– In primis, non spiega esaurientemente la vicenda traslativa in capo all’Autorità espropriante. Si osserva, di fatti, che non sarebbe ammissibile l’applicazione analogica dell’art. 827 c.c., in quanto in base alla norma, l’effetto acquisitivo indiretto si verificherebbe in capo allo Stato e non in capo alla singola amministrazione appropriante.
Infine, si ricorda che – ai sensi degli art. 1325 e 1350 c.c. – gli atti negoziali che riguardano beni immobili devono essere necessariamente realizzati in forma scritta e trascritti negli appositi registri. Orbene, non sarebbe ammissibile una rinuncia realizzata in forma orale, in giudizio né attraverso fatti concludenti, quale la proposizione di una domanda giudiziale volta ad ottenere il solo risarcimento del danno.
– In secundis, la rinuncia viene ricostruita quale atto implicito, secondo la nota dogmatica degli atti impliciti, senza averne le caratteristiche essenziali.
– In tertium, soprattutto, e in senso decisivo e assorbente, non è provvista di base legale in un ambito, quello dell’espropriazione, dove il rispetto del principio di legalità è richiamato con forza sia a livello costituzionale (art. 42 Cost.), sia a livello di diritto europeo.
Va ricordato, infatti, sotto questo profilo, che occorre evitare di ricorrere a istituti che in qualche modo si pongano sulla falsariga della cd. occupazione acquisitiva, cui la giurisprudenza faceva ricorso negli anni Ottanta del secolo scorso.
Si ribadisce, dunque, che tale istituto non può più trovare spazio nel nostro ordinamento a seguito delle ripetute pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ne hanno evidenziato la contrarietà alla Convenzione Europea, in particolare per quanto riguarda l’art. 1 del primo protocollo Addizionale.
Queste conclusioni vengono fatte proprie dalle più recenti pronunce dell’Adunanza Plenaria, le sentenze n. 2 e n. 4 del 2020, che non solo si inseriscono all’interno di questo filone ma ribadiscono anche il principio per cui la P.A, in caso di occupazione illegittima avrebbe due scelte: restituire il bene oppure acquisirlo in modo legittimo, anche attraverso lo speciale provvedimento di cui all’art. 42 bis T.U. espropri.
Esclusa la configurabilità della rinuncia abdicativa nel procedimento espropriativo, il Consiglio di Stato chiarisce che la scelta di acquisire o restituire il bene spetta solo e soltanto all’amministrazione che avvia il procedimento e non allo Stato ex art. 827 cc. oppure al commissario ad acta nominato dal giudice. Tale scelta non può spettare né al privato né al giudice[35].
La sola domanda risarcitoria proposta dal privato può essere accolta dal giudice ma soltanto in seguito al necessario accertamento della illegittimità della procedura espropriativa.
Tra l’altro, rientra nella piena libertà e disponibilità del privato – danneggiato scegliere uno strumento di tutela, anche processuale, piuttosto che altri, anche sulla base di una propria e insindacabile valutazione.
Infine, occorre ricordare che la mera domanda risarcitoria, inoltre, in passato costituiva l’unico rimedio azionabile a fronte dell’irreversibile trasformazione del fondo da parte dell’amministrazione; tuttavia oggi esistono numerosi e altri istituti che ne garantiscono una piena ed effettiva tutela, tra l’altro in modo compatibile ai principi sopra richiamati.
Pertanto, attraverso la richiesta di risarcimento del danno non si verifica alcun indiretto trasferimento del bene in capo alla P.A. ed il bene va restituito[36].
Infine, si sottolinea che l’estensione della figura tutta civilistica della rinuncia abdicativa nello specifico settore dell’espropriazione rappresenta una “irrazionalità amministrativa” in quanto lascia irrisolte numerose questioni. Prima tra tutte, ad esempio, quella relativa all’effetto acquisitivo della P.A espropriante.
Dunque, qualora l’amministrazione voglia comunque conseguire l’effetto acquisitivo, ripristinando la legalità della propria azione, dovrebbe ricorrere allo speciale procedimento di cui all’art 42 bis del T.U. espropri.
In quest’ottica, la giurisprudenza amministrativa ritiene che “per le fattispecie rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, la rinuncia abdicativa del proprietario del bene occupato sine titulo dalla pubblica amministrazione, anche a non voler considerare i profili attinenti alla forma, non costituisce causa di cessazione dell’illecito permanente dell’occupazione senza titolo”[37].
Nonostante questa decisa e reiterata presa di posizione della giurisprudenza amministrativa è nuovamente intervenuta la Corte di Cassazione affermando, con decisione, l’ammissibilità della rinuncia abdicativa anche nella materia espropriativa.
Ne è esempio la sentenza n. 7466 /2020 I sezione civile, in cui si afferma che “l’espropriazione deve sempre avvenire in buona e debita forma. Tanto comporta che l’illecito spossessamento del privato da parte della P.A. e l’irreversibile trasformazione del suo fondo per la costruzione di un’opera pubblica non danno luogo, anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità, all’acquisto dell’area da parte dell’amministrazione sicché il privato ha sempre il diritto di chiederne la restituzione, salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno per equivalente. Deriva da quanto precede, pertanto, che l’occupazione e la manipolazione del bene immobile, allorché il decreto di esproprio non sia stato emesso (o sia stato annullato) integra (sempre) un illecito di natura permanente, che in linea di principio dà luogo a una pretesa risarcitoria avente per oggetto i danni per il periodo non coperto dall’eventuale occupazione legittima, durante il quale il privato ha subito la perdita delle utilità. (omissis) Ciò sta a significare che la perdita del bene della proprietà non avviene, in simili casi, per accessione invertita sebbene per abdicazione, associata alla proposizione della domanda di risarcimento del danno per equivalente”.
Queste diverse conclusioni ancora permangono, lasciando controversa la questione circa la configurabilità della rinuncia abdicativa all’interno della procedura espropriativa.
A tal proposito, è doveroso, infine, ricordare che le pronunce del Consiglio di Stato che accolgono la tesi della non ammissibilità non possono essere oggetto di ricorso alla Corte di Cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione[38].
Nel diritto civile, tra proprietà e altri diritti reali.
Nell’ambito del diritto civile, la rinuncia abdicativa è ammessa in presenza dei soli diritti disponibili e aventi natura reale.
Questa conclusione trova il proprio fondamento proprio nel profilo strutturale dei diritti reali, quali situazioni giuridiche soggettive attive a cui corrisponde un generico dovere di astensione in capo alla generalità dei consociati, senza che sia identificabile un soggetto passivo del rapporto. Pertanto, la rinuncia abdicativa determina la fuoriuscita del diritto dalla sfera giuridica del suo titolare, senza provocare l’incremento della sfera giuridica di altri.[39]
Secondo altra opinione la rinuncia abdicativa riguarderebbe solo i diritti reali poiché non sarebbero rinunciabili i diritti indisponibili, in quanto caratterizzati dalla presenza di un interesse pubblico di rilevanza generale (ad esempio: il diritto agli alimenti; il diritto alla retribuzione delle ferie, etc.)[40].
Alla luce di queste considerazioni, pacificamente si può, invece, ritenere che non è ammissibile una rinuncia di questo tipo in relazione a diritti relativi, quali ad esempio i diritti di credito.
Di fatti, in questo caso vige il principio di carattere generale secondo cui nessuno può sciogliersi da un rapporto obbligatorio qualora si rivesta la posizione di debitore, senza il consenso del creditore. Diversamente, qualora sia il creditore che voglia rinunziare al proprio diritto di credito, essa assumerebbe la veste di rinunzia liberatoria o traslativa, che direttamente investe e produce effetti nella sfera giuridica della controparte[41].
Fatte queste premesse di carattere generale, si ammette anche la rinuncia abdicativa in caso di comproprietà, in relazione alla quota di propria spettanza. Questa impostazione troverebbe la propria ragione negli art. 1104 c.c. e art. 882 comma 2 cc., i quali prevedrebbero in modo contestuale due tipologie di rinuncia: quella liberatoria e quella abdicativa.[42]
È stato messo in evidenza, tuttavia, che la rinuncia alla quota (sia essa divisibile che indivisa) produce conseguenze molto particolari.
Di fatti, occorre ricordare che l’art. 827 c.c. non ammette la “vacanza” di beni immobili.
Per cui ne consegue che, in caso di rinuncia da parte di uno dei contitolari, si verifica un accrescimento delle quote degli altri comproprietari. Tale effetto deriverebbe proprio dall’art. 1104 c.c. e alla luce della particolare natura della comunione.
Tuttavia, è bene sottolineare che l’accrescimento non è un fenomeno che si realizza in modo diretto dalla rinunzia alla quota. È, invece, l’ordinamento che si preoccupa di stabilire quale sia la sorte del diritto del rinunziatario e ne prevede l’accrescimento delle quote degli altri contitolari[43].
Sul punto è intervenuta anche la giurisprudenza di legittimità, affermando che “: Ogni partecipante alla comunione ordinaria è contitolare di un diritto e non di una singola porzione di esso, autonomamente suscettibile di rinunzia abdicativa, per cui il venir meno di una delle partecipazione, dal punto di vista soggettivo, tramite una dichiarazione rinunciativa, comporta una rideterminazione pro quota dell’entità della partecipazione dei comunisti superstiti, i quali vedranno ipso iure accrescere in proporzione le loro quote in forza del principio di elasticità del diritto di proprietà”[44].
La rinuncia comporta l’espansione del diritto degli altri comproprietari, in virtù dell’elasticità del diritto di proprietà: la quota di ognuno viene proporzionalmente accresciuta, senza che gli stessi possano opporsi a questo, che è un effetto puramente legale.
Ancor più di recente, la Cassazione è intervenuta sulla natura giuridica della rinuncia e ha affermato che: “Costituisce donazione indiretta la rinunzia alla quota di comproprietà, fatta in modo da avvantaggiare in via riflessa tutti gli altri comproprietari. In tal caso si è infatti di fronte ad una rinunzia abdicativa alla quota di comproprietà, perché́ l’acquisto del vantaggio accrescitivo da parte degli altri comunisti si verifica solo in modo indiretto attraverso l’eliminazione dello stato di compressione in cui l’interesse degli altri contitolari si trovava a causa dell’appartenenza del diritto in comunione anche ad un altro soggetto; e poiché per la realizzazione del fine di liberalità viene utilizzato un negozio, la rinunzia alla quota da parte del comunista, diverso dal contratto di donazione, non è necessaria la forma dell’atto pubblico richiesta per quest’ultimo”[45].
La sentenza è significativa perché conferma i caratteri della rinuncia prima illustrati: essa è un atto meramente abdicativo, sorretto da un unico scopo ossia la dismissione del diritto, con conseguente indifferenza in capo all’autore per la produzione di ulteriori effetti. Pertanto è un atto a causa neutra.
Se la rinuncia è posta in essere allo scopo di avvantaggiare altri, realizza una liberalità che non assume la forma tipica dell’atto di donazione, ma utilizza uno schema diverso dando luogo ad una donazione indiretta.
Tuttavia, ci si è chiesti se gli altri contitolari possono rifiutare l’accrescimento della propria quota oppure debbano subirlo, potendo soltanto rifiutare a loro volta la loro quota così accresciuta.
Sul punto si sono affermate due diverse impostazioni.
Secondo una prima tesi tuttavia rimasta minoritaria nell’opinione dottrinale, gli altri comunisti possono legittimamente rifiutare, in virtù del principio secondo cui ciascuno deve poter impedire modificazioni alla propria sfera giuridica, verificatesi senza il proprio consenso[46].
Questa tesi, però, è stata oggetto di numerose critiche. Infatti, si è detto che essa farebbe riferimento ad atti unilaterali, che hanno quale effetto diretto l’alterazione della sfera giuridica altrui. Diversamente, per come è stata ricostruita la rinuncia abdicativa non rientrerebbe all’interno di questa categoria di atti, poiché causalmente volta solo a provocare una dismissione di un proprio diritto, quale effetto immediato e diretto, senza incidere sulla sfera giuridica altrui. Quest’ultima conseguenza, invece, sarebbe solo un “effetto legale” o comunque indiretto e mediato.
Alla luce di queste considerazioni, la dottrina prevalente ritiene, dunque, che gli altri contitolari non posso opporre alcun legittimo rifiuto all’eventuale accrescimento, potendo tuttavia rinuncia a loro volta[47].
Si afferma, inoltre, che “anche nelle ipotesi di rinunzia all’eredità, ai diritti reali minori, al diritto di proprietà sul bene immobile, si verifica un passaggio per determinati soggetti; in questi casi, però, il vantaggio rappresenta solo il risultato indiretto del negozio rinunziativo e si collega variamente al diritto di accrescimento o alle regole di successione legittima, al carattere elastico della proprietà, alla norma che dispone l’appartenenza allo Stato del bene immobile vacante. In questi casi, il rifiuto non è nemmeno protestabile. Il principio invito beneficium non datur, cioè il generale principio del rispetto dell’altrui sfera non trova applicazione poiché il negozio non tocca l’altrui sfera: il vantaggio che si verifica non è in diretta relazione causale con il negozio di rinuncia, ma ne costituisce soltanto una conseguenza riflessa e mediata[48].
All’estremo, qualora tutti rinunziassero, si estinguerebbe la comunione; se anche l’unico proprietario rinunziasse, la proprietà spetterebbe allo Stato.
La rinuncia puramente abdicativa, inoltre, anche in caso di comproprietà non è atto recettizio.
Questa conclusione deriva ancora dall’idea secondo cui gli effetti tipici del negozio si esauriscono nella sfera giuridica del dichiarante. Tuttavia, è solo per ragioni di opportunità che richiede la comunicazione agli altri contitolari, in un’ottica di reciproca correttezza[49].
Un’ultima specificazione da fare riguarda le spese, soprattutto nell’ipotesi di condominio.
La rinunzia abdicativa comporta che il condomino non sarà tenuto alle spese concernenti la cosa comune per il solo tempo successivo alla rinuncia, in quanto non risulta essere titolare della quota o degli spazi comuni. In ciò risiede una delle principali differenze con la rinuncia liberatoria che, invece, comporta l’estinzione di tutte le obbligazioni non solo per il futuro ma anche per quelle già sorte.
Si ritiene configurabile la rinunzia abdicativa anche in relazione ai diritti reali minori e, in particolare, ai diritti di godimento.
Essi, in linea generale, comportano una limitazione alla proprietà, per cui la rinunzia determina la ri-espansione di essa, la quale riacquista la sua portata originaria.
Questo si verifica soprattutto in caso di uso e abitazione, usufrutto, il cui venir meno comporta la concentrazione del godimento in capo al nudo proprietario.
Medesime conseguenze in caso di servitù e superficie, estinti i quali rispettivamente il proprietario riacquista la facoltà compressa e riprende il principio dell’accessione.
Diverso, invece, è il caso dell’enfiteusi: in questa ipotesi la rinunzia è ammissibile solo in caso di perimento parziale del fondo. Questa conclusione, secondo parte della dottrina, deriva dalle caratteristiche tipiche di tale diritto, in cui vi è una componente obbligatoria e una reale[50].
Queste considerazioni spingono ad affermare che la rinunzia in esame rappresenti una sorta di facoltà dei diritti reali attraverso cui si estrinseca lo ius utendi e abutendi di origine romanistiche e che ne tempo è in parte venuto meno a causa del bilanciamento con la funzione sociale, di cui sopra appena accennata.
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SICCHIERO G., Rinuncia, Digesto civile, Torino, 2014, Vol. IX, pp. 661; Cfr. anche BELLINVIA M., La rinunzia alla proprietà e ai diritti reali di godimento, Consiglio Nazionale del Notariato studio n.216 -2014/C, approvato dall’area scientifica – studi civilistici, 24 marzo 2014.
Giurisprudenza
Cassazione 22 marzo 1962, n. 592;
Cassazione 24 ottobre 1961, n. 2355;
Cassazione 26 giugno 1961, n. 1531;
Cassazione 6 maggio 1955, n. 1272.
Parere Avvocatura Generale dello Stato nota prot. n.137950 del 14 marzo 2018.
Tribunale di Genova, ordinanza n. 11634/2017.
Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 2/2020.
Tribunale di Genova, ordinanza n. 11634/2017.
Relazione del Presidente della Commissione per la Costituzione Meuccio Ruini che accompagna il Progetto di Costituzione della Repubblica italiana, 1947.
Cass. 2 giugno 1977, n. 2234; Cass. 26 settembre 1978, n. 4323.
In materia di espropriazione indiretta (Belvedere Alberghiera S.r.l. c. Italia, no 31524/96, CEDH 2000-VI, e Carbonara e Ventura c. Italia, no 24638/94, CEDH 2000-VI; tra le sentenze più recenti, vedere Acciardi e Campagna c. Italia, no 41040/98, 19 maggio 2005, Pasculli c. Italia, no 36818/97, 17 maggio 2005, Scordino c. Italia (no 3), no 43662/98, 17 maggio 2005, Serrao c. Italia, no 67198/01, 13 ottobre 2005, La Rosa ed Alba c. Italia (no 1), no 58119/00, 11 ottobre 2005, e Chirò c. Italia (no 4), no 67196/01, 11 ottobre 2005).
Corte EDU, sentenza n. 68585/01/2006, in https://www.anptes.org/cedu/sentenza/?id=64.
Corte EDU, 12 gennaio 2006; Serrao c. Italia, 13 gennaio 2006; Dominici c. Italia, 15 febbraio 2006; Sciselo c. Italia, 20 aprile 2006; Cerro s.a.s. c. Italia, 23 maggio 2006.
Sezioni Unite Cass. n.735/2015.
Sezioni Unite 14 aprile 2003, n. 5902; Cass. s.u. 6 maggio 2003, n. 6853.
Cass. 28 luglio 2008, n. 20543; Cass. 5 ottobre 21203; Cass. 22 aprile 2010, n. 9620;
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Cass. 3 maggio 2005, n. 9173; Cass. 18 febbraio 2000 n. 1814.
Cass. civ., sez. I, 24 maggio 2018, n. 12961, nonché Cass. civ., sez. I, 7 marzo 2017, n. 5686.
Cass. civ., Sez. Un., n. 3517/ 2019, Cons. Stato, sez. IV, 24 maggio 2018, n. 3105; Cons. Stato, sez. IV, 20 aprile 2018, n. 2396.
Consiglio di Stato n. 2/2020.
Consiglio di Stato n. 3/2020.
Consiglio di Stato n. 4/2020.
Sezioni Unite Cassazione, ordinanza n.9775/2020.
Cassazione n. 7466 /2020.
Cass. civ., Sez. II, 9 novembre 2009, n. 23691.
Sezioni Unite Cassazione, ordinanza n. 9775/2020.
Note
[1] COVIELLO N., Manuale di diritto civile – parte generale, Edizioni scientifiche italiane, 1929, pp. 324; BELLINVIA M., La rinunzia alla proprietà e ai diritti reali di godimento, Consiglio Nazionale del Notariato studio n.216 -2014/C, approvato dall’area scientifica – studi civilistici, 24 marzo 2014.
[2] BOZZI L., La negoziabilità degli atti di rinuncia, Milano, 2008, pp. 7.; RIVA D., Rinunzia abdicativa al diritto di proprietà, in Federnotizie, C.F. e P.IVA. 07975360962, 2018, https://www.federnotizie.it/rinuncia-abdicativa-al-diritto-di-proprieta/.
[3] Ibidem.
[4] MAIOCE F., Il negozio di rinuncia nel diritto privato, 1989, Edizioni scientifiche Italiane, pp. 924.
[5] RIVA D., Rinunzia abdicativa al diritto di proprietà, in Federnotizie, C.F. e P.IVA. 07975360962, 2018, https://www.federnotizie.it/rinuncia-abdicativa-al-diritto-di-proprieta/.
[6] MAIOCE F., Il negozio di rinuncia nel diritto privato, 1989, Edizioni scientifiche Italiane, pp. 934.
[7] Ivi, pp. 936 – 937.
[8] Cfr. anche Cass. 22 marzo 1962, n. 592; Cass. 24 ottobre 1961, n. 2355; Cass. 26 giugno 1961, n. 1531; Cass. 6 maggio 1955, n. 1272.
[9] SACCO R., Negozio astratto, negozio giuridico (circolazione del modello), nullità e annullabilità, Torino, 1995; SCALISI V., Negozio astratto, Enciclopedia del diritto, XXVIII, pp.52.
[10] SICCHIERO G., Rinuncia, Digesto civile, Torino, 2014, Vol. IX, pp. 661; Cfr. anche BELLINVIA M., La rinunzia alla proprietà e ai diritti reali di godimento, Consiglio Nazionale del Notariato studio n.216 -2014/C, approvato dall’area scientifica – studi civilistici, 24 marzo 2014.
[11]MAIOCE F., Il negozio di rinuncia nel diritto privato, 1989, Edizioni scientifiche Italiane, pp. 930; Parere avvocatura dello Stato n. 137950 del 14 Marzo 2018.
[12] RIVA D., Rinunzia abdicativa al diritto di proprietà, in Federnotizie, C.F. e P.IVA. 07975360962, 2018, https://www.federnotizie.it/rinuncia-abdicativa-al-diritto-di-proprieta/.
[13]BELLINVIA M., La rinunzia alla proprietà e ai diritti reali di godimento, Consiglio Nazionale del Notariato studio n.216 -2014/C, approvato dall’area scientifica – studi civilistici, 24 marzo 2014.
[14] RIVA D., Rinunzia abdicativa al diritto di proprietà, in Federnotizie, C.F. e P.IVA. 07975360962, 2018, https://www.federnotizie.it/rinuncia-abdicativa-al-diritto-di-proprieta/; BELLINVIA M., La rinunzia alla proprietà e ai diritti reali di godimento, Consiglio Nazionale del Notariato studio n.216 -2014/C, approvato dall’area scientifica – studi civilistici, 24 marzo 2014
[15] BELLINVIA M., La rinunzia alla proprietà ed ai diritti reali di godimento, cit. (l’autore tratta della rinunzia alla proprietà, alla comproprietà e ai diritti reali di godimento, sempre però qualificandole come species del genus rinuncia, senza specificazioni tassonomiche); GALEARDI D.M.S. – PAPPALARDO G. (a cura di), Riflessioni in tema di rinuncia alla proprietà, in www.federnotizie.it, 5 marzo 2015.
[16] RIVA D., Rinunzia abdicativa al diritto di proprietà, in Federnotizie, C.F. e P.IVA. 07975360962, 2018, https://www.federnotizie.it/rinuncia-abdicativa-al-diritto-di-proprieta/.
[17] Ibidem.
[18] Parere Avvocatura Generale dello Stato nota prot. n.137950 del 14 marzo 2018.
[19] Tribunale di Genova, ordinanza n. 11634/2017.
[20] Relazione del Presidente della Commissione per la Costituzione Meuccio Ruini che accompagna il Progetto di Costituzione della Repubblica italiana, 1947.
[21] PALMERI S., Il concetto di proprietà nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Diritto.it, ISSN 1127-8579, 26 aprile 2017, https://www.diritto.it/il-concetto-di-proprieta-nella-convenzione-europea-dei-diritti-dell-uomo/.
[22] Di MEO D., L’espropriazione sanate per pubblica utilità: dall’occupazione usurpativa all’acquisizione sanate, 12 Febbraio 2015, in Diritto.it, ISSN 1127-8579, https://www.diritto.it/l-espropriazione-per-pubblica-utilita-dall-occupazione-usurpativa-all-acquisizione-/sanante.
[23] Cfr. Cass. 2 giugno 1977, n. 2234; Cass. 26 settembre 1978, n. 4323.
[24] DI MEO D., L’espropriazione sanate per pubblica utilità: dall’occupazione usurpativa all’acquisizione sanate, 12 Febbraio 2015, in Diritto.it, ISSN 1127-8579, https://www.diritto.it/l-espropriazione-per-pubblica-utilita-dall-occupazione-usurpativa-all-acquisizione-/sanante.
[25] Borgo M., Occupazione acquisitiva, occupazione usurpativa, acquisizione coattiva sanante ex art. 43 Testo Unico. L’evoluzione giurisprudenziale sull’espropriazione, Avvocato dello Stato presso l’Avvocatura distrettuale di Reggio Calabria, Rassegna Avvocatura dello Stato, p. 275.
[26] La Corte rinvia alla sua giurisprudenza in materia di espropriazione indiretta (Belvedere Alberghiera S.r.l. c. Italia, no 31524/96, CEDH 2000-VI, e Carbonara e Ventura c. Italia, no 24638/94, CEDH 2000-VI; tra le sentenze più recenti, vedere Acciardi e Campagna c. Italia, no 41040/98, 19 maggio 2005, Pasculli c. Italia, no 36818/97, 17 maggio 2005, Scordino c. Italia (no 3), no 43662/98, 17 maggio 2005, Serrao c. Italia, no 67198/01, 13 ottobre 2005, La Rosa ed Alba c. Italia (no 1), no 58119/00, 11 ottobre 2005, e Chirò c. Italia (no 4), no 67196/01, 11 ottobre 2005)
[27] Corte EDU, sentenza n. 68585/01/2006, in https://www.anptes.org/cedu/sentenza/?id=64.
Italia, 20 aprile 2006; Cerro s.a.s. c. Italia, 23 maggio 2006.
[28] Sezioni Unite Cass. n.735/2015.[28] Il medesimo concetto è espresso nella sentenza Carletta c. Italia, 15 luglio 2005.
[29] Cfr. anche le sentenze Sciarrotta c. Italia, 12 gennaio 2006; Serrao c. Italia, 13 gennaio 2006; Dominici c. Italia, 15 febbraio 2006; Sciselo c. Italia, 20 aprile 2006; Cerro s.a.s. c. Italia, 23 maggio 2006.
[30] Sezioni Unite Cass. n.735/2015.
[31] Cfr. anche Cass. s.u. 14 aprile 2003, n. 5902; Cass. s.u. 6 maggio 2003, n. 6853.
[32]Cfr. anche Cass. 28 luglio 2008, n. 20543; Cass. 5 ottobre 21203; Cass. 22 aprile 2010, n. 9620;
Cass. 26 maggio 2010, n. 12863; Cass. 26 marzo 2013, n. 7583; Cass. 18 settembre 2013, n. 21333.
[33] Cass. 3 maggio 2005, n. 9173; Cass. 18 febbraio 2000 n. 1814.
[34] Cass. civ., sez. I, 24 maggio 2018, n. 12961, nonché Cass. civ., sez. I, 7 marzo 2017, n. 5686.
Ancora di recente la sentenza Cass. civ., Sez. Un., n. 3517/ 2019, Cons. Stato, sez. IV, 24 maggio 2018, n. 3105; Cons. Stato, sez. IV, 20 aprile 2018, n. 2396
[35] Consiglio di Stato n. 2/2020.
[36] Cfr. Consiglio di Stato n. 3/2020.
[37] Cfr. Consiglio di Stato n. 4/2020.
[38] Sezioni Unite Cassazione, ordinanza n. 9775/2020.
[39] MOSCARINI L.V., Enc. Giuridica Treccani, pp. 3.
[40] BOZZI L., La negoziabilità degli atti di rinuncia, Milano, 2008, pp. 1149.
[41] ATZERI F., Delle rinunzie secondo il codice civile italiano, Torino, 1910, pp. 1.
[42] SACCO R., Negozio astratto, negozio giuridico (circolazione del modello), nullità e annullabilità, Torino, 1995; SCALISI V., Negozio astratto, Enciclopedia del diritto, XXVIII, pp.88.
[43] BELLINVIA M., La rinunzia alla proprietà e ai diritti reali di godimento, Consiglio Nazionale del Notariato studio n.216 -2014/C, approvato dall’area scientifica – studi civilistici, 24 marzo 2014.
[44] Cass. civ., Sez. II, 9 novembre 2009, n. 23691.
[45]Cass. n. 3819/2015.
[46] BENEDETTI G., Il diritto comune dei contratti e degli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale, Napoli, 1991. pp. 168 ss.
[47] CICALA R., L’adempimento indiretto del debito altrui, 2012, pp. 189 ss. Cfr. inoltre MASTROIACOVO, La rilevanza delle vicende abdicative nella disciplina sostanziale dei tributi, 2012, pp. 3 e ss; BENEDETTI G., Il diritto comune dei contratti e degli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale, Napoli, 1991. pp. 168 ss.
[48] Ibidem.
[49] BELLINVIA M., La rinunzia alla proprietà e ai diritti reali di godimento, Consiglio Nazionale del Notariato studio n.216 -2014/C, approvato dall’area scientifica – studi civilistici, 24 marzo 2014.
[50] Ibidem.
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