Risarcimento per sovraffollamento carcerario

AR redazione 19/11/14

Una lettura “comunitariamente” orientata dell’art. 35 ter, co. I, legge, 26 luglio 1975, n. 354.

 

Nota a ordinanza, Ufficio di Sorveglianza di Roma, giud. estens. Dott.ssa V. Stefanelli, 20 ottobre 2014, Parere conf. P.M.[1].

 

Nel provvedimento su emarginato, è stato affrontato il tema inerente il risarcimento del detenuto per condizioni carcerarie contrarie all’art. 3 CEDU. Nello specifico, il reclamante si doleva di come sia stato e di come è tutt’ora allocato «in camere ove ha avuto a disposizione uno spazio inferiore a 3mq» e di avere inoltre «problemi in ordine alla fornitura dell’acqua calda ed in ordine alla carenza di operazione del bagno».

 

Ebbene, a fronte di tali doglianze, il magistrato di sorveglianza di Roma ha ritenuto di rigettare la richiesta di riduzione della pena pari ad 1/10 di quella inflitta. In particolare, in detta decisione, si è ritenuto di dover respingere la suesposta richiesta attraverso un’attività istruttoria in cui la direzione della Casa Circondariale di Roma – Rebibbia n.c. ha prodotto una nota in cui sono state indicate, da un lato, in quali stanze di quale reparto il detenuto è stato allocato di volta in volta, dall’altro, la dimensione di ciascuna stanza e il numero di compagni di cella. Orbene, siffatto modo di procedere si pone, ad avviso dello scrivente, in perfetta consonanza con quell’orientamento nomofilattico alla stregua del quale: nel  «procedimento di sorveglianza non sussiste un onere probatorio a carico del soggetto che invochi un provvedimento giurisdizionale favorevole, ma solo un onere di allegazione, cioè il dovere di prospettare e indicare al giudice i fatti sui quali la richiesta si basa, incombendo poi all’autorità giudiziaria il compito di procedere ai relativi accertamenti»(Cass. pen., sez. I, sentenza ud. 11/11/2009 (dep. 3/12/2009), n. 46649, in CED Cass., 2009). A fronte dell’assenza di elementi probatori, puranco di natura indiziaria, da cui poter inferire il contrario, il magistrato di sorveglianza, nel provvedimento in esame, ha difatti correttamente agito in conformità con quanto stabilito dall’art. 666, co. V, c.p.p., «che impone al giudice l’obbligo di provvedere d’ufficio all’acquisizione di documenti e informazioni ovvero, ove occorra, all’assunzione di prove; norma che è tenuto ad osservare anche il giudice di sorveglianza nelle materie di sua competenza (Cass., Sez. 5, 14 novembre 2000, n. 4692, Sciuto, rv. 219253)» (Cass. pen., sez. I, sentenza ud. 11/11/2009 (dep. 3/12/2009), n. 46649, in CED Cass., 2009).

 

 

 

Siffatta attività di acquisizione probatoria, a sua volta, è perfettamente in linea con quanto affermato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Invero, dal momento che quest’organo di giustizia comunitaria «ha ritenuto che integra un “trattamento inumano e degradante” l’avere messo a disposizione del detenuto uno spazio inferiore a quello suddetto (ossia 3 metri quadri ndr.) e ciò indipendentemente dalle altre condizioni di vita detentiva», ne è stata fatta discendere la conclusione alla stregua della quale: «ove il detenuto non abbia a disposizione almeno detta metratura sussiste una presunzione iuris et de iure di trattamento inumano o degradante, senza che si possano o si debbano valutare le altre condizioni della vita detentiva e il regime trattamentale effettivamente praticato in istituto». Tale approdo ermeneutico è stato ulteriormente sviluppato, sempre nell’ottica di renderlo conforme al quadro ermeneutico comunitario, nel senso che, sulla scia di quanto affermato nella sentenza Sulejmanovic c/Italia del 16.7.2009, «ai fini del calcolo della superficie a disposizione del soggetto detenuto deve adottarsi un criterio che tenga conto dello spazio “effettivamente vivibile” della camera detentiva, escludendo, quindi, dalla superficie utile sia i locali adibiti a servizi igienici sia gli arredi “inamovibili” che sottraggono alla persona spazio fruibile» ossia «gli spazi occupati dal cd. “mobilio fisso”, quale armadio, anche pensile,  ove collocato in modo tale da non rendere calpestabile lo spazio sottostante». Tale criterio, ad opinione di chi scrive, è stato correttamente adoperato in quanto, anche se non è dato sapere, dalla lettura dell’ordinanza, se nella nota su indicata siano stati esclusi i locali adibiti a servizi igienici o gli arredi inamovibili, è stato però rilevato, alla luce di altre informative pervenute sempre dalla Direzione di quella Casa circondariale, «che le celle dei reparti in questione, che sono di dimensioni e allestimenti standard, hanno mobili fissi a parete collocati ad un’altezza del pavimento tale da consentire la vivibilità dello spazio calpestabile e che i bagni delle stanze multiple (a più posti letto) di detti reparti sono collocati in ambienti separati». Va da sé quindi che, sempre ad avviso di chi scrive, gli spazi su indicati non dovevano essere considerati nella loro integralità non potendosi considerare né il mobilio fisso, né i bagni, idonei ad incidere sullo spazio “effettivamente vivibile” della camera detentiva. Di talchè è condivisibile il ragionamento decisorio utilizzato in questo decisum ossia quello di detrarre, dallo spazio detentivo interamente vivibile, lo «spazio occupato da bagno e da arredi cd. “fissi”».

 

Qualche (apparente) profilo di criticità potrebbe riguardare la questione inerente l’uso dei servizi igienici e la mancata erogazione dell’acqua calda. Infatti, nella nota sentenza Torreggiani, è stato asserito che, pure quando il sovraffollamento non sia così serio da sollevare da solo un problema sotto il profilo dell’articolo 3 CEDU, vanno comunque presi in considerazione, nell’esame del rispetto di tale disposizione, altri aspetti delle condizioni detentive e tra questi, ad esempio, la possibilità di utilizzare i servizi igienici in modo riservato. Pur tuttavia, anche sotto tale versante, il magistrato di sorveglianza capitolino ha compiuto un’adeguata attività probatoria sicchè, in virtù di quanto precisato dalla Direzione dell’Istituto di pena, è emerso, in assenza di elementi probatori di segno avverso dotati di una certa consistenza quanto meno indiziaria (almeno come risulta dalla lettura dell’ordinanza in commento), per un verso, «che l’intera popolazione detenuta dispone di docce con erogazione di acqua calda», per altro verso, «che il cd. “bagno a vista”, presente in cella singola mai messa a disposizione del reclamante, è dotato di un separè amovibile per consentire la riservatezza».

 

Rimarrebbe invece un altro (potenziale) profilo di criticità astrattamente riconducibile nella previsione normativa di cui all’art. 35 ter della legge n. 354 del 1975 e segnatamente in virtù del fatto che, come ammesso dalla stessa Direzione dell’istituto di pena, vi sono stati casi di temporaneo malfunzionamento dell’acqua calda. Detti episodi, però, sempre secondo quanto dichiarato dalla stessa Direzione, sarebbero stati occasionali (come si evince dall’uso dell’avverbio “talvolta”) e «risolti in tempi congrui». Tal che la occasionalità di dette vicende e la loro breve durata non dovrebbero consentire di poter ravvisare una violazione dell’art. 3 CEDU sicchè, secondo quanto rilevato sempre in sede comunitaria, tra i fattori, che possono rilevare per stabilire se un trattamento detentivo sia inumano o degradante o meno, vi è quello della durata(Enea c. Italia) o gli effetti che un trattamento di questo tipo dispiegano nei confronti della psiche e della salute del ristretto(Ogaristi c. Italia). Orbene, se, come appena visto, la durata di tali vicende è stata assai breve, non vi è traccia (o quanto meno non è stata fatta nell’ordinanza in commento alcuna menzione di ciò) di alcuna prova documentale (perizia) o presuntiva (patologie psichiatriche riportate del diario clinico) da cui evincere che quel reclamante, a causa della mancanza di acqua calda, abbia riportato e stia riportando tutt’ora pregiudizi di natura psico-fisica. Anche in questo caso, dunque, attenendoci al tracciato argomentativo, vi è una conferma della conformità di tale provvedimento rispetto a quanto statuito dall’art. 3 CEDU così come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

 

In conclusione, il provvedimento in argomento è indubbiamente connotato da un compendio motivazionale coerente e rispettoso dei principi di diritto elaborati sia a livello comunitario, che a livello domestico. Di conseguenza, è stata garantita, come recentemente richiesto in una pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo, «l’effectivité des recours tant en théorie qu’en pratique»(Corte europea dei diritti dell’uomo, Sez. II, n. 47180/10 del 16 settembre 2014, § 67) anche alla luce delle argomentazioni sostenute dal detenuto nel reclamo su emarginato.

 

 

 

 

 

 


[1]Il testo del provvedimento è disponibile sul seguente sito internet: http://www.osservatoriopenale.it/images/pdf/Stefanelle_2014.pdf.

AR redazione

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