Risarcimento dei detenuti per sovraffollamento

AR redazione 01/12/14

Cosa si deve intendere per “pregiudizio” nel caso previsto dall’art. 35 ter, comma I, legge, 26 luglio 1975, n. 354.

     Come noto, il comma I dell’art. 35 ter della legge n. 354 del 1975 prevede che quando «il pregiudizio di cui all'articolo 69, comma  6,  lett. b), consiste, per un periodo  di  tempo  non  inferiore  ai  quindici giorni, in condizioni di detenzione  tali  da  violare  l'articolo  3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle liberta' fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, come interpretato dalla Corte europea dei diritti  dell'uomo», «il magistrato  di  sorveglianza dispone, a titolo di risarcimento del danno, una riduzione della pena detentiva ancora da espiare pari, nella durata, a un giorno per  ogni dieci durante il quale il richiedente ha subito il pregiudizio».
 
      Orbene, scopo del presente scritto è quello di provare a comprendere cosa si debba intendere per pregiudizio nel caso legislativo appena citato. Infatti, ove si procedesse ad una mera interpretazione letterale di questo dato normativo, sembrerebbe che l’unico pregiudizio, che possa rilevare nel caso di specie, sia quello avente ad oggetto condizioni di detenzione lesive dell’art. 3 CEDU così come interpretato dai giudici di Strasburgo. Da ciò ne dovrebbe derivare, come logico corollario, che, una volta che dette situazioni siano venute meno, la sofferenza, patita a causa di questo stato di cose, deve ritenersi non più ristorabile, né a livello compensatorio, né a livello risarcitorio. Se non che, come rilevato da autorevole letteratura scientifica, proprio perché la disposizione summenzionata omette «di prendere in considerazione la situazione di coloro che, pur essendo detenuti o internati nel momento in cui esercitano l'azione risarcitoria, lamentano un  pregiudizio derivante da condizioni detentive non più attuali»[1], è stato ritenuto all’uopo necessario, al fine di evitare una possibile censura di illegittimità costituzionale della predetta norma giuridica sotto il profilo della irragionevolezza per violazione dell’art. 3 Cost, procedere ad «un'interpretazione analogica, che consenta anche a tale categoria di soggetti di usufruire del nuovo rimedio risarcitorio, nelle forme del reclamo al magistrato di sorveglianza di cui all'art. 35 ter o.p»[2]. Posto ciò, tale scelta ermeneutica si palesa, ad avviso di chi scrive, condivisibile. Infatti, il trattamento carcerario in sé dovrebbe rappresentare semplicemente la causa da cui scaturisce il pregiudizio e non esso stesso il danno. In effetti, il pregiudizio, di  cui all'articolo 69, comma 6, lett. b, o.p., a cui, come esposto prima, fa espresso riferimento l’art. 35 ter, co. I, legge n. 354 del 1975 si riferisce «all'esercizio dei diritti» ossia a delle situazioni giuridiche soggettive riconosciute al detenuto che, proprio in quanto tali, non possono identificarsi con le condizioni carcerarie. Infatti, il trattamento detentivo non inumano e/o non degradante rappresenta unicamente il mezzo attraverso il quale i diritti riconosciuti al detenuto nel nostro ordinamento giuridico (costituzionale prima e penitenziario poi) devono trovare protezione ma certamente non si identificano con loro. Ad esempio, se è vero, secondo la giurisprudenza della Corte europea, che la tutela della salute, alla luce dell’art. 3 CEDU, consiste, nella «mancanza di apprestamento di cure mediche adeguate e necessitate»[3] o nell’«incompatibilità dello stato di detenzione rispetto alle condizioni di salute del detenuto»[4], è altrettanto vero che il pregiudizio dovrà considerarsi cessato, non tanto quanto il paziente detenuto inizi a ricevere le cure mediche adeguate e necessitate che prima non aveva avuto quanto piuttosto che, una volta somministrate le terapie dovute, le sofferenze patite, a cagione del pregresso stato detentivo lesivo dell’art. 3 CEDU, siano venute meno. In altri termini, si ritiene che il mero ripristino di condizioni carcerarie conformi a questa norma convenzionale non consente sempre e comunque il venir meno del pregiudizio subito per effetto dell’antecedente condizione carceraria, essendo per contro necessario verificare se il pregiudizio, inteso come lesione al diritto del detenuto, sia effettivamente venuto meno  (esempio: un paziente, con problemi di salute, viene curato adeguatamente e, una volta avvenuto ciò, si è completamente ristabilito). D’altronde, a conferma della bontà di tale assunto giuridico, sembra militare autorevole letteratura scientifica la quale ritiene «che – a regime – i “rimedi gemelli” di cui agli artt.35-bis e 35-ter, ord. penit., saranno esperiti contestualmente, da chi, trovandosi in una situazione di pregiudizio attuale per condizioni detentive inumane e degradanti, chiederà al giudice non soltanto la rimozione della situazione causativa del danno, ma altresì il ristoro del medesimo»[5] parendo essere questa «la volontà del legislatore disegnata con il richiamo, operato dalla disciplina del ricorso risarcitorio, all'art. 69, comma 6, lett. b), ord. penit., ossia alla disposizione che individua i casi nei quali può farsi luogo al rimedio preventivo attraverso il reclamo giurisdizionale di cui all'art. 35-bis della medesima legge»[6]. 
 

          Tale costrutto ermeneutico, tra l’altro, sembra aver trovato conferma anche in sede giudiziale. E’ stato infatti affermato, da un lato, che il riferimento portato dalla nuova disciplina del rimedio risarcitorio alla disposizione della legge penitenziaria di cui all’art. 69, precisa «che la lesione accertata, per fondare una pronuncia di addebito a carico dell’Amministrazione penitenziaria suscettibile di risarcimento, deve consistere in un pregiudizio della posizione soggettiva del soggetto detenuto o internato»[7], dall’altro, che la «ratio della norma risarcitoria è ristorare, in primis, con il rimedio detrattivo della riduzione di pena il detenuto che sia stato in condizioni disumane e degradanti quando la pena sia ancora in essere e la sua sofferenza correlata possa essere ancora ridotta o eliminata»[8].

 

Tale approdo ermeneutico sembra inoltre ottenere una riprova anche alla luce di quanto affermato dal C.S.M. nella delibera consiliare del 30 luglio 2014 in cui è stato formulato un parere avente ad oggetto il testo del decreto-legge 26 giugno 2014 n. 92 ossia quel corpo normativo da cui ha avuto origine la disposizione legislativa succitata. Ed infatti, il supremo organo di autogoverno della magistratura ha rilevato che «le domande azionabili sono unicamente quelle riferibili a situazioni in cui la lesione dei diritti della persona incarcerata, conseguente al sovraffollamento, fosse attuale al momento della richiesta di accertamento e non si fosse ormai consumata (per essersi, ad esempio, esaurita la situazione di sovraffollamento)»[9]. E’ evidente che, al di là del caso specifico ivi considerato (ossia il sovraffollamento carcerario), applicando tale passaggio argomentativo a tutti i casi astrattamente riconducibili alle violazioni ipotizzate dall’art. 35 ter o.p. (dovendosi ritenere che detta norma annoveri tutte le ipotesi in cui il detenuto ha «subito una detenzione che la Corte europea considera in contrasto con il divieto di trattamenti inumani e degradanti, indipendentemente dalla causa che abbia generato una tale situazione e a prescindere pertanto dalla condizione di sovraffollamento carcerario»[10]) ne discende che l’attualità della lesione dovrebbe essere parametrata alla lesione dei diritti della persona ristretta e non al venir meno della situazione che ha determinato tale danno il quale, come esposto prima, non sempre e non necessariamente consente la conclusione di tale pregiudizio.

 


[1]A. Della Bella, Il risarcimento per i detenuti vittime di sovraffollamento: prima lettura del nuovo rimedio introdotto dal d.l. 92/2014, in http://www.penalecontemporaneo.it/tipologia/0-/-/-/3343-/.

[2]Ibidem.

[3]V. MancaLA CORTE DEI DIRITTI DELL’UOMO TORNA A PRONUNCIARSI SUL DIVIETO DI TORTURA E DI RATTAMENTI INUMANI E DEGRADANTI: L’INADEGUATEZZA DEGLI STANDARD DI TUTELA DELLE CONDIZIONI DI SALUTE DEL DETENUTO INTEGRANO UNA VIOLAZIONE DELL’ART. 3 CEDU, in http://www.penalecontemporaneo.it/upload/1414511174MANCA_2014a.pdf.

[4]Ibidem.

[5]F. Fiorentin,  I NUOVI RIMEDI RISARCITORI DELLA DETENZIONE CONTRARIA ALL’ART. 3 CEDU: LE LACUNE DELLA DISCIPLINA E LE INTERPRETAZIONI CONTROVERSE,  in http://www.penalecontemporaneo.it/upload/1415181985FIORENTIN_2014a.pdf.

[6]Ibidem.

[7]Mag.Sorv.Vercelli, decreto 24 settembre 2014, est. F. Fiorentin, in http://www.personaedanno.it/index.php?option=com_content&view=article&id=46144&catid=212

[8]Mag.Sorv. Bologna, ordinanza 8 ottobre 2014, est. S. Napolitano, in http://www.penalecontemporaneo.it/upload/1416389830MS_Bologna_26_9_2014.pdf con nota di G. Malvasi, Nota di commento alle ordinanze dell’ufficio di sorveglianza di Bologna in ordine alla concessione del rimedio di cui all’art. 35 ter o.p., in http://www.penalecontemporaneo.it/tipologia/0-/-/-/3455-/.

[9]C.S.M., Delibera consiliare del 30 luglio 2014, in http://www.csm.it/PDFDinamici/20140730_6.pdf.

[10]In tale senso: A. Della Bella, Il risarcimento per i detenuti vittime di sovraffollamento: prima lettura del nuovo rimedio introdotto dal d.l. 92/2014, in http://www.penalecontemporaneo.it/tipologia/0-/-/-/3343-/

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