A seguito dell’investimento di un pedone, deceduto in conseguenza
di un sinistro, gli eredi del defunto convenivano in giudizio il
proprietario del mezzo nonché la compagnia di assicurazioni, per
vedersi riconosciuti il risarcimento dei danni subiti.
Nel giudizio interveniva l’Inail con azione di surroga per la rendita
erogata.
In primo grado il Tribunale accoglieva la domanda liquidando in
danno (iure proprio e iure hereditatis).
Impugnavano la decisione i medesimi eredi, chiedendo la
liquidazione di una maggior somma, rispetto a quella richiesta
originariamente, sostenendo a tal uopo l’applicazione delle cd.
tabelle milanesi, comunemente in uso sin dall’anno 2011.
La Corte d’Appello, pur riconoscendo l’applicabilità delle tabelle
adottate dal Tribunale di Milano, affermava tuttavia che “ex art.
345 c.p.c., non è ammissibile, come richiesto in questo grado
dall’appellante, l’incremento del risarcimento oltre l’importo indicato
nell’originario atto di citazione”.
In sostanza, il giudice di appello, riteneva la domanda nuova e,
come tale, inammissibile, giusto disposto di cui all’art. 345 c.p.c.,
per il quale: “Nel giudizio d’appello non possono proporsi domande
nuove e, se proposte, debbono essere dichiarate inammissibili
d’ufficio. Possono tuttavia domandarsi gli interessi, i frutti e gli
accessori maturati dopo la sentenza impugnata, nonché il
risarcimento dei danni sofferti dopo la sentenza stessa. Non
possono proporsi nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche
d’ufficio. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova, e non possono
essere prodotti nuovi documenti salvo che la parte dimostri di non
aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa
ad essa non imputabile. Può sempre deferirsi il giuramento
decisorio”.
Propongono ricorso per cassazione gli eredi del de cuis, affidando lo
stesso ad un unico motivo, la violazione e/o falsa applicazione
dell’art. 345 c.p.c., nonché il vizio di motivazione per la liquidazione
del danno non patrimoniale in maniera assolutamente inadeguata,
anche con riferimento alla omessa personalizzazione del
risarcimento del danno morale.
In particolare, sostengono i ricorrenti che il giudice di secondo
grado pur riconoscendo l’applicabilità della tabelle del Tribunale di
Milano, avrebbe errato nel ritenere inammissibile la richiesta di un
importo superiore rispetto a quello originariamente indicato in
citazione, in ragione del fatto che la diversa quantificazione della
pretesa non costituisce “domanda nuova” preclusa dalla previsione
dell’art. 345 c.p.c.
Rilevano inoltre il difetto di personalizzazione del danno, atteso che
la peculiarità del caso consentirebbe “l’attribuzione del massimo
valore risarcitorio previsto dalle tabelle di Milano 2011 per la
perdita del congiunto”.
La giurisprudenza di legittimità si è più volte espressa in siffatta
materia, evidenziando come: “Si ha domanda nuova – inammissibile
in appello – per modificazione della “causa petendi” quando i nuovi
elementi, dedotti dinanzi al giudice di secondo grado, comportino il
mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato, modificando
l’oggetto sostanziale dell’azione ed i termini della controversia, in
modo da porre in essere una pretesa diversa, per la sua intrinseca
essenza, da quella fatta valere in primo grado e sulla quale non si è
svolto in quella sede il contraddittorio” (Cass. civ., 23/07/2015,
n. 15506. Tra le altre: Cass. civ., 10/09/2012, n. 15101; Cass.
civ., 28/01/2013, n. 1861; Cass. civ., 27/11/2012, n.
21002).
Il discrimine, pertanto, tra domanda nuova inammissibile in appello
e la consentita specificazione della domanda ovvero la diversa
quantificazione della stessa, risiede nella immutabilità dell’oggetto.
Pertanto, solo quando viene allargato il tema di indagine o si fonda
la domanda su un titolo diverso, rispetto a quello originariamente
dedotto, questa risulta inammissibile perché viola il disposto
dell’art. 345 c.p.c.
Ciò posto, con specifico riferimento ai danni da circolazione
stradale, è stato ritenuto che: “In caso di domanda di risarcimento
“di tutti i danni” (nella specie, conseguenti alla morte di una
persona), la quale è indicativa della volontà di conseguire l’integrale
risarcimento di tutte le voci di danno legittimamente ricollegabili
all’evento lesivo, la successiva specificazione dei singoli danni di cui
si invochi la liquidazione (nella specie, nella memoria ex art. 183,
quinto comma, cod. proc. civ.) ha valore meramente
esemplificativo e non può essere interpretata come volontà di
delimitare il “petitum”” (Cass. civ., 17/12/2009, n. 26505); “In
caso di illecito da circolazione stradale, non possono essere
qualificate domande nuove le specificazioni delle singole
componenti del danno subìto formulate, nel corso del giudizio
d’appello, dai congiunti conviventi della vittima tenendo conto del
diritto giurisprudenziale vivente, anche al fine di resistere ai motivi
di gravame della parte appellante, una volta che la domanda
originaria sia comprensiva di tutti i danni, patrimoniali e non
patrimoniali, “iure proprio” e “iure successionis”” (Cass. civ.,
28/11/2007, n. 24745); “L’azione di responsabilità fondata sulla
violazione di un obbligo di custodia è intrinsecamente diversa da
quella fondata sul principio generale del neminem laedere, in
quanto l’applicabilità dell’una o dell’altra norma implica, sul piano
eziologico e probatorio, diversi accertamenti e coinvolge distinti
temi di indagine. Proposta, dunque, in primo grado una domanda
ex art. 2043 c.c., non è consentito alla parte in appello fondare la
medesima domanda sulla violazione dell’obbligo di custodia, perché
ciò finirebbe per stravolgere il processo, mettendo il danneggiante
nella situazione di doversi attivare quando una serie di preclusioni
processuali si sono già maturate. Di talché la domanda ex art. 2051
c.c. può non essere considerata nuova in appello rispetto a quella
fondata ex art. 2043 c.c., solo se l’attore abbia, sin dall’atto
introduttivo del giudizio, enunciato in modo sufficientemente chiaro,
situazioni di fatto suscettibili di essere valutate come idonee, in
quanto compiutamente precisate, ad integrare le fattispecie
contemplate dalle predette disposizioni” (Cass. civ., 21/09/2015,
n. 18463); “Nell’assicurazione obbligatoria per responsabilità civile
da circolazione dei veicoli, la domanda di condanna dell’assicuratore
al risarcimento del danno per “mala gestio” cosiddetta impropria
deve ritenersi implicitamente formulata tutte le volte in cui la
vittima abbia domandato la condanna al pagamento di interessi e
rivalutazione, anche senza riferimento al superamento del
massimale o alla condotta renitente dell’assicuratore. Ne consegue
che non costituisce domanda nuova quella con cui in appello i
danneggiati chiedano la condanna dell’assicuratore al pagamento
della differenza tra danno liquidato e superamento del massimale di
polizza, che va intesa quale riproposizione della domanda originaria
nei limiti del riconoscimento di interessi moratori e rivalutazione
oltre il massimale di legge” (Cass. civ., 27/06/2014, n. 14637).
La Suprema Corte, nella sentenza oggi in commenta, non si
disposta affatto dai suddetti principi.
La stessa, infatti, richiamando in propri precedenti, evidenzia come:
“la diversa quantificazione o specificazione della pretesa, fermi i
suoi fatti costitutivi, non comporta prospettazione di una nuova
“causa petendi” in aggiunta a quella dedotta in primo grado e,
pertanto, non da luogo ad una domanda nuova, come tale
inammissibile in appello ai sensi degli artt. 345 e 437 c.p.c.” (Cass.
n. 14961/2006; cfr. Cass. n. 9266/2010 e Cass. n. 4828/2006),
cosicchè, “in tema di risarcimento danni (nella specie, danni non
patrimoniali per morte di un prossimo congiunto), la circostanza
che l’attore, nel domandare il ristoro del danno patito, dopo aver
quantificato nell’atto di citazione la propria pretesa, all’udienza di
precisazione delle conclusioni domandi la condanna del convenuto
al pagamento di una somma maggiore, al fine di tenere conto dei
nuovi criteri standard di risarcimento (c.d. “tabelle”) adottati dal
tribunale al momento della decisione, non costituisce mutamento
inammissibile della domanda, sempre che attraverso tale
mutamento non si introducano nel giudizio fatti nuovi o nuovi temi
di indagine” (Cass. n. 1083/2011; cfr. Cass. n. 17977/2007)”
(Cass. civ. Sez. III, Sent., 17/12/2015, n. 25341).
Nel caso concreto, il Supremo Collegio, rileva che i termini della
controversia sono rimasti immutati, non trovandosi al cospetto di
un nuovo tema di indagine ma di una mera richiesta di
adeguamento degli importi richiesti, in virtù dei nuovi parametri
tabellari, pertanto, la variazione quantitativa del petitum non
comportando l’introduzione di una domanda nuova, risulta
pienamente ammissibile.
La Corte di Cassazione, quindi, ritiene la sentenza impugnata da
cassare “laddove ha ritenuto di non potere superare il limite
economico segnato dalle conclusioni prese nell’atto di citazione
introduttivo del giudizio di primo grado”, con l’assorbimento dei
restanti dedotti profili di illegittimità, in considerazione del fatto che
il rinvio ad una nuova sezione della Corte d’Appello, comporta
comunque una nuova complessiva valutazione del quantum dovuto.
Ricorda, a tal proposito, che l’anzidetta nuova decisione in merito
all’entità dei danni subiti, dovrà essere adottata in conformità
delle tabelle vigenti al momento della decisione.
Ed invero: “Se le “tabelle” applicate per la liquidazione del danno
non patrimoniale da morte di un prossimo congiunto cambino nelle
more tra l’introduzione del giudizio e la sua decisione, il giudice
(anche d’appello) ha l’obbligo di utilizzare i parametri vigenti al
momento della decisione” (Cass. civ. Sez. III, 11/05/2012, n.
7272).
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