Con sentenza del 2001 veniva dichiarato il fallimento di una S.r.l., con conseguente nomina del GD e del Curatore, nonché fissazione dell’adunanza dei creditori per l’esame dello stato passivo.
Nel luglio del 2002, ultimate le operazioni di verifica dei crediti insinuati, il Giudice Delegato dichiarava esecutivo lo stato passivo del fallimento della società fallita; nel gennaio 2008 veniva richiesta la chiusura del fallimento, con un ulteriore rinvio ad un’udienza del 2010, cui faceva seguito nell’ottobre 2010 l’istanza del curatore per la chiusura della procedura fallimentare, stante l’assoluta mancanza di attivo distribuibile.
A novembre 2010 il Tribunale di Lecce – Sezione Commerciale emetteva – ex art. 118, n. 4, L.F. – decreto di chiusura del fallimento e a dicembre dello stesso anno veniva predisposta la comunicazione di decreto di chiusura del fallimento “per mancanza di attività”, notificata all’Amministratore della Srl fallita nel 2011.
Tuttavia, il fallimento de quo si sarebbe potuto chiudere già nel 2002, allorché, verificati i crediti ammessi al passivo, si prese atto dell’assoluta mancanza di attivo distribuibile e non si procedette al recupero di alcun credito.
I periodi di ingiustificata inattività assommano a 8 anni, ossia a circa 2.920 giorni di assoluta inerzia degli Organi della procedura fallimentare, cui si sommano altri anni di attesa per l’Amministratore della Srl fallita prima di poter liberamente accedere al credito.
La Corte d’Appello di Potenza, territorialmente competente a conoscere per il Distretto di Lecce, ha accolto le istanze dell’Amministratore della Srl fallita, convivendone la convinzione che sia totalmente abnorme ed irragionevole la durata della procura fallimentare de qua.
Nel caso di specie, non c’è stata quasi necessità di illustrare in dettaglio i motivi del ritardo, poiché superata una certa soglia non vi è più necessità di indagare sui singoli momenti e dei motivi del ritardo [1] e poichè si è avverata anche l’assoluta inerzia degli Organi della procedura fallimentare, vera ed unica causa dell’annoso ritardo, carenza dell’organizzazione e del funzionamento dell’apparato giudiziario, di cui unico responsabile è il Ministero della Giustizia, ex art. 110 della Costituzione.
Se è vero che nel caso in cui ad essere dichiarata fallita è una società di capitali, il fallimento non si estende ne ai soci ne agli amministratori, i quali, quindi, possono intraprendere altre attività; è anche vero che ci sono “operatori economici” (nello specifico, banche) che hanno respinto pratiche di finanziamento dell’Amministratore ricorrente alla Corte d’Appello di Potenza, negandone l’accesso al credito.
Secondo la Corte d’Appello di Potenza, si è verificata una violazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, il cui dettato dispone che “ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta”.
In più, l’art. 2 della legge 89/2001 stabilisce che “chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’articolo 6, paragrafo 1, della Convenzione, ha diritto ad una equa riparazione”.
Non sussisteva alcuna ragionevole proporzione in relazione durata complessiva della procedura concorsuale in questione : in particolare il tempo strettamente necessario per la trattazione della procedura stessa, non poteva superare – secondo la Corte d’Appello di Potenza – i quattro anni, tenuto conto anche che non vi sono state né attività particolari di alcun genere, nè richieste delle parti, e del fatto che da subito è stato chiaro che non vi era alcun attivo da recuperare.
Il ristoro del danno subìto dall’Amministratore della Srl fallita è stato rapportato ai cinque anni di eccedenza temporale della durata della procedura concursuale.
Se, da un lato, l’attribuzione agli organi fallimentari “di una serie di compiti di natura processuale, ma anche di natura amministrativa, quali la apprensione e la conservazione in senso dinamico del complesso del patrimonio del debitore e la liquidazione al fine specifico della soddisfazione dei creditori, che, a loro volta, richiedono scelte di natura gestionale che si riversano sulla durata del processo fallimentare; gli organi fallimentari godono, quindi, molto più del giudice di un ordinario processo di cognizione o di esecuzione, di margini di discrezionalità che discendono dalla necessità di tutelare gli interessi complessivi coinvolti nel fallimento” [2]; dall’altro, la procedura fallimentare durata dieci anni (ma che si poteva chiudere in soli quattro anni) ha inevitabilmente procurato notevole danni al ricorrente, sia sotto il profilo economico che morale.
Una dirimente sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione [3] ha affermato che il danno non patrimoniale è “conseguenza normale”, ancorché non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di cui all’art. 6 della Cedu; pertanto, pur dovendo escludersi la configurabilità di un danno in re ipsa (ossia automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della violazione), il Giudice, che ha accertato e determinato l’entità della violazione relativa alla durata ragionevole, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogniqualvolta non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che escludono che il danno sia stato subito dal ricorrente.
Ne consegue che tale tipo di danno non necessita di alcun sostegno probatorio relativo al singolo caso: la parte non ha l’onere di provarlo, ed il giudice deve riconoscerlo e liquidarlo ogniqualvolta non ricorrano circostanze particolari, nel caso concreto, che facciano escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente. In conclusione le sez. Unite hanno ribaltato, rispetto al passato, l’onere della prova: non spetta più al ricorrente dover provare il danno sofferto, ma all’Amministrazione convenuta provarne l’inconfigurabilità del caso concreto.
Una siffatta lettura della norma di legge interna, a parere della Cassazione 1338/04, è imposta dall’esigenza di adottare un’interpretazione conforme alla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo, alla stregua della quale il danno non patrimoniale conseguente alla durata non ragionevole del processo, una volta che sia stata dimostrata la violazione dell’art. 6 della Convenzione, viene normalmente liquidato alla vittima della violazione, senza bisogno che la sua sussistenza sia provata, sia pure in via presuntiva.
L’art. 2 della legge 89/2001, inoltre, attribuisce, a chi ha subìto un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto della violazione del termine ragionevole di durata del processo di cui all’art. 6 della Cedu, il diritto ad una “equa riparazione”, fornendo al Giudice dell’equa riparazione i criteri di valutazione specifici da utilizzare nell’accertamento della durata del processo, dimostra di avere riguardo della specificità del caso concreto, non accettando cadenze temporali rigide.
All’art. 2, comma 2, invero, si legge che: “ Nell’accertare la violazione il giudice considera la complessità del caso e, in relazione alla stessa, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonché quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a comunque contribuire alla sua definizione”.
La Giurisprudenza di legittimità, a tale riguardo, in più di un’occasione si è orientata in tale modo: “Ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, il diritto ad un’equa riparazione in caso di mancato rispetto del termine ragionevole del processo, avente carattere indennitario e non risarcitorio, non richiede l’accertamento di un illecito secondo la nozione contemplata dall’art. 2043 cod. civ., né presuppone la verifica dell’elemento soggettivo della colpa a carico di un agente; esso è invece ancorato all’accertamento della violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, cioè di un evento “ex se” lesivo del diritto della persona alla definizione del suo procedimento in una durata ragionevole, l’obbligazione avente ad oggetto l’equa riparazione configurandosi, non già come obbligazione “ex delicto”, ma come obbligazione “ex lege”, riconducibile, in base all’art. 1173 cod. civ., ad ogni altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità dell’ordinamento giuridico.” [4].
Su questo problema la Corte di Cassazione [5] si è espressa ancora, stabilendo che: “in tema di diritto ad equa riparazione per violazione del ragionevole termine di durata di un processo (legge n.89 del 2001), il concetto di “termine ragionevole”, oltre a risultare ontologicamente diverso da quello di “tempo strettamente necessario per la trattazione della causa”, va altresì considerato in concreto, con riferimento, cioè, alla singola fattispecie procedimentale, in base ai criteri stabiliti dall’art.2 secondo comma della legge n.89 del 2001, avuto riferimento ai parametri cronologici elaborati dalla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo, le cui sentenze in tema di interpretazione dell’art.6, par.1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (ratificata in Italia con legge n. 848 del 1955), pur non avendo efficacia immediatamente vincolante per il giudice italiano, costituiscono, nondimeno, per questi, la prima e più importante guida ermeneutica.”
con una successiva sentenza [6] il Supremo Collegio ha finalmente statuito il principio per cui il meccanismo riparatorio introdotto dal legislatore italiano con la legge n. 89 del 2001 (c.d. legge Pinto), quanto al termine ragionevole della durata dei processi, deve mantenere una perfetta simmetria di contenuto con l’art. 6 § 1 della Convenzione Europea dei Diritti Umani, come in concreto questa norma vive attraverso l’esegesi della Corte di Strasburgo, la cui giurisprudenza si impone per quanto attiene all’applicazione della legge n. 89/2001, ai Giudici italiani.
L’unico residuo margine di discrezionalità in capo al giudice nazionale è dato con riferimento all’entità dell’indennizzo del danno conseguente alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo [7].
All’uopo, va richiamata la Giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che il 10 novembre 2004 [8] si è pronunciata in subiecta materia, affermando che “2) Criteri particolari al danno morale 27§. Per ciò che concerne la valutazione in equità del danno morale subìto in ragione della durata d’una procedura, la Corte reputa che una somma variante da 1.000 a 1.500 euro per anno di durata della procedura (e non per anno di ritardo) è una base di partenza per il calcolo da effettuare. Il risultato della procedura nazionale (sia che la parte ricorrente perda, vinca o finisca per concludere un regolamento amichevole) non ha importanza in quanto tale sul danno morale subìto dal fatto della durata della procedura. L’ammontare globale sarà aumentato di 2.000 euro se la posta in gioco della lite è importante segnatamente in materia di diritto del lavoro, di stato e capacità delle persone, di pensioni, di procedure particolarmente gravi in relazione alla salute o alla vita delle persone. L’ammontare di base sarà ridotto avuto riguardo al numero delle giurisdizioni che ebbero a pronunciarsi nel corso della durata della procedura, al comportamento della parte ricorrente – segnatamente al numero di mesi o di anni legato a dei rinvii non giustificati imputabili alla parte ricorrente – alla posta oggetto della causa – ad esempio quando la posta patrimoniale è poco importante per la parte ricorrente – ed in funzione del livello di vita del paese. …. Questo ammontare potrà essere ridotto parimenti quando la parte ricorrente avrà già ottenuto a livello nazionale una constatazione di violazione ed una somma di denaro nel quadro di una via di ricorso interno. Oltre al fatto che l’esistenza di una via di ricorso sul piano interno si armonizza pienamente con il principio di sussidiarietà proprio della Convenzione, questa via di ricorso è più vicina ed accessibile rispetto al ricorso davanti alla Corte, è più rapida, e si esercita nella lingua della parte ricorrente ; essa presenta dunque dei vantaggi che conviene prendere in considerazione “.
La stessa Corte di Strasburgo ha reiterato tali principi in tutte le sentenze emesse in pari data.
La Corte di Strasburgo ha aumentato da tre a dieci volte l’importo in precedenza liquidato ai ricorrenti dalle Corti d’appello italiane.
Tra l’altro, la Corte di Cassazione [9] ha sancito “l’obbligo specifico, per lo stesso giudice [italiano nd.r.], di prendere in esame, e di farsi carico criticamente, dei precedenti della Corte europea che si assumano pronunciati su casi identici o analoghi a quelli al suo esame”.
Va sottolineato che la disciplina della equa riparazione per la irragionevole durata del processo trova applicazione anche nella procedura fallimentare, in quanto la nozione di procedimento presa in considerazione dall’art. 6, par. 1, della citata Convenzione Europea, in conformità anche alla interpretazione fornita dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, riguarda anche i procedimenti esecutivi e in genere tutti i processi che appartengono alla giurisdizione, essendo condotti sotto la direzione o la vigilanza del giudice a garanzia della legittimità del loro svolgimento.
Infatti, la eccessiva durata della procedura concursuale, ha comportato per il ricorrente non solo un pregiudizio economico, ma soprattutto l’impossibilità di accedere liberamente al credito e di continuare a svolgere la propria attività imprenditoriale, unico sostentamento del proprio nucleo familiare.
La Giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, circa la qualità di vittima delle violazioni della Convenzione europea, è più ampia rispetto alle previsioni dell’ordinamento giuridico nazionale [10].
I Giudici italiani hanno fissato la durata ragionevole (che decorre dalla data del deposito dell’atto introduttivo del processo) del processo in primo grado, ora in quattro [11], ora in tre anni [12], salva sempre la valutazione della complessità del caso concreto e salvo sempre il fatto che i parametri cronologici individuati dalla giurisprudenza non possono che avere, in questa materia, un mero valore orientativo, non tassativo [13]. Per il secondo grado, invece, la durata ragionevole è stata indicata in due anni, ed in uno per i gradi successivi [14].
La Giurisprudenza della Corte Europea ha acclarato ragionevole la durata media del processo di primo grado se contenuta in tre anni (due anni e sette mesi se trattasi di cause di lavoro o di status) e dell’intero procedimento se contenuta in 4 anni, salvo casi particolari [15].
L’inevitabile conclusione è quella che, anche con riguardo al calcolo della ragionevole durata del processo, il rimedio interno non può essere considerato la mera replica del ricorso alla Corte di Strasburgo, pertanto i giudici italiani nel valutare la ragionevole durata del processo devono attenersi ai canoni stabiliti dalla Corte di Strasburgo.
Il Giudice italiano deve interpretare la l. n. 89/2001 in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea, entro i limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della l. n. 89/2001; qualora ciò non sia possibile ed egli dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale interposta, deve investire la Corte costituzionale della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto all’art. 117 Cost., comma 1, restando escluso che possa procedere alla “non applicazione” della prima.
La Corte Europea ha anche rilevato come sovente il protrarsi della procedura fallimentare sia imputabile a carenze del sistema legislativo italiano in materia di fallimento, che impediscono una conclusione dei procedimenti in tempi certi.
La lentezza della procedura fallimentare è stata ripetutamente portata all’attenzione della CEDU, che ha rilevato la violazione degli artt. 6 par. 1, 8 e 13, CEDU, relativi rispettivamente al diritto ad un processo equo sotto il profilo della ragionevole durata, al rispetto della vita privata e familiare e al diritto ad un ricorso effettivo (limitatamente alla doglianza relativa alla durata delle incapacità del fallito, con riferimento alla prolungata limitazione del diritto al rispetto della corrispondenza del fallito che è sottoposta al controllo del curatore).
La procedura fallimentare è caratterizzata, di regola, da una peculiare complessità in considerazione sia della presenza – nella maggioranza dei casi – di una pluralità di creditori, sia della necessità di un numero di adempimenti non semplici (relativi all’accertamento dei crediti, alla individuazione e definizione dei rapporti in corso, al recupero dei crediti, alla ricostruzione dell’attivo, alla liquidazione), stabiliti proprio al fine e nel tentativo di realizzare al meglio i diritti dei creditori.
Nulla di tutto ciò può dirsi con riferimento al caso di specie : pochissimi creditori, nessuna attività di recupero crediti da parte della Curatela fallimentare, nessun bene da riportare nella massa attiva e da distribuire ai creditori.
Avv. Rosanna Cafaro
________
[1] Cfr., Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sent. 25.6.1987, Capuano c./ Italia (primo caso italiano di non ragionevole durata di un processo civile).
[2] Bozza, La ragionevole durata del giusto processo, la legge Pinto e il processo fallimentare, Il Fallimento, 2002, pag. 299 ss.).
[3] C. Cass. S.U., 26.1.2004, n. 1338.
[4] C. Cass., 22.10.2002, n. 14885.
[5] C. Cass., 2 febbraio 2004, n. 4207.
[6] C. Cass, 17.6.2004, n. 1135010.
[7] Vedi sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione del 26.1.2004, n. 1340, e la sentenza del 5.5.2004, n. 8529.
[8] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo), sez. I, Presidente ROZAKIS, sentenza del 10.11.2004, caso Musci contro Italia, ricorso n. 64699/01.
[9] C. Cass., 5.5.2004, n. 8529.
[10] In un caso esattamente, in cui il ricorrente alla Corte di Strasburgo lamentava la eccessiva durata di un processo iniziato dal padre cinque anni prima della sua morte e proseguito ad istanza del figlio ricorrente, la Corte di Strasburgo ha preso in considerazione l’intero processo, non espungendo il periodo anteriore alla morte del de cujus del ricorrente, aggiungendolo al periodo in cui lo stesso ricorrente era succeduto nel giudizio del diritto controverso in causa, davanti a giudici nazionali; Vedi anche, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, caso Ceyhan Demir et autres c. Turquie (Requête n. 34491/97) sent. 13.1.2005, § 52; Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, caso MASALA c. Italie (Requête n. 44496/98) sent. 25.10.2001, § 55.
[11] C.App. Genova, decr. 28.8.2001.
[12] C. App. Torino. decr. 25.6.2001.
[13] C. Cass. 17.10.2002, n. 417.
[14] C. Perugia, 13.2.2002.
[15] Rizio c. Italia n. 49357/99, del 25/10/2001: materia civile, obbligazioni, durata del procedimento 3 anni e 7 mesi per il solo primo grado, importo liquidato 5.000.000 ITL; Pasquale De Simone c. Italia n. 42520/98, dell’1.3.2001: materia civile, obbligazioni, durata del procedimento 3 anni e 5 mesi per il solo primo grado importo liquidato 6.000.000.ITL; Di Donato e altri 3 c. Italia n. 41513/98: materia penale, 12.000.000.ITL per ogni ricorrente, 4 anni e 3 mesi per un grado.
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