CASSA INTEGRAZIONE E LICENZIAMENTO DOPO LA RIFORMAMaggioli Editore – Novità Febbraio 2013 |
Massima |
In tema di risarcimento del danno nei casi di conversione del contratto di lavoro a tempo determinato, la sopravvenuta disciplina dell’art. 32, commi 5, 6 e 7, della L. 183/2010, come interpretata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 303 del 2011, si applica nel giudizio pendente in grado di legittimità, qualora tale “ius superveniens” sia pertinente alle questioni dedotte nel ricorso per cassazione. |
1. Questione
Il Tribunale ha dichiarato nullo il termine apposto al contratto di lavoro subordinato stipulato dal 6 al 30 giugno 2001 “per esigenze di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione”, con conseguente conversione del rapporto a tempo determinato e con la condanna della società al risarcimento dei danni dalla data di offerta della prestazione, individuata in quella della notifica della richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione. Nel frattempo viene proposto ricorso in appello ed in cassazione. La Cassazione accoglie la richiesta di applicazione dello ius superveniens, rappresentato dall’art. 32, commi da 5 a 7, della Legge n. 183 del 2010.
2. Conversione del contratto a termine e risarcimento del danno: art. 32 della L. 183/2010
Va ricordato che la conversione del rapporto dà il diritto al lavoratore di riprendere il suo posto di lavoro e di ottenere il risarcimento del danno qualora ciò venga negato (Cass. civ., sez. un., n. 7471 del 1991). La giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di pronunciare in punto di conversione del contratto con clausola temporale nulla, sostenendo la inserzione automatica di clausole legali, ex art. 1419, c. 2, c.c., in sostituzione di clausole nulle per contrasto a norma imperative e rifacendosi alla giurisprudenza sul punto (Cass. civ., n. 3293 del 1983, confermata da Cass. civ., n. 19156 del 2005). Questa tesi ha ora trovato conferma in Cass. civ., 12985/2008, la quale, estendendo altresì la riflessione alla portata dell’interpretazione costituzionalmente orientata ed alle direttive comunitarie sul punto, ha insegnato che: “L’art. 1 del d.lgs. 368/2001, anche anteriormente alla modifica introdotta dall’art. 39 della L. 247/2007, ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo l’apposizione del termine un’ipotesi derogatoria pur nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante l’apposizione del termine “per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. Pertanto, in caso di insussistenza delle ragioni giustificative del termine, e pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente la mancanza delle dette ragioni, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, nonché alla stregua dell’interpretazione dello stesso art. 1 del d.lgs. 368/2001 citato nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE (recepita con il richiamato decreto), e nel sistema generale dei profili sanzionatoli nel rapporto di lavoro subordinato, tracciato dalla Corte Cost. n. 210 del 1992 e n. 283 del 2005, all’illegittimità del termine ed alla nullità della clausola di apposizione dello stesso consegue l’invalidità parziale relativa alla sola clausola e l’instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (principio applicato in fattispecie di primo ed unico contratto a termine)”. In ordine alle conseguenze risarcitorie, va detto che nelle more è intervenuto l’art. 32, comma 5, della L. 183/2010 (c.d. Collegato Lavoro) il quale ha stabilito che: “Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della L. 604/1966”. La norma è stata dubitata di illegittimità costituzionale ma il Giudice delle leggi (sent. n. 303/11) ha escluso questa eventualità. Secondo la pressoché unanime dottrina, il legislatore, approntando il detto meccanismo, ha previsto una forma di indennità forfetaria, rispetto alla quale, dunque, non interferiscono i consueti canoni di accertamento e liquidazione del risarcimento danni, restandone superata anche ogni questione relativa all’aliunde perceptum e/o alla sinallagmaticità delle prestazioni, sollevate da Poste.
Ha avuto modo di precisare, infatti, la Cass. civ., n. 3056 del 2012 che in tema di risarcimento del danno per i casi di conversione del contratto di lavoro a tempo determinato, lo “ius superveniens” ex art. 32, commi 5, 6 e 7, della L. 183/2010 (applicabile nel giudizio pendente in grado di legittimità qualora pertinente alle questioni dedotte nel ricorso per cassazione) configura, alla luce dell’interpretazione adeguatrice offerta dalla Corte costituzionale con sentenza n. 303 del 2011, una sorta di penale “ex lege” a carico del datore di lavoro che ha apposto il termine nullo; pertanto, l’importo dell’indennità è liquidato dal giudice, nei limiti e con i criteri fissati dalla novella, a prescindere dall’intervenuta costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova di un danno effettivamente subito dal lavoratore (senza riguardo, quindi, per l’eventuale “aliunde perceptum”), trattandosi di indennità “forfetizzata” e “onnicomprensiva” per i danni causati dalla nullità del termine nel periodo cosiddetto “intermedio” (dalla scadenza del termine alla sentenza di conversione)”.
3. Art. 32, commi 5, 6 e 7, della L. 183/2010 e Corte cost.: rassegna giurisprudenziale
Sono manifestamente infondate, in quanto già risolte dalla sentenza n. 303 del 2011, le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 32, commi 5, 6 e 7, della L. 132/2010 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 111 e 117 Cost., dalla Corte d’appello di Potenza, sezione lavoro (Corte cost., 3 maggio 2012, n. 112).
Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale delle norme di cui all’art. 32, commi 5, 6 e 7, della L. 132/2010 – “Collegato lavoro” – (sollevate in riferimento agli artt. 3, 4, 11, 24, 101, 102, 111 e 117, comma 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, primo comma, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo) nella parte in cui prevedono che, nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il risarcimento del lavoratore illegittimamente estromesso alla scadenza del termine debba essere ragguagliato ad una indennità onnicomprensiva da liquidare tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, alla stregua dei criteri dettati dall’art. 8 della L. 604/1966 (art. 32, comma 5); che il limite massimo dell’indennità sia ridotto alla metà in presenza di contratti collettivi di qualsiasi livello, purché stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie (art. 32, comma 6); che tali disposizioni trovino applicazione per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della predetta legge (art. 32, comma 7). Infatti la censurata normativa: 1) assicura la stabilizzazione del rapporto, 2) forfetizza il danno – con valenza sanzionatoria – solo per il periodo compreso tra la scadenza del termine e l’accertamento giudiziale della sua nullità, 3) favorisce l’intervento della contrattazione collettiva nella regolazione dell’assorbimento del personale precario, 4) non lede né le attribuzioni del potere giudiziario, intervenendo elusivamente sul piano delle fonti, né, 5) le garanzie imposte dalla Cedu per evitare un’intromissione del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, volta ad influire sulla decisione di una singola controversia o su un gruppo di esse, sia per il carattere generale della disciplina e sia in quanto ricorrono i “motivi di interesse generale” che legittimano il margine di apprezzamento dello stato membro (Corte cost., 11/11/2011, n. 303).
Rocchina Staiano
Dottore di ricerca; Docente all’Univ. Teramo; Docente formatore accreditato presso il Ministero di Giustizia e Conciliatore alla Consob con delibera del 30 novembre 2010; Avvocato. E’ stata Componente della Commissione Informale per l’implementamento del Fondo per l’Occupazione Giovanile e Titolare di incarico a supporto tecnico per conto del Dipartimento della Gioventù.
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